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La parola di una donna e la violenza epistemica

«Dire che la parola di una donna non è bastata a far calare la scure della legge su Harvey Weinstein è esatto ma incompleto. La verità è più sgradevole. Nella primavera del 2015 il produttore di Hollywood riconobbe di aver messo le mani addosso a una donna senza il suo consenso, ma per la procura non fu abbastanza per mandarlo a processo».

Questo l’esordio dell’articolo Cento donne contro Harvey Weinstein, traduzione italiana dell’originale pubblicato non molto tempo fa sul New York Magazine. L’articolo descrive i passaggi che hanno condotto a processo il produttore cinematografico, accusato di decine di stupri e molestie. Sappiamo che in seguito la condanna è stata fissata a ben 23 anni di carcere. Quindi, riguardo al caso, potremmo esserci messi tutti il cuore in pace. E invece no.

Nel leggere l’articolo, un’affermazione mi ha colpita più delle altre, ovvero quella pronunciata dall’avvocato di Weinstein: «Se non vuoi essere una vittima, non andare nella stanza d’albergo». Di più, mi ha colpita il fatto che tale avvocato sia una donna. Infatti continua: «Quando noi donne non vogliamo accettare certe responsabilità per le nostre azioni, ci comportiamo da bambine». Ripetere per l’ennesima volta che viviamo in un mondo ancora profondamente maschilista non sarebbe inutile ma mi preme, piuttosto, sottolineare un altro aspetto. Propongo infatti una breve riflessione su un concetto che non viene spesso evocato, ma che considero particolarmente efficace, ossia quello di violenza epistemica.

Il termine, coniato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa statunitense di origine bengalese a noi contemporanea, va a indicare la relazione che si instaura tra dominanti e subalterni, analizzandola da un punto di vista simbolico. In particolare, il meccanismo che si crea è quello di una introiezione delle categorie elaborate da chi domina all’interno degli strumenti cognitivi di chi viene dominato. Questa forma di violenza, secondo Spivak, è più pericolosa e subdola di altre, dal momento che non viene individuata come tale ed è dunque più difficile da estirpare. Facciamo un esperimento. Quanti di voi provano una sensazione di profondo fastidio ogni volta che sentono utilizzare la parola uomo per indicare l’intero genere umano?

La filosofia occidentale, antica, moderna e contemporanea, è costellata di affermazioni sull’uomo e la sua natura, il suo valore, la sua dignità. Vi è un’enorme portata epistemologica nella differenza che sussiste quando si parla di natura dell’uomo e di natura dell’essere umano; differenza che, nella lingua italiana, è particolarmente esplicita. Si tratta dell’assegnazione o meno dello statuto di soggetto a metà dell’umanità. Banalmente, nel nostro immaginario comune, si può definire soggetto colui che parla e che agisce. Chi parla quando ci si riferisce all’uomo? Chi ha compiuto le azioni che vengono riferite all’uomo? La risposta è scontata. Si potrebbe obiettare che, per quanto riguarda la storia e la storia della filosofia, è corretto parlare dell’uomo maschio come unico soggetto, dal momento che le donne hanno ricoperto un ruolo del tutto marginale nella storia. Ma è sufficiente non agire per non essere responsabili? Qui è il punto cruciale. Davvero non hanno nessuna colpa le donne che non hanno immediatamente denunciato i crimini di Weinstein, magari accettando una somma di denaro in cambio del silenzio?

Per il filosofo francese Gilles Deleuze (1925 – 1995) la gioia consiste nell’effettuazione di una potenza, intesa come attuazione di sperimentazioni vitali che eccedono l’individuazione personale. Potersi trasformare continuamente in qualcosa d’altro, facendo esperienza di tutte le sfaccettature del mondo e intrattenendo con esse una relazione profonda, proprio perché diveniente. Il che è molto diverso dall’idea che è penetrata all’interno del nostro immaginario comune e che è quella della potenza come sopraffazione sull’altro. Quest’ultima corrisponde invece, secondo Deleuze, al potere. Egli infatti sostiene che qualsiasi forma di potere è di per se stessa malvagia, dal momento che impedisce la realizzazione di quella stessa potenza vitale che prima citavamo, producendo debolezza. In questa concezione, dunque, ogni potere è intrinsecamente violento. Su quest’ultimo punto si potrebbe discutere in eterno, ma una cosa è sicura: è necessario riconoscere la violenza come tale, in qualunque modo essa si presenti, prima di poterla combattere. Questo compito è più difficile per coloro che detengono il potere, spesso inconsciamente avviluppati nel meccanismo di riproduzione della violenza stessa, che si perpetua a livello culturale e sociale senza guardare in faccia nessuno. 

Ma anche i subalterni hanno una voce, sebbene forse sia più comodo pensare di non poterla usare.

 

Petra Codato

 

[Photo credit Tim Mossholder via Unsplash]

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