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Twin Peaks: David Lynch e il concetto di “mana”, tra magia e illusione

Una grande tenda rossa, un pavimento a zig zag con motivi bianchi e neri che sembrano rincorrersi all’infinito, una lampada con accanto due grandi poltrone di pelle. Se ci si imbatte anche solo per sbaglio nel nano danzante o nella signora ceppo di Twin Peaks, le reazioni possono essere due: cambiare canale (e successivamente chiamare l’amico che ci ha consigliato di guardare una serie tv ambientata negli anni ’80 e che sembra pura follia) oppure entrare e sederci anche noi in quella sala d’attesa abbastanza inquietante.

Eh sì, perché il regista di Mulloland Drive e Velluto Blu o lo si ama o lo si detesta profondamente. Non sembrano esserci vie di mezzo, o perlomeno, fino ad ora, non ho incontrato nessuno che possa restargli completamente indifferente.  

Semafori lampeggianti, fasci di luce tremolante, cani che abbaiano, suoni che sembrano provenire da un’altra dimensione e personaggi che non hanno più nulla di umano. Il linguaggio visivo di Lynch è ricorrente, ma lungi dall’essere una semplice scelta stilista ed estetica, potrebbe trovare anche una spiegazione di tipo filosofico.

«Stare seduti davanti al fuoco è ipnotico. Magico. Provo le stesse sensazioni con l’elettricità. Il fumo. Le luci tremolanti»1. Nell’opera di Lynch ci sono veri e propri elementi magici. Prendiamo l’elettricità, per esempio, qui sembra essere una forza oscura dotata di vita propria, quasi una manifestazione di qualcosa che nulla ha a che fare con l’elettricità che noi tutti conosciamo grazie alla fisica. Anche il fuoco è un elemento centrale della serie tv che, come ha notato Roberto Manzocco,  quando appare, indica che si stanno per scatenare emozioni molto intense.  

Questa prospettiva sembra ricollegarsi a una mentalità pre-scientifica, primitiva. Per spiegarla si può fare riferimento al concetto di mana, una forza capace di permeare tutto, non solo gli oggetti viventi, ma anche quelli inanimati.

Fu il missionario ed etnologo inglese Codringtone a diffondere questo concetto, esponendolo per la prima volta nella sua opera The Melanesians del 1891. Un’espressione difficile da definire, su cui antropologi e sociologi si sono confrontati a lungo per diverso tempo. Una definizione molto efficace sembra essere quella di Durkheim, storico delle religioni, secondo cui il mana sarebbe: «la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri d’ogni tipo che le religioni d’ogni tempo hanno sacralizzato e adorato»2.

Molti studiosi sostengono che sia proprio il mana ad essere all’origine della religione, dal momento che, rappresentando il sacro per eccellenza, esso si identifica con una forza religiosa collettiva e anonima che è contemporaneamente immanente e trascendente alla realtà.

Per capire questo aspetto, è necessario fare un ulteriore passaggio. In tempi recenti, è stato il filosofo francese Georges Gusdorf a sottolineare come la mentalità primitiva sia essenzialmente monista. In tal senso, per i popoli primitivi non esistono un mondo naturale (governato da leggi fisiche) e un mondo soprannaturale (governato da leggi divine), ma c’è un’unica realtà, che vive e pensa. Che posto assume l’uomo all’interno di essa? Dimentichiamoci la contrapposizione tra soggetto e oggetto, frutto anch’essa di una separazione tramandata da Platone a Cartesio nella storia del pensiero occidentale. Per l’uomo primitivo, l’essere umano è parte integrante di questa realtà, è fuso con essa, la vive e la sperimenta con il corpo e con lo spirito, quotidianamente.

Il mana appare quindi come un approccio fondamentale della visione del mondo degli uomini primitivi, una caratteristica che essi attribuivano a tutto ciò che li circondava: dall’albero alla roccia, anche ciò che è inanimato, infatti, è dotato di questa «capacità di avere intenzioni»3.

Ecco che allora si capisce meglio perché il “mana”, secondo alcuni studiosi, sarebbe all’origine della religione: «[…] se il mana viene attribuito agli oggetti in sé, allora da ciò sorgerà l’idea che tale forza possa essere manipolata, il che porterà poi alla nascita della magia; se invece si riterrà che il mana non appartenga all’oggetto in sé, ma a uno spirito che lo controlla, allora da ciò nascerà la necessità di blandire quest’ultimo, e da questa esigenza si svilupperà successivamente la religione»4.

L’immaginario creato da David Lynch fa riferimento proprio a questa mentalità di tipo primitivo e magico, a una concezione della realtà monista.

Nella cittadina di Twin Peaks, infatti, materia e spirito si fondono, perdendo i propri confini. Ecco allora perchè nulla è come sembra, tutto nasconde una realtà che va al di là di ciò che si vede. É lo spirito, però, a prendere il sopravvento. Insomma, qualcosa mi dice che in Lynch, quel che a noi sembra un sogno è la vera realtà, di cui quella materiale appare come una mera manifestazione illusoria.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. D. Lynch, In acque profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano.
2. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religieuse, p. 284
3. R. Manzocco,  Twink Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, p. 26.
4. Ibidem

[immagine tratta da google immagini]

 

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Greta Esposito

Greta Esposito

Introversa, empatica, ostinata

Laureata in filosofia teoretica con una tesi sulla differenza tra comprendere e spiegare nella filosofia di Karl Jaspers e Wilhelm Dilthey, all’ambito accademico ho preferito quello della comunicazione e degli eventi. Vivo a Bologna, dove tra un viaggio e l’altro lavoro come copywriter e ufficio stampa freelance. Appassionata di musica indie rock fin da quando […]

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