Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

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Due parole sull’ateismo di Leopardi

Al prof. Rolando Damiani

L’uomo non ha certezze metafisiche, quindi è disperato: di quest’assioma, Leopardi è indiscusso profeta. La sostanza della disperazione leopardiana si coglie nella formulazione della celeberrima teoria del nulla:

«Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. […] vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere»1.

Analizziamo queste righe. Se (il) nulla fonda (il) tutto significa che:

«Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è, o non sia assolutamente. L’assoluto è dunque voragine che tutto accoglie e tutto annienta, abisso orrido e immenso, ma insieme fonte e sede della forza»2.

Ora, poiché:

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,/καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,/καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος./Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. 3

sembrerebbe che, in mancanza di ragione, manchi anche divinità: se la sovrapposizione tra θεὸς e λόγος è esatta, da questa considerazione non c’è via di scampo.

Ora, se manca la Ragione-Ultima, manca la fondazione-metafisica del tutto: la Ragione è dunque non una presenza, ma piuttosto un’a-ssenza, che possiamo identificare con l’a-ssenza di Dio. Leopardi altresì afferma che Dio è fondato dal nulla: le cose non hanno un’idea platonica che le sostiene, e questo vale anche per Dio, s’Egli è una cosa …

Ma, a proposito di Dio e il suo rapporto con il nulla che lo fonda – e quindi non lo fonda –, Leopardi scrive:

«Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] Ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Io considero dunque Iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio»4.

Questa citazione spariglia le carte; chiunque voglia fare di Leopardi un gigante dell’ateismo non si è, evidentemente, preso la briga di leggere queste annotazioni del 1821. Rolando Damiani, in una conferenza dell’ottobre 2014, riguardo il tema della “religione” leopardiana, affermò che, d’essa, occorre parlare:

«In un senso anomalo […] perché in Leopardi la religione non è un fatto né semplicemente confessionale, cioè di adesione confessionale alla dogmatica cristiana, questione che evidentemente per Leopardi si pone solo fino a un certo periodo della sua vita […] e neanche nel senso di rifiuto del religioso in una prospettiva di laicismo ottocentesco, che è uno dei modi per i quali è passata l’accoglienza di Leopardi»5.

Torniamo al dettato di Zibaldone 1619-1621; ivi, Leopardi legge la tradizionale formula di presentazione che Dio fa di sé stesso in Esodo 3, 14, come una dichiarazione ontologica di autosussitenza. Dio esiste in quanto deve esistere e, per riprendere alcune osservazioni fatte da Kierkegaard negli Atti dell’amore, il dover-essere fonda l’eternità dell’essere; Dio deve essere, dunque è eternamente. Avendo in sé la propria ragione necessaria – e sufficiente – d’esistenza, il Dio di Leopardi esiste “in tutti i modi possibili”, ovvero ci appare come ci deve apparire.

Osserva ancora Damiani:

«Nel 1824, cioè nella piena maturità del pensiero, il Dio di Leopardi non è un dio malvagio, è un dio casomai impotente. Un dio che non può fino in fondo essere padrone del manifestato, cioè di ciò che egli stesso ha creato. Perché? Perché al di sopra di lui c’è un potere inconoscibile […] che viene chiamato da Leopardi, tradizionalmente, ‘ordo fatorum’. […] Esso ha a che fare con l’Ἀνάγκη, la necessità […]. Di essa, Leopardi fa un’ipostasi, ma un’ipostasi maligna»6.

Da questo punto di vista, la necessità è un ÜberGott che sovrintende a Dio, ma prima ancora alle cose di questo mondo. In questo quadro, Dio si inserisce come motore, e pro-motore, di quel poco di bene che possiamo rintracciare nella storia: Dio è esperibile nello straordinario, certo, ma anche nella quotidianità del dolore, in cui Egli, pur volendo inserirsi per modificarla, non può:

«Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente: […] Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature»7.

«I suoi rapporti con gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti a essi: sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perché i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti»8.

Il che significa che Dio tenta d’accompagnare le sue creature e lo farebbe, se potesse. Vi è però la Necessità che, in qualche modo, fa resistenza e s’oppone all’assolutà bontà di Dio. Ciò che ciascuno di noi ottiene dal suo rapporto con Dio, è sempre e comunque il massimo che potrebbe avere. Ergo, ciò che otteniamo da Dio come atto d’amore puro, è il massimo che possiamo ottenere: chiedere di più sarebbe sfidare non solo Dio, ma la necessità che lo sovrasta.

