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L’origine del male secondo Hannah Arendt

Nel 1961 Hannah Arendt chiese esplicitamente al settimanale New Yorker di essere inviata come corrispondente a Gerusalemme per seguire il processo al funzionario e militare nazista Otto Adolf Eichmann (1906-1962). La pensatrice politica seguì con attenzione tutte le centoventi sedute del processo al gerarca nazista che era stato catturato dai servizi segreti del neonato stato di Israele a Buenos Aires, dove si era rifugiato con una nuova identità sfuggendo al processo di Norimberga del 1946.

Eichmann era stato responsabile dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Con questa funzione aveva coordinato l’organizzazione dei trasporti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato e poi condannato a morte per impiccagione, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “solo di trasporti”. Il resoconto di quel processo e le riflessioni che Arendt fece in presa diretta, vennero poi raccolte – con ampliamenti e leggere revisioni – nel celebre libro La banalità del male. Un testo che ha avuto un grande successo internazionale e che è stato altresì contestato – con sommo dispiacere di Arendt stessa – la quale ha lottato strenuamente a livello intellettuale, per far comprendere le sue tesi anche a coloro che non ne avevano colto fino in fondo la profondità.

In questo testo Arendt ha proposto la nozione di “banalità del male” evidenziando il tratto più pericoloso di Eichmann: la sua assenza di pensiero e l’implosione della coscienza. Quest’ultima, nel gerarca nazista, si era assopita non lasciando spazio alla consapevolezza, allo scrupolo, al senso di colpa. È qui che si gioca quella che Arendt ha definito la “banalità del male”. Obbediente allo spirito della storia Eichmann era diventato un esecutore meccanico di ordini, un piccolo ma fondamentale ingranaggio di una macchina infernale che altrimenti non avrebbe potuto funzionare così “bene”.

L’autrice rimase colpita dall’assoluta mediocrità di Eichmann, dalla sua superficialità. Le azioni compiute dal funzionario tedesco erano mostruose, ma l’agente era ordinario, non aveva alcunché di demoniaco. Era un animo semplice che obbediva, in maniera a-critica, allo spirito della storia. Scrive Arendt: «Quando io parlo della “banalità del male”, lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Machbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” – come Riccardo III – per fredda determinazione» (H. Arendt, La banalità del male, 2014). Punto focale della riflessione dell’intellettuale tedesca è la constatazione del fatto che il criminale nazista non aveva nulla di malvagio e non aveva nei suoi gesti precipue intenzioni di compiere il male.

«Egli non capì mai che cosa stava facendo […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo» (ivi).

Facilmente fanno qui capolino le critiche all’analisi proposta da Arendt che viene accusata di assolvere, di giustificare, di svalutare quanto accaduto per opera dello stesso Eichmann. Niente di più distante dal pensiero e dagli intenti della pensatrice tedesca. La sconvolgente lezione che Arendt sostiene di aver appreso dal caso Eichmann e che ci ha tramandato è lì ad ammonirci che la “banalità del male” è quanto di più pericoloso possa presentarsi per l’uomo sul palcoscenico della storia. I piccoli complici che non pensano e obbediscono supinamente allo spirito del tempo sono il vero pericolo. Eichmann era un uomo assolutamente normale sostiene Arendt ma «questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica […] che questo nuovo tipo di criminale […] commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male» (ivi).

Parafrasando Arendt possiamo dunque affermare che il suddito ideale di un regime totalitario non è il comunista convinto o il nazista convinto, ma l’individuo per il quale non esiste più la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso. Abdicare al pensiero critico, rinunciare a interrogarsi, escludere la vigilanza interiore, finisce per impedire di riconoscere il male, estromettendo l’uomo dall’orizzonte etico. Di Eichmann, Arendt mette in risalto la peculiare superficialità, lo iato fra azione e pensiero, fra emozioni e razionalità. Quest’ultima ridotta a mero ossequio di ordini giunti dall’alto. Al quale si aggiunge la totale incapacità di percepire e sentire l’altro da sé come un essere umano dotato di medesima dignità.

La lezione senza tempo del messaggio arendtiano è quella di non abdicare all’esercizio del pensiero critico, non tanto come mero processo cognitivo ma come pratica di vita. Affinché il vuoto dal quale Eichmann era attraversato non diventi la regola che preannuncia tragedie umane, è necessario educarsi al pensiero autonomo e riattivare la vigilanza della coscienza. Sono questi gli unici antidoti al cedimento morale e all’allineamento dilagante che permea la nostra società. Scrive Arendt:

«La manifestazione del lieve vento del pensiero non è la conoscenza: è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei vari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé» (H. Arendt, La vita della mente, 2009).

 

Alessandro Tonon

 

[Immagine tratta da Unsplah.com]

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Alessandro Tonon

curioso, attento, riservato

Sono nato nel 1991 a Conegliano e cresciuto a Castello Roganzuolo, frazione del comune di San Fior dove vivo attualmente. Dopo la maturità scientifica ho conseguito la laurea triennale in filosofia e successivamente la laurea magistrale in scienze filosofiche presso l’università Cà Foscari di Venezia (2015). In seguito ho conseguito il master universitario triennale in […]

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