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Se conservare significa rivoluzionare

A breve si compiranno i novant’anni da quando in un giorno del 1917 Hugo von Hofmannsthal coniò la controversa espressione “rivoluzione conservatrice”. L’epiteto vuole provocatoriamente accostare due termini che letteralmente non potrebbero stare insieme: la rivoluzione è per essenza il movimento volto alla sovversione di ordini politici, sociali, culturali, che tendono a resistere, imporsi, mantenere il loro status e perciò a conservarsi.

Eppure, in uno scritto dal titolo Gli scritti come spazio spirituale della nazione, Hofmannsthal afferma la necessità di un processo culturale che definisce proprio «rivoluzione conservatrice»1. L’obiettivo dello scrittore era cercare di ridare senso all’essenza culturale europea che stava crollando non solo sotto le bombe della prima guerra mondiale, ma anche sotto i colpi di quella trasformazione dalla portata globale che ancora oggi ci investe e che si traduce nel dominio di quell’«io internazionale dai mille volti»2. Questa figura funge da nuovo soggetto che vuole sovrastare un mondo che assume sempre più la forma dell’apparato tecnico dominato da rapporti economici. Nel mondo del «tutto dipende dal denaro»3 tutto è un divenire immerso in un «relativismo ineffabile»4 che pare impossibile se non ridicolo ricongiungere sotto una direzione unitaria.

In questo contesto, anziché alimentare e favorire quella che viene definita l’«ammaliante e provocante libertà»5 di questo soggetto vacuo, Hofmannstahl invita a pensare il senso del legame: il legame inteso come unità spirituale di una comunità che si riconosce come nazione, accomunata da un sentire e da un linguaggio che non è solo mezzo per la comprensione, ma espressione di quella vibrazione originaria che chiude in un cerchio solo chi parla e chi ascolta, chi scrive e chi legge. I valori liberali e socialdemocratici che andavano sviluppandosi e che avrebbero costituito l’esperienza della Repubblica di Weimar erano visti come inizio dello smembramento dell’essere e del sentire del popolo, che doveva adeguarsi a un sistema sociale ed economico ad esso estraneo e dannoso.

Facile comprendere come, dati i tempi in cui queste riflessioni si facevano strada non solo nella mente di Hofmannsthal, ma anche di personaggi come Jünger, Heidegger, Spengler e altri, i discorsi sulla nazione, sul comune sentire, sul sentimento völkisch potevano assumere tratti devianti e inquietanti. Molti dei protagonisti di questo movimento dovranno rispondere delle accuse di appartenenza al nazismo. Né è un segreto che il nazismo stesso abbia assunto da quell’humus culturale parte della propria energia, ponendosi come risposta a quella forte tendenza globalizzatrice e, ai loro occhi, distruttrice, che andava costituendosi già allora.

Ma al di là delle implicazioni storiche e delle deviazioni che il movimento conservatore tedesco di allora subì, possiamo ancora trarre linfa positiva dalle istanze quella particolare rivoluzione voleva porre? Di fronte alle similitudini che il nostro mondo ancora possiede verso quel periodo (le bombe, il caos culturale, la diffusione dell’apparato tecnico come strumento di dominio planetario), hanno quegli autori qualcosa di ancora intensamente valido?

Per chi scrive questo articolo le domande sono retoriche: riferirsi a un contesto originario di legami, tradizioni, relazioni, costituisce il punto di partenza primario per un discorso concreto riguardo un qualcosa che possa darsi come “popolo” o “nazione”. Non si tratta di riferirsi a ideali astratti o invenzioni di comodo, che sono il rovescio della medaglia. Il radicamento dell’uomo al proprio contesto, cioè al suo tempo, al suo spazio, ai suoi modi di vivere e il pensiero intorno a queste cose sono la base culturale ultima che possa porsi come punto di partenza per una ricostruzione nazionale o europea.

Ecco perché alla luce degli stravolgimenti di cui quotidianamente sentiamo parlare troviamo in quelle energie che animarono il centro Europa e nei suoi rappresentanti un invito a pensare il nostro stare al mondo in modo più concreto e vicino al nostro essere proprio, al di là di slogan astratti e propositi buoni ma vani.

Ogni stato e ogni confederazione possono comprendersi a partire da come gli uomini al suo interno vedono e pensano se stessi. Educare alla comprensione del sé e di ciò che è circostante deve essere il primo obiettivo politico. Per questo quegli strani letterati e rivoluzionari non lanciano altro che un invito a ricominciare a ricostruire il proprio tempo a partire da sé prima che da un mondo esterno ed estraneo.

Luca Mauceri

NOTE:
1. Hugo von Hofmannsthal, Gli scritti come spazio spirituale della nazione, in Id., La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia, 2003, p. 72.
2. Id., L’idea di Europa. Note per un discorso, in Id., La rivoluzione conservatrice europea, cit., p. 33.
3. Ivi, p. 34.
4. Ibidem.
5. Ivi, p. 22.

Luca Mauceri

ironico, sognatore, procrastinatore

Sono nato e cresciuto a Treviso, ora vivo e lavoro a Padova. Mi sono laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dopo essermi appassionato di filosofia antica e contemporanea. Ho pubblicato il saggio La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino (Orthotes) e quando non passeggio o ascolto musica, scrivo articoli e racconti per […]

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