L’abisso che ci separa da Dio è incolmabile, vasto, non giungiamo a lui se non saltuariamente. E questa Necessità, che supera Dio e supera l’uomo, questo ordo fatorum, insondabile e invincibile, come lo chiameremo? Lo chiameremo nulla: nulla di buono, nulla di razionale, nulla in ogni forma.

In questo senso dunque, l’Ἀνάγκη – il nulla – fonda tanto le cose del mondo quanto Dio, perché ordina le prime e frena l’azione del secondo. Ma affermare che Dio c’è, ma non può agire, è ben diverso dal dire ch’Egli non (c’)è! Leopardi, esattamente come l’ultimo Sartre (ricordate la famosa intervista a Lèvy del 1980?) non era un ateo, piuttosto il testimone disincantato d’una sorta di “eclissi contemporanea del divino”.

Leopardi sentiva la mancanza di Dio. N’era ossessionato. Lo cercava nelle forme del rito tradizionale (come dimostra l’ultima lettera prima della morte a Monaldo, in cui afferma d’essersi confessato e comunicato) ma faticava a scovarlo, assuefatto com’era dal “piacere fremebondo della disperazione”.

David Casagrande

PS: consiglio a tutti la lettura de L’ordine dei fati e altri argomenti della religione di Leopardi, scritto da Rolando Damiani per Longo Editore, 2014.

NOTE:
1. Zibaldone 1341-1342 (18 Luglio 1821), a cura di R. Damiani, ed. Mondadori – I meridiani, tomo I, pp. 971-972.
2. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Biblioteca Economica Laterza, Roma-Bari 1995, p. 142.
3. Gv 1, 1-3.
4. Zibaldone 1619-1621, ed. cit., pp. 1135-1136.
5-6. Video: La “Religione” di Leopardi. ROLANDO DAMIANI al Caffè Letterario di Lugo.
7. Zibaldone 1637, ed. cit., tomo I, p. 1146.
8. Zibaldone 1621, ed. cit., tomo I, p. 1136.

 

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Il cosmo e Leopardi

Al giorno d’oggi, sono soprattutto i fisici a interessarsi del destino dell’universo. Diversi sono gli scenari possibili: forse nei prossimi miliardi di anni l’infinita distesa delle stelle e dei pianeti rimarrà più o meno così come la vediamo oggi, o forse una continua e inarrestabile espansione porterà l’intero cosmo al congelamento e alla “morte termica”. Un’altra ipotesi non ancora del tutto smentita è la possibilità del cosiddetto “Big Crunch” (l’esatto opposto del “Big Bang”): l’universo che, invece di espandersi, si contrae e ripiega su di sé, annientando e riducendo a un punto inesteso se stesso e quanto era al suo interno.

Ma, un tempo, la domanda su quale sia il futuro che attende quanto è in Natura era innanzitutto un interrogativo da filosofi, da teologi, da letterati. Giacomo Leopardi, ad esempio, si è posto esattamente questo problema in due magnifici componimenti racchiusi in quella affascinante raccolta di scritti che porta il titolo di Operette morali, e ha tentato di risolverlo non mediante l’uso di qualche complicato e costoso apparecchio scientifico, ma soltanto facendo uso del proprio intelletto.

Nel primo dei due testi, il Cantico del gallo silvestre, Leopardi riporta un discorso tenuto proprio su questo tema – il futuro del mondo – da un certo leggendario gallo selvatico che, secondo alcuni maestri e scrittori ebrei, non solo sarebbe immensamente saggio (e dunque dotato, proprio come l’uomo, della ragione e dell’uso della parola), ma avrebbe anche dimensioni colossali (esso infatti, affermano i resoconti, «sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo»).

L’orazione pronunciata dal gallo silvestre intende indagare innanzitutto la natura umana, sviluppando poi considerazioni cosmologiche di più vasta portata. In particolare, il gallo rileva un’ana­logia tra quella che è la tendenza della coscienza in stato di veglia (spegnersi nel sonno) e quella che è la tendenza insita in ogni essere (il dirigersi inesorabilmente verso l’istante della propria distruzione). Questa simmetria non è casuale: a chi abbia occhi per vedere, infatti, appare chiaramente che «l’essere delle cose abbia per proprio ed unico obbietto il morire», ossia abbia come “obbiettivo”, scopo e destino finale il proprio annientamento. Basta guardarsi attorno per verificare di persona come «in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte. […] Ogni parte dell’uni­verso si affretta [infatti] instancabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile». La vita e la coscienza – entrambe configurazioni dell’essere – sono delle parabole che tendono irrimediabilmente verso il luogo del loro stesso tramonto e spegnimento.

