Il teatro non è solo uno spazio di finzione o intrattenimento, ma una via autentica di conoscenza e trasformazione dell’essere umano. Quando si attraversa un’esperienza teatrale radicale, non si entra semplicemente in un ruolo, ma si tocca la sostanza viva dell’esistenza. È come se, sul palco, l’attore si spogliasse delle maschere quotidiane per abitare un’altra verità, più profonda e più fragile.
Jurij Alschitz, regista, pedagogo e teorico russo, propone un approccio radicalmente diverso alla formazione attoriale. L’attore, nel suo metodo, diventa un viandante dell’interiorità, un ricercatore dell’invisibile. La sua pratica teatrale si fonda sull’esercizio della domanda, sullo smarrimento fecondo, sull’abbandono dell’ego. In questa tensione verso l’ignoto, egli invita a pensare verticalmente, a immergersi nella profondità dell’essere, a usare il testo non come appiglio ma come trampolino verso l’indicibile. Alchitz scrive «Theatre begins where control ends. When the actor allows himself to get lost, he can finally begin to create»1 (J. Alschitz, Training Forever, ITI AKT-ZENT, Berlin 2009, p. 53). Il processo creativo trova in questa perdita volontaria di certezze il suo respiro più autentico: l’attore diventa un canale aperto, un corpo attraversato da energie invisibili, simile al mistico che accoglie il vuoto per lasciare spazio al sacro
Etty Hillesum, nei suoi diari scritti durante la Seconda guerra mondiale, compie un percorso simile, pur in un contesto tragicamente diverso. Anche lei, come l’attore di Alschitz, pratica l’ascolto, l’apertura radicale all’interiorità. Nel mezzo della distruzione, sceglie di non fuggire, ma di abitare il dolore con uno sguardo limpido. «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. Talvolta riesco a raggiungerla, più spesso è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Bisogna che io lo dissotterri di nuovo» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1996, p. 86). È una voce che ci insegna come, anche nell’oscurità, si possa mantenere una presenza vigile, una fede nel senso, una delicatezza incrollabile.
E qui, dove il dolore non viene respinto ma trasfigurato, si affaccia anche la voce di María Zambrano, che ci invita a pensare poeticamente, a sostare nel mistero con lo stesso silenzioso coraggio. Là dove Hillesum scava per dissotterrare la sorgente profonda dell’anima, Zambrano solleva il velo del pensiero, aprendo uno spazio in cui la filosofia si fa poesia e la verità si lascia intuire più che afferrare. Per lei, la conoscenza non può limitarsi alla ragione logica: serve una ragione poetica, capace di abitare il mistero, di accogliere ciò che sfugge, di pensare con il cuore: «La verità non si dimostra: si mostra» (M. Zambrano, Chiari del bosco, SE, Milano 2025, p. 63). E cosa fa il teatro, se non mostrare una verità che nessuna teoria può contenere? Nella sua visione, il pensiero si fa visione, il concetto si fa simbolo, il linguaggio si apre all’inesprimibile. È la stessa traiettoria che Alschitz intraprende quando parla dell’attore come sciamano contemporaneo, capace di attraversare i mondi e di restituire agli spettatori un frammento di verità vissuta. Zambrano ci dice anche che «la filosofia comincia là dove la vita si spezza» (M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 45) e forse il teatro comincia nello stesso luogo. L’attore porta sulla scena le fratture del vivere: le espone, le esplora, le sublima. Ma per farlo davvero, deve essere disposto a perdere le certezze, a diventare vulnerabile. È qui che torna Hillesum, con la sua scelta radicale di non indurirsi di fronte al male. Nel Diario scrive: «Vorrei essere un balsamo versato su tante ferite» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 152).
In questo dialogo silenzioso tra pensiero, esperienza e poesia, il teatro diventa un laboratorio dell’anima. L’attore, come il mistico, il filosofo e il poeta, attraversa il buio per cercare una luce non garantita. La sua pratica, quando è autentica, coincide con una forma di preghiera, anche se laica e segnata dal dubbio. È un cammino che, come ci ricordano, ognuno a modo suo, Alschitz, Hillesum e Zambrano, non offre sicurezza ma intensità, non si esaurisce nella logica ma si apre all’immaginazione, e non chiede risposte, ma presenza. Ma questo cammino può essere la nostra salvezza: non perché offra soluzioni, ma perché ci rimanda all’atto di domandare. Non ci mostra ciò che siamo, ma ciò che potremmo diventare. E, in questo tempo che ci vuole spettatori distratti, ci ricorda la potenza insostituibile dell’essere vivi.
NOTE
1. Letteralmente: «Il teatro inizia dove finisce il controllo. Quando l’attore si permette di perdersi, può finalmente iniziare a creare» (ndr).
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