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La natura può curarci dalla dipendenza dal digitale?

Nel cuore della crisi ecologica e sanitaria che stiamo vivendo, un dato inquietante emerge con forza: i giovani stanno male. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, quasi la metà dei ragazzi italiani tra gli undici e i diciasette anni presenta almeno due sintomi psicosomatici più volte a settimana. Un disagio che, come conferma anche la Società Italiana di Psichiatria, ha conosciuto un’impennata dopo la pandemia, coinvolgendo oltre 700.000 giovani con diagnosi di depressione o disturbi mentali.
Ma non è tutto: ad inizio 2023, secondo l’Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children, il 47% degli adolescenti dichiarava di trascorrere più di cinque ore al giorno online. Il 37% controlla lo smartphone più di dieci volte al giorno.

Questa esposizione prolungata al digitale ha effetti misurabili anche sulla salute mentale e sul benessere cognitivo. Si inizia a sentir parlare di zombie scrolling, ovvero lo scorrimento senza scopo, automatico e incessante di contenuti, per lo più pubblicati sui social; e di doomscrolling, uno scorrimento continuo e ansiogeno tra notizie negative, che può generare depressione o una sorta di psicosi apocalittica.
In risposta a questo quadro preoccupante, si fa sempre più strada un’ipotesi radicale ma fondata: che la natura possa rappresentare un potente antidoto a questa deriva.
Studi consolidati nel campo della psicologia ambientale confermano che il contatto con la natura riduce lo stress, migliora le funzioni cognitive e sostiene il benessere psicologico.

Roger Ulrich, psicologo dell’ambiente e docente di architettura dell’Università del Texas, in una celebre ricerca del 19841, dimostrò che anche solo la vista di un paesaggio naturale accelerava il recupero dei pazienti post-operatori rispetto a chi vedeva un muro.
I Fratelli Kaplan, professori e psicologi alla Michigan University, hanno elaborato nel 1989 la “Attention Restoration Theory2, secondo cui ambienti naturali sono in grado di rigenerare le risorse attentive affaticate dalle richieste cognitive delle città e del lavoro digitale.
Non è un caso che molte scuole, soprattutto nel Nord Europa, stiano sperimentando la “outdoor education” come strumento per migliorare la concentrazione, ridurre l’iperattività e rinforzare l’empatia nei bambini.  In Giappone, il “forest bathing” – lo shinrin-yoku – è una pratica riconosciuta dal Ministero della Salute, capace di ridurre i livelli di cortisolo e rafforzare il sistema immunitario.

La psicologa ambientale Rita Trombin, in un’intervista, racconta di come sia guarita da una grave malattia grazie alla permanenza in un ospedale immerso nella natura: «Vedevo gli alberi muoversi, sentivo il vento, la pioggia: tutto questo ha avuto un impatto fondamentale sul mio recupero». Da quella esperienza è nata la sua ricerca, che oggi porta avanti in progetti europei di design biofilico e connessione terapeutica con l’ambiente naturale.

A partire da queste evidenze, la riflessione filosofica ha sviluppato il concetto di ecosofia.
Il termine, coniato da Arne Naess, filosofo norvegese fondatore dell’ecologia profonda, indica una saggezza ecologica che riconosce l’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi. È un invito a superare l’antropocentrismo moderno per riconoscere l’umano come nodo di una rete di relazioni che coinvolge piante, animali, suolo, aria e acqua.
Gregory Bateson, nel suo celebre Mente e Natura, scriveva: «La mente è un processo sistemico, non una cosa localizzata nella testa. L’apprendimento e il pensiero nascono da un circuito più vasto, che include il corpo e l’ambiente» (G. Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984, p. 104).

Recuperare questa visione significa rivedere anche il modo in cui ci relazioniamo alla tecnologia. Lungi dall’essere demonizzata, essa va reinserita in un contesto di senso più ampio. Oggi lo scrolling compulsivo è spesso una forma di fuga da un disagio interiore, ma come scrive Thich Nhat Hanh: «La solitudine è la sofferenza della nostra epoca. Anche se siamo circondati da altre persone, possiamo sentirci molto soli. Siamo soli stando insieme. Dentro di noi c’è un vuoto che ci fa sentire a disagio, così cerchiamo di riempirlo mettendoci in contatto con altre persone» (T.N. Hanh, L’arte di comunicare, ed. Macro, 2023, p.13).

Le pratiche in natura possono allora diventare esperienze filosofiche incarnate: camminare nei boschi, coltivare un orto, ascoltare il silenzio, osservare il ritmo delle stagioni. Atti semplici che rompono il dominio del tempo accelerato e riconnettono alla vita in forme più lente, più corporee, più vere. Il pensiero ecologico di oggi, da Merleau-Ponty a David Abram, ci ricorda che siamo carne del mondo, non entità staccate. Il corpo sente, percepisce, si orienta nello spazio grazie a una intelligenza che è anche natura. In conclusione, se i dati scientifici ci dicono che il digitale può ammalarci, ma che la natura può guarirci, allora l’ecosofia non è solo una bella idea: è una necessità. Coltivare la relazione con il mondo vivente non è un lusso poetico, ma una via concreta di cura e di trasformazione. Per tornare ad abitare il mondo non come utenti, ma come terrestri.

 

NOTE
1. Cfr. R.S. Ulrich, Visual landscapes and psychological well-being, Landscape Research, London 1991, pp. 17–23.
2. Cfr. R. Kaplan, S. Kaplan, The experience of nature: A psychological perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1989.
[Photo credit Mae Kabanos via Unsplash.com]

Martina Notari

generativa, leggera, autentica

Ciao, mi chiamo Martina, ho 40 anni e sono giornalista professionista e Naturopata. Vivo in Toscana, a Quarrata, in provincia di Pistoia e dal 2020 sono mamma della mia splendida Diana. Mi sono laureata in Filosofia e Forme del Sapere all’Università di Pisa nel 2007, con una tesi su Machiavelli e le sue commedie. Nel […]

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