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Uccidere o lasciar morire: cos’è davvero l’eutanasia?

Le parole cambiano spesso di significato, nell’uso e nel contesto, e ciò è fonte di equivoci. Una delle difficoltà principali, quando si parla di filosofia, è sicuramente rappresentata dal linguaggio specifico: già è difficile capirsi tra esperti del settore e le cose si complicano quando si tenta l’approccio con il grande pubblico.
Per appianare le difficoltà e aprire la strada a un reale dialogo non occorre altro che chiarire a sé e agli altri l’uso del proprio linguaggio. Questo risulta tanto più necessario quando i temi da discutere riguardano valutazioni di tipo etico e, nel caso specifico, la questione dell’eutanasia.

Innanzitutto è bene ricordare che in ogni discorso sull’agire umano è possibile distinguere un piano descrittivo (che spiega ciò che si fa) e uno valutativo (che chiarisce le motivazioni e le intenzioni per cui si agisce) e che il linguaggio ordinario spesso confonde i due livelli: una valutazione implica sempre una descrizione, ma non è sempre vero il contrario.
Per dare una valutazione morale occorre, quindi, chiedersi: in cosa consiste l’eutanasia e quali sono i criteri che ne garantiscono la legittimità? La sua descrizione e valutazione coerenti permetteranno di “approvarne” o meno la messa in opera.

Per eutanasia (letteralmente “buona morte”) si intende l’atto con il quale si provoca direttamente e volontariamente il decesso di una persona affetta da gravi malattie o disabilità e può essere esercitata su individui consenzienti e coscienti (da qui la formula di suicidio assistito) oppure no.

Altri casi da considerare sono l’abbandono terapeutico e assistenziale (che indica l’omissione di tutti quegli atti proporzionati alla situazione clinica del paziente ma che, in quanto omessi, ne favoriscono la morte) e la cessazione dell’accanimento clinico (che intende l’interruzione di tutti quei trattamenti che causano più danni che benefici e quindi non sono più considerabili terapie). Tra i due casi si colloca la perseveranza terapeutica, ossia la modalità con cui ci si prende cura dell’individuo malato adeguatamente: con terapie, laddove ci siano possibilità di miglioramento, o con cure palliative, qualora lo si debba accompagnare alla morte nel modo meno traumatico possibile.

Chiariti i termini del discorso – e le sostanziali differenze che li separano da quello di eutanasia –, appare evidente che la distinzione tra atti che uccidono e altri che lasciano morire non può e non deve essere fatta né riferendosi all’esito dell’azione (che è sempre la morte), né alla sola volontà del paziente. Se un furto diventa un prestito qualora le due parti si accordino, l’eutanasia non smette di essere un omicidio se c’è consenso o richiesta, poiché la differenza sta nel fatto che la vita non è un bene di scambio, ma il modo d’essere di una persona. Sebbene occorra sempre ricordare che la morte è un evento naturale e avviene al di là della volontà dell’uomo e delle sue scelte, ogni atto nei riguardi dell’altro dev’essere fatto preservandone fino alla fine la persona, tenendo conto della sua condizione concreta: la valutazione deve avvenire sempre in situazione.

Ebbene: in tutti i casi causare direttamente la morte equivale a piena colpevolezza da un punto di vista prettamente morale (ma non etico); in altri omettere atti salvavita rende colpevoli moralmente per non aver agito al fine di evitare volontariamente un determinato esito, anche se non è imputabile la causazione diretta del morire (quella che provoca la morte, in fondo, è la malattia); in altri ancora l’atto della sospensione dei trattamenti è moralmente doveroso, così come la volontà di rinuncia del paziente in simili casi. È infatti necessario tenere a mente che, anche quando pare che non ci sia più nulla da fare, c’è ancora molto da fare, perché è necessario assistere il morente, non prolungandone l’agonia, né provocandone la morte, ma riducendone quanto più possibile la sofferenza.

In ogni caso, al netto di definizioni e argomentazioni, resta da tener presente il criterio cardine della vita morale: il rispetto della persona impone, infatti, il dovere di rispettarne la coscienza morale e le decisioni, quand’anche potessero essere considerate come moralmente errate.

 

[Photo credit Piron Guillaume via Unsplah]

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