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Verso ‘I mari del sud’

“I mari del sud” è la poesia di apertura della raccolta “Lavorare stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1936 da Solaria. Essa condensa e intensifica l’intera produzione poetica della raccolta, la quale, come ben mostra Vittorio Coletti[1], è senza precedenti ed in assoluta controtendenza nel panorama letterario italiano. Con “I mari del sud” nasce la poesia-racconto: 102 versi liberi, attentamente scanditi dal serrato ritmo degli accenti, presentano una narrazione ricca di discorsi diretti, aneddoti, flashback. Ma procediamo con ordine.

Nell’appendice alla raccolta l’autore scrive a proposito dell’interpretazione delle sue opere, negando di aver voluto inserire concetti astratti nei suoi componimenti, senza tuttavia negare che essi si possano trovare.[2] In sostanza, il fatto che Pavese non voglia dire nulla più di ciò che è scritto, non significa che non dica di più; anzi, è proprio in questa volontà di non dire altro che dobbiamo addentrarci per cogliere il senso di un dire essenziale. Questo può essere fatto solo mettendosi in ascolto del linguaggio della poesia.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle»

Qui vogliamo muoverci “Verso il luogo” della poesia di Cesare Pavese. Verso il luogo vorrebbe tradurre il termine tedesco Erörterung [Discussione], ben caro ad Heidegger, il quale evidenzia la presenza di Ort [Luogo] all’interno del termine: «Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo. E poi significa: osservare il luogo»[3]. L’idea è che la poesia di Pavese debba essere avvicinata, che mettersi in ascolto del suo dire significhi innanzitutto: osservare un luogo. Proprio perché il linguaggio si fa casa dell’essere, è la poesia stessa a indicare, sin dal primo verso, il luogo (geografico) della vicinanza all’origine.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio.»

La poesia si apre con un verbo che sottintende un “noi”: a camminare sono l’autore ed il cugino. L’atmosfera è fin da subito familiare. L’espressione “una sera” conferisce carattere aneddotico al racconto, molto più di “la sera” o “di sera”, lascia presupporre che fosse una di tante, passate vicino al focolare della propria terra natia. Si intuisce che il colle e la vetta sono componenti del paesaggio delle Langhe, e questo ci viene confermato dal discorso diretto del cugino, nella seconda strofa. Più in generale, l’intera raccolta Lavorare Stanca e la quasi totalità delle opere di Pavese è riferita al luogo della sua origine: l’intero pensiero poetante dell’autore rimanda al proprio Heimat, alla propria terra natia.

«Mio cugino ha parlato stasera»

Nel corso della prima strofa, ricorrono quattro volte termini riferiti al silenzio. La seconda strofa si apre invece all’insegna della parola. Il parlare del cugino è registrato come evento straordinario. Parlerà direttamente altre due volte durante la poesia. Sappiamo però che ciò che leggiamo non coincide con le parole da egli effettivamente pronunciate:

«Tutto questo mi dice e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito.»

La questione del dialetto merita un’attenzione particolare. Martin Heidegger ha dedicato un breve saggio al rapporto tra linguaggio e terra natia:

«Linguaggio, detto dal suo vigere ed essenziare, è di volta in volta linguaggio di una terra natia, linguaggio che si risveglia nativamente e parla della dimora della casa dei genitori. Linguaggio è linguaggio come lingua materna.[4]
[…] Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto. […] Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre, il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua.[5]»

Il linguaggio inteso come terra natia[6] si fa tesi centrale del pensiero di Heidegger, e al tempo stesso intuizione fondamentale della poesia di Pavese. Al ritorno dalla città, l’autore ritrova le Langhe e il dialetto, come un tutt’uno che viene al linguaggio nel suo poetare.

«Tu che abiti a Torino…»

E’ rimarcata più volte la dicotomia città-paese: all’ombra del tardo crepuscolo sul colle si contrappone la luce del faro di Torino, dove si profitta e si gode per poi tornare alle Langhe che non si perdono. E’ un tema, questo, che accompagna tutta la produzione di Pavese: nonostante egli abbia trascorso tutta la sua vita in città, continua a ricordare le colline infantili di Santo Stefano Belbo, e a renderle luogo prediletto di tutta la sua produzione letteraria. Si fa interessante una possibile lettura parallela a quella che Heidegger dà della poesia di Rilke[7]. Si può infatti senza esercitare particolari forzature leggere il senso della distanza tra paese e città come distanza tra modernità e antenati, e quindi tra tecnica e originalità. La città è il luogo dove l’uomo è posto di fronte al mondo: può e deve dominare le cose. E’ il luogo della maturità, degli studi e soprattutto del lavoro: «si profitta e si gode». In quest’ottica risulta chiara dal titolo della raccolta (Lavorare Stanca) la posizione di Pavese a riguardo: ciò che si aspetta, per tutta una vita, è il ritorno (a dimostrazione di ciò va intesa la posizione conclusiva occupata da La luna e i falò nella cronologia delle opere, che si chiudono pochi mesi prima della morte dell’autore con il ritorno all’infanzia nella Valle del Belbo). Lo scontro tra le due realtà avviene nell’aneddoto riguardo al ritorno in paese del cugino, e al suo tentativo di portarvi i motori. La vita nel paese è antecedente all’opposizione soggetto dominante oggetto dominato conseguente all’attuarsi della tecnica:

«Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza.»

Infine, il parlare della poesia nomina i ricordi del passato del cugino:

«Solo un ricordo gli è rimasto nel sangue»

«Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama»[8]. In questo caso la chiamata è duplice: viene chiamata a noi la chiamata del sogno, si avvicina a noi l’avvicinarsi al poeta dei mari del sud. E’ importante che la poesia si concluda sul tema dell’immaginazione, con la chiamata del ricordo dal luogo della lontananza al luogo dell’origine nel linguaggio. Lo spazio aperto dal linguaggio tra il suo essere vicino e il chiamare da lontano, è l’abisso in cui si fa di casa l’uomo, nel dialetto, nel silenzio, nel ritorno alla terra natia. Questo, appena accennato, è il luogo della poesia di Cesare Pavese.

 Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

[1] Cfr. Vittorio Coletti, La diversità di Lavorare Stanca in Lavorare Stanca, Torino, Einaudi, 2001
[2] ibidem
[3] Martin Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 45
[4] Martin Heidegger, Linguaggio e terra natia, ed. it. in “Aut-Aut” 235 (1990), p.3
[5] ivi, p.4
[6] Cfr. ivi, p. 24
[7] Cfr. Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968
[8] Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 34

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