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Per una filosofia del cemento

Ciascuno, nella propria quotidianità, vive un’esperienza non sovrapponibile a quella altrui: anche se le vicende possono combaciare nei tratti generali, ciò che rimane esterno rispetto a questi rimane parte del bagagliaio esperienziale privato di ciascuno. Concentrandosi su quei punti d’intersezione, un elemento in particolare emerge, anche se, inserito sullo sfondo, non è solitamente notato: il cemento. Nella sua scontatezza, testimonia un carattere unico della nostra epoca, non nella sua composizione di gesso, sabbia e pietrisco, ma nella sua capacità di modellare il panorama cittadino. Camminando per le vie, è impossibile non imbattersi in qualcosa composto da cemento.
Ciò permette immediatamente di interpretarlo come un sintomo del nostro tempo, dedito alla semplificazione nel tentativo di aumentare la resa: meno tempo si ‘perde’, più il guadagno aumenta. Con la riduzione delle tecniche costruttive, caratteristica che fino a qualche decennio fa connotava i Paesi in modo unico, il cemento rende tutto sordo. Infatti, in presenza di uno stile architettonico unico, le pareti emanano ancora la vita di chi le ha abitate, come il filosofo tedesco Anselm Jappe ci ricorda:

«Se poggiamo l’orecchio sulle pietre di un edificio antico, possiamo udire ancora, se davvero lo vogliamo, il mormorio delle generazioni che l’hanno abitato. […] Quei muri e quelle pietre sono come spugne che hanno assorbito la vita. Restituendocela, la moltiplicano e annullano un poco la cancellazione che opera il tempo devastatore» (A. Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa, elèuthera editrice, Milano 2022, p. 101).

È evidente come il cemento uccida questa vitalità in virtù del profitto: le città si assomigliano sempre di più e gli stili architettonici diventano solo un ricordo di un passato ormai trascorso, frequentabili occasionalmente se decidiamo di visitare le rispettive rovine. Ciò crea un paradosso: se ci fosse occasione di attraversare le nostre metropoli, senza sapere quale attraversiamo di volta in volta, non sarebbe così strano ritenere di essere sempre nella stessa città. Se questo pedone fosse Vitruvio, avrebbe molto da ridire: «[…] La più maltrattata delle tre classiche categorie di Vitruvio è stata la firmitas [durata]: metterla in pratica è vista come un attentato contro il primo dovere del cittadino, quello di “spendere, spendere, spendere”. […] La venustas [grazia] è stata invece ridotta al design, unico argomento di vendita quando il prodotto non ha utilitas [vantaggio] né firmitas, che si tratti di un paio di scarpe o di una casa» (ivi, p. 106)

Eliminando la durata, l’utilità e la grazia, il cemento pone in primo piano solo la dimensione dell’edificio e la relativa posizione: più è grande, più è nei pressi del centro o di panorami sublimi, e più gli si attribuisce un certo prestigio che viene interpretato in termini di prezzo. Dato che tutto è prezzabile, si perde il carattere qualitativo tramite l’imposizione di una standardizzazione quantitativa. Se quindi conduce alla monotonia, qual è il senso del cemento? Nuovamente, Jappe è chiarissimo a tal riguardo: 

«Possiamo dire che il cemento costituisce uno degli aspetti concreti dell’astrazione delle merci prodotta dal valore, essa stessa creata dal lavoro astratto» (ivi, p. 148).

Questo gioco di parole nasconde una verità del nostro tempo: il capitalismo si impossessa del lavoro per imporne una concretizzazione diversa da quella che avrebbe da sé. Infatti, se ogni prodotto dovrebbe avere un’utilità nel rapporto con il mondo, per il capitale conta solo come ciò che ne aumenta il profitto, senza riguardi pratici. Marx definisce con una metafora il valore astratto al tempo del capitalismo: «[…] Un’eguale fantastica oggettività, una pura gelatina di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza badare alla forma del suo dispendio.» (K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 2013, p. 55). Infatti, tratto della gelatina è di poter essere modellata in tantissimi modi diversi, ma con un aspetto immutabile: la sua qualità è permanente, il suo valore presenta un’indifferenza strutturale nei confronti del mondo. Questa caratteristica, come già anticipato, si ritrova nel cemento: abolendo tutte le tradizioni, rende ogni luogo omogeneo. Ogni costruzione è, allora, solo un’esemplificazione della sua specie: «La gelatina del lavoro astratto è fatta di calcare e calcinacci» (A. Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa, cit., p. 156). 

La conseguenza è evidente: noi perdiamo la nostra identità, non ci rendiamo più conto di chi siamo e da dove veniamo esattamente come succede ai luoghi frequentati in passato, divenuti parte di noi, che rischiano di essere sostituiti dall’ennesimo blocco di cemento. Contro questa anonimizzazione, occorrerebbe ridare voce a ciò che ci circonda: se il capitalismo stressa eccessivamente la natura, anche le attuali pratiche architettoniche andrebbero rivedute, essendone una diretta emanazione.

 

NOTE
[Photo credit Haneen Krimly via Unsplash.com]

Tommaso Donati

Tommaso Donati

Preciso, Ambizioso, Studioso

Sono nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, e tutt’oggi vivo nei paraggi di questa città. Seguendo la passione per la filosofia, ho deciso di continuare gli studi presso la medesima facoltà dell’Università degli Studi di Milano che tutt’ora frequento. Mi piace leggere tematiche di vario tipo dalla filosofia alla letteratura alla scienza: ogni occasione è […]

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