Sulla base di queste considerazioni, lo sguardo del gallo si fa poi di gran lunga più ampio, arrivando ad abbracciare e a descrivere non solo le sorti della razza umana, ma perfino quelle dell’inte­ro universo. An­ch’es­so infatti, come tutte le cose, «continuamente invecchia»; anch’esso condivide il destino comune a «qua­lunque [altro] genere di creature mortali, la massima parte del [cui] vivere è un appassire». Tenuto conto di ciò, il gallo può formulare la grande profezia con cui si chiude il terribile e maestoso Cantico: «tempo verrà» – dice il sapiente animale – «che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta». È la fine di tutte le cose: dei «grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età», non rimarrà infatti né «segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso [ovvero: “il meraviglioso e terribile enigma dell’esistenza, prima di essere adeguatamente compreso e risolto dal­l’uma­nità”], si dileguerà e perderassi».

All’interno di questo scenario apocalittico, che assegna al cosmo nel suo complesso il destino di precipitare nel buio di un nulla senza fine, sembra però ancora essere possibile un ultimo barlume di speranza. Esso ci è offerto da Leopardi nell’altro testo delle Operette di cui intendiamo parlare: il Fram­mento apocrifo di Stratone di Lampsaco. In esso, l’antico filosofo Stratone (cioè Leopardi stesso) osserva che «i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente»; infatti, afferma Stratone, mentre «le cose materiali […] periscono tutte» e hanno tutte «fine» e «incominciamento», «noi veggiamo [al contrario] che la materia [in generale] non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, [e che] niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che [= “di modo che”] essa materia non è sottoposta a perire». Ne risulta che «la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab aeterno», sicché «si dovrà giudicare che […] non provenga da causa alcuna» e che, nonostante il «continuo trasformarsi delle cose da una in altra», la materia in se stessa non sia per questo «venuta meno in qual si sia particella».

Dopo aver richiamato, con tali parole, il principio di conservazione della quantità di materia (e quindi dell’energia), Stratone ne deduce che, qualora le forze che agitano la materia dovessero distruggere l’universo attuale, allora, «venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno [necessariamente] di questa [= “a partire da questa”] nuove creature, distinte in nuovi generi e in nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo». Stante l’eternità delle singole particelle di materia, infatti, la distruzione di un universo (il quale altro non è se non l’insieme delle relazioni temporaneamente intrattenute da tali particelle) non può che essere seguita dalla creazione di un altro universo ancora, non certo dal nulla assoluto.

Questo nuovo scenario cosmologico è di gran lunga più rassicurante del precedente, in quanto non conduce più gli esseri umani di fronte a quel cupo e atroce scenario in cui consiste l’ince­ne­ri­men­to totale, definitivo e senza possibilità di ritorno dell’intero universo. Certo, alcune righe di Leopardi lasciano intuire che egli ritenga che l’oscura profezia enunciata dal “gallo silvestre”, nonostante tutta la sua carica negativa, possa apparire per certi versi esteticamente più appagante della pur affascinante conclusione raggiunta da “Stratone” nel suo ragionamento perfettamente consequenziale. Nel § 261 dello Zibaldone, egli scrive infatti: «il sentimento del nulla […] è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è [reso] vivo [ed è stimolato e innalzato dal canto poetico], […] la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria». Ma che Leopardi, da ultimo, propenda proprio per l’ipotesi di un’e­ter­­na rinascita dell’universo dalle sue ceneri è certo, perché egli stesso, in una nota autografa inclusa nella seconda edizione delle Operette morali e posta in calce al Cantico del gallo silvestre, dichiara che la teoria lì presentata ha una «conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, [infatti,] l’esi­stenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine».

 

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA:
1. Leopardi, Operette morali, a cura di P. Ruffilli, Garzanti, Milano 2011 (1a ed. orig. 1827);
2. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, a cura di A.M. Moroni, Mondadori, Milano 2008, 2 voll.

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Sul senso etico della storia

La storia è strettamente collegata al divenire, essendo questo quel movimento delle cose, regolato dal principio di causalità e procedente in avanti nel tempo, ossia, detto in breve, il susseguirsi di tutti i fatti (fenomeni),i quali costituiscono poi la materia di studio della storia.

Naturalmente nella comune accezione con “storia” è intesa la sola analisi dei fatti umani; chiaramente, l’ottica storica, l’interesse per il passato, può focalizzarsi anche su tutti i fenomeni precedenti l’uomo, come ad esempio le ere geologiche, o la storia dell’evoluzione animale (darwinismo) e di quella vegetale. In questo senso, la storia sarebbe l’analisi di tutta quella parte del divenire già venuta in essere. Di tutto ciò che ci ha preceduto. Ma l’associazione storia-divenire non esaurisