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Tutti morimmo a stento

Nel settembre del 1968, dalla collaborazione di De Andrè, Gianfranco e Gian Piero Reverberi, Riccardo Mannerini e Giuseppe Bentivoglio, nacque “Tutti morimmo a stento”. Con “Il cantico dei drogati”, Faber cantava al cielo, pregandolo di accogliere un amico volato troppo in alto.

Il lettore mi perdonerà se non si offre alcun tipo di riflessione ma solo domande. Poche righe, dedicate a chi ha compiuto l’ultimo gesto, solo pochi giorni fa.

Ci sono eventi che lasciano solo domande, questioni irrisolte.

Quanto pesa il piombo dell’ultimo rintocco?

Quale miasma annichilisce un giovane fragile cuore, saturandone il respiro?

Come spiegare che procedere inciampando incerti è meglio che saltare, certi, a capofitto nell’oblio?

Che qualcosa ci attende, qualcosa per cui vale la pena navigare tenendo a fatica le sartie dell’esistenza; che le lacrime disperate son meno amare dello Stige?

Come avrei potuto dirti che le tue ginocchia sbucciate t’avrebbero sorretto per un altro passo ancora?

Quale peso non hai tollerato, fratello, sorella, figlio, marito, amica di sempre, amore incolto?

Quale inferno ha sussurrato al tuo orecchio?

Come avrei potuto dirti di guardare ancora in alto?

A chi hai rivolto l’ultima preghiera?

Hai udito la risposta?

Ti sia lieve la terra, fratello, sorella, figlio, marito, amica di sempre, amore incolto.

Ti lasci il boato mortifero, la polvere che ha bruciato i tuoi sospiri.

Scaldati al sole, se qui hai perduto la luce.

Respira, se qui non hai potuto, a pieni polmoni la vita.

Emanuele Lepore

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