Dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi, – avendo intorno a sé dei precipizi, l’oceano, la tenebra eterna, un’eterna solitudine e una eterna tempesta, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d’anni, l’eternità- anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!… Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l’uomo!… Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.1
Leggendo Dostoevskij è impossibile non immedesimarsi nei suoi personaggi e non entrarci in empatia, vivendo insieme a loro le sofferenze e le passioni descritte.
Un libro più di tutti mi ha sempre colpito per come lo scrittore è riuscito a far provare al lettore la sofferenza del suo protagonista, L’idiota, dove l’esperienza della condanna a morte mi ha fatto riflettere sul senso di questa pena, sulla giustizia di tale pratica. La mia riflessione si è sempre concentrata sull’Uomo, uomo considerato in quanto persona con diritti, doveri ma soprattutto dignità.
La condanna a morte è un’esperienza assolutamente terrificante, perché il tempo percepito diventa sia il migliore amico che il peggiore nemico che accompagna il condannato e la vita credo divenga invivibile:
poiché l’uomo è fatto non per conoscere la data della propria morte, bensì per la semiapertura: la vita è chiusa dalla morte, ma è costantemente socchiusa dalla speranza, per la quale non è mai necessario morire. Speranza rifiutata appunto al condannato a morte.2
Il soggetto in questione vive un’esperienza tragica, il tempo è visto come un mostro che sta davanti alla porta della fine.
Tutto svanisce: parole come speranza, progetto, in generale la parola futuro non hanno più senso. Cosa può sperare un individuo che si trova nel braccio della morte sapendo che tra un mese, una settimana, due giorni morirà? Il futuro è assoggettato all’eterno presente che diventa un divenire velocissimo. Si contano i giorni, le ore che separano dalla morte. Si vive un’attesa consapevole scandita da angoscia, paura, terrore, senza speranza, perché si sa con assoluta certezza che quel giorno a quell’ora si lascerà questo mondo. Gli occhi dei condannati si ‘mostrano’ talvolta crudeli, talvolta spaventati da un insidioso terrore combattuti tra il fronteggiare la paura di morire e la voglia di sopravvivere.3
Ma il dolore principale, il più forte, non è già quello delle ferite, è la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. Tu metti la testa sotto la mannaia, senti strisciare il ferro, e quel quarto di secondo è più atroce di qualunque agonia.4
Credo che queste parole, pronunciate dal protagonista Myskin de L’idiota, non lascino troppo spazio all’immaginazione, la condanna a morte ti pone di fronte a mille interrogativi, facendoti pensare sempre alla stessa cosa:
Adesso sono vivo; ma fra tre minuti, che sarò? Qualcuno o qualche cosa, e dove?5
Nei momenti di attesa della condanna il pensiero forse più atroce è però quello che riguarda la possibilità di continuare a vivere se non si fosse rinchiusi in una stanza ad attendere la morte.
‘’E se non morissi? se la vita continuasse?…che eternità! e tutta, tutta a mia disposizione… Oh allora, di ogni minuto io farei una esistenza e non un solo ne perderei!’’ Questo pensiero a tal segno lo invadeva, che avrebbe voluto esser fucilato all’istante.6
Negli istanti prima di morire il condannato sarebbe disposto a tornare indietro promettendo di assaporare ogni minuto dell’esistenza, perché nel braccio della morte si rende conto quanto preziosa essa sia e vive in uno stato di solitudine e d’inquietudine che aumenta via via che diminuiscono le speranze di sopravvivere; infatti il soggetto che viene condannato è, senza giri di parole, un uomo morto che cammina, perché il suo futuro è già programmato, o meglio, la sua fine è già decisa.
Nell’attesa atroce della condanna il passato ripiomba addosso al soggetto con violenza, perché non si può pensare al presente che è solo dolore ma nemmeno al domani che non ci sarà; è la continua tortura del tempo. È come essere sull’orlo di un burrone e attendere la fine dell’attesa. L’unica consolazione può diventare il pensiero che la morte prima o poi tocca a tutti, ma dura un istante questo escamotage: il condannato sta per essere ucciso, morirà non per morte naturale ed essa non arriverà improvvisamente, di sorpresa, perché si è già presentata fissando un appuntamento precisissimo.
Che cosa sono questa agonia di sei settimane e questo rantolare di un intero giorno? Che cosa sono le angosce di questa giornata irreparabile, che passa così lentamente e così in fretta? Che cos’è questa scala di torture che termina sul patibolo?7
Agonia-Attesa: solo questo, dunque, può essere il binomio che accompagna chi è nel braccio della morte. Il tempo è ciò che vi è di più mostruoso, perché è scandito secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno: non vi sono sfere temporali, perché il passato è ciò che ci ha condannato e per il quale si prova rabbia, risentimento, il presente è lo specchio della tragedia, il futuro si accompagna alla morte. Non vi è via di scampo: quella del condannato a morte è la percezione del tempo che è caratterizzata dalla mancanza del concetto stesso di tempo eppure esso domina ogni giornata: può sembrare paradossale, ma il tempo non è presente come passato-presente-futuro, come divenire incessabile ma è comunque presente, è lui che separa il condannato dalla morte, è lui che terrorizza ed è a lui cui occorre assoggettarsi.
Ma ormai è giunta l’ora di andare io a morire e voi invece a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio è oscuro a tutti tranne che a Dio.8
Note
2] Jankélévitch Vladimir, Pensare la morte?, Raffaello Cortina, Milano, 1995, p. 37