«Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere»1. Con queste parole Alberto Manzi, uno dei grandi maestri della scuola italiana, salutava in una lettera i suoi alunni di quinta. La scuola di Manzi, così come quella di Mario Lodi e Don Milani, era una di quella che rompeva gli schemi e i rapporti di autorità tra insegnante e alunno, una di quelle in cui andare a scuola per i bambini significava da un lato vivere profondamente l’esperienza di un apprendimento pratico-teorico senza sentire addosso la pressione della valutazione, e dall’altro stare all’interno della classe in una dimensione democratica viva. Per Manzi lo scopo dell’educatore era quello di dare ai bambini un’identità di cittadini, di portare la scuola fuori e di far entrare il fuori nella scuola, di allenare le menti degli alunni al ragionamento operativo affinché potessero sviluppare una visione critica, cioè giudiziosa, della realtà. Non solo questo, ma anche far nascere in loro un sentimento attivo di partecipazione e coinvolgimento diretto alle questioni comunitarie: «Voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi (coscienza, non solo conoscenza), far sapere loro che esistono certi problemi e che ognuno di noi è chiamato a risolverli»2.
Alberto Manzi fu anche il maestro di tutti quegli italiani che a scuola non ci entrarono mai, cioè gli analfabeti. Fu lui che entrò nelle loro vite con una delle trasmissioni televisive più importanti della storia della tv italiana: Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta. In onda dal 1960 al 1968, per volere dell’allora Ministero della pubblica istruzione, ebbe un ruolo decisivo nel contrastare il tasso di analfabeti attraverso l’insegnamento della lingua italiana, fornendo gli strumenti necessari per imparare a leggere, scrivere, comprendere parti di testo e far di conto. A distanza di quasi 60 anni, abbiamo una nuova forma di analfabetismo: quello funzionale. L’Unesco definisce l’analfabetismo funzionale come «[…] la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». In Italia, secondo l’indagine Piacc dell’OCSE, più di un italiano su tre tra i 16 e i 65 anni non riesce a comprendere ciò che legge e la situazione non migliora per gli studenti universitari, che dimostrano, durante le prove, scarsa capacità espositiva-argomentativa e difficoltà nell’elaborare un testo complesso. Questo come effetto, anche, dell’uso prolungato di programmi di IA.
Oggi ci troviamo di fronte al problema che un gran numero di persone si sente impreparata a gestire le informazioni con cui entra in contatto, perché si sente priva di strumenti adeguati che possano essere di supporto all’interazione con l’ambiente-mondo. Nonostante il numero di diplomati e laureati sia nettamente maggiore rispetto al passato, quando il percorso scolastico termina gli studenti hanno poca fiducia nelle loro competenze percependo un senso di inadeguatezza. Eppure, avere competenze è utile a gestire meglio le informazioni, a prendere decisioni senza essere condizionati da quelle altrui e ad orientare le proprie scelte politiche; diversamente, chi ha meno competenze risente maggiormente dei propri limiti sentendosi escluso dai processi decisionali e confuso dalla complessità del mondo. Allenare la propria mente al ragionamento è l’esercizio primario che la scuola dovrebbe praticare con gli studenti e trasmetterlo come metodo maieutico, perché «l’esercizio della razionalità avviene attraverso la costruzione di ragionamenti. Un ragionamento è un insieme organizzato di enunciati e gli enunciati sono composti da termini. Come si vede, ragionare equivale a utilizzare il linguaggio […]» (P. Vidali, G. Boniolo, Argomentare, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 5).
La scuola dovrebbe trovare metodologie didattiche alternative, dovrebbe assumere il ruolo di un artigiano che modella le menti degli alunni e non limitarsi ad un insegnamento frontale in cui gli studenti sono passivi fruitori di nozioni, dovrebbe mirare a uno sviluppo che accresca l’autonomia. Se il nostro essere è pensante e si è evoluto per la conoscenza, la scuola dovrebbe su questi assunti ricostruire il suo scopo. Dovrebbe riconoscere fondamentale l’aiuto della filosofia e per questo dovrebbe entrare come alleata pedagogica già a partire dalle classi primarie, non come studio del pensiero filosofico ma come una pratica razionale, come movimento del pensiero logico sequenziale, perché è la mano che guida il pensiero, in quanto «tutte le altre scienze saranno più necessarie della filosofia, ma nessuna superiore» (Aristotele, Metafisica, 1, 2, 982b12-20). Perché è causa di meraviglia, perché orienta gli sguardi.
NOTE
1. La lettera completa: https://comune-info.net/padroni-del-vostro-senso-critico/
2. A. Manzi, Questo mi mette in imbarazzo, in G. Manzi (a cura di), Il tempo non basta mai, Add Editore, Torino 2014, pp. 207-210.
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