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Longyearbyen, (quasi) al Polo Nord

Ci prepariamo per partire alla volta della vetta di Sarkofagen, io e Olaf, la mia guida finlandese, entrambi spettinati dal vento impetuoso e intenti a masticare un inglese del tutto sgrammaticato. Mosh, il suo cane groenlandese, si assopisce disteso vicino al suo zaino stracolmo, in attesa di partire. “Non puoi immaginare quanto sia spaventoso un orso polare”, inizia a raccontarmi, “Una forza e una ferocia sanguinaria racchiusa in una stazza portentosa che non lascia scampo a nessuno. Proprio un anno fa, lassù, su quella montagna, a poche centinaia di metri dal tuo ostello, una ragazza è stata sbranata da uno di questi formidabili predatori, e solo perché non aveva seguito l’esempio dell’amica che pur di salvarsi la vita si era gettata giù dal dirupo. Loro sono state molto sfortunate certo, perché la possibilità di incontrare un orso polare appena fuori dalla città è remota, isolata, a tratti impensabile, ma la vita è abbastanza lunga perché si possa essere sfortunati almeno una volta e noi non vogliamo esserlo, giusto?”, conclude sorridendo, un poco ironico, caricando l’ultima cartuccia nel fucile.

Se si è capaci di far fronte alle aspre intemperie artiche, le isole Svalbard diventano la concretizzazione della vita più prossima al più vero significato della libertà. La si ottiene pagandone lo scotto che pretende. Per godere della fedeltà di una muta di cani groenlandesi bisogna sopportare l’eternità della notte polare, per vagabondare tra gli anfratti abbandonati di Pyramiden occorre procacciarsi la carne per sopravvivere all’inverno. È una terra che lascia l’universo a disposizione a patto che lo si sappia affrontare, che gli si sappia resistere, perché cercherà sempre di riprendersi il maltolto. Non mi voglio soffermare sulla maestosità dei paesaggi che hanno riempito i miei occhi, sarebbe tautologico oltre che dispersivo, ma intendo piuttosto pormi contro la filosofia della vile inazione che freme di terrore ancor prima di vedere cosa produce quell’ombra sulla parete: quando si pensava che fosse qualcosa di assolutamente infattibile e invece bastava muovere un piede in avanti, uno solo, per tastare il terreno e vedere che in realtà non frana sotto il nostro peso come invece ci era stato presagito. È l’educazione alla paura, alla salvaguardia di sé spinta sino al ridicolo. Non bisogna temere i problemi perché anche se li prevediamo qualcuno sfuggirà alle nostre attenzioni, sempre, per ripresentarsi quando meno ce lo aspettiamo. Bisogna piuttosto imparare ad affrontarli con lucida coscienza perché dove c’è un problema c’è la soluzione, dove non c’è la soluzione, non c’è il problema.

Questo viaggio è stato come una cerimonia, un’iniziazione a qualcosa di indefinito che ha smosso la diga che arrestava il fluire dei miei passi, un passaggio oltre un’esistenza di indecisioni che si è finalmente tradotta in una chiara consapevolezza di quel che deve essere il mio destino. Come se avessi deliberatamente cercato il suicidio più spettacolare, la fossa più sperduta in cui gettare le mie reliquie malconce, sotto i ghiacci, nel fango, disperse come nevischio negli impetuosi venti del nord più estremo, solo per calzare finalmente la pelle coriacea di un esploratore dell’Artico. La scelta è indifferente, gli estremi portano entrambi alla stessa conclusione: bene, male, nord, sud, il traguardo è sempre una tetra landa buia e innevata perché i poli del mondo e i poli dell’uomo sono identici, frastagliati, avvolti in un azzurro lugubre e onnipresente, relegati nel bianco più assoluto che tutto cancella. E in uno di questi devo tornare per mettermi alla prova, devo, e basta, perché di questo piccolo pianeta blu ormai non c’è più nulla da dire.

E il ritorno a Oslo non ha fatto che accentuare questa certezza forse irrealizzabile. Scrivo dopo essere rientrato da una passeggiata alla cieca tra le vie inquiete che costeggiano l’argine del fiordo. È una città che concentra il suo formicolare, la sua pubblicizzazione, il suo aspetto europeo in unico punto, dal quale basta allontanarsi per pochi minuti per sprofondare immediatamente in un imo buio grigiastro. La gente qui sembra aver lo spirito stanco, satollo, e di non desiderare altro che appagare un consumante bisogno fittizio rimbalzando da un negozio all’altro per accaparrarsi il capo più mondano, come se per valorizzare la loro giornata non avessero altra scelta se non quella di arricchire il loro personale patrimonio. Tutti tacciono, tutti sfilano come fantasmi sui bus saettanti, si chiudono nel loro intimo, e quando parlano sussurrano come intimoriti dall’interazione con l’altro. È una serenità apparente che tradisce la letargia della vitalità, l’accidia imperante che non vuole affrontare quel che la natura qui comunica e urla continuamente a gran voce, che come manifestazione di vita siamo ospiti invadenti, parassiti, ribelli al mutismo del cosmo. Questa è un’alienazione che non posso sostenere, che nessuno dovrebbe sostenere, bisogna vagare sperduti, riflettere, perdere tempo, quel tempo che non esiste, lasciare che i lampioni di Oslo intaglino le nostre espressioni con quelle stesse, tormentate sfumature arancioni che tanto avevano angustiato il vecchio Munch più di cent’anni fa. La storia che si ripete, la vita e l’illusione del tempo, l’eterno ritorno, e così sempre, con le ovvietà disarmanti.

E nonostante questo errare alla rinfusa in una bolgia come un’altra nel vasto e piccolo viso del mondo, nonostante non abbia ancora raggiunto davvero il polo della mia vita e mi sia buscato il peggior raffreddore che io ricordi, è lì, in quel glaciale, gelido, buio, inospitale, vendicativo, fangoso, crudele, sperduto luogo desolato e dimenticato da dio, che ho lasciato tutto il mio cuore.

Leonardo Albano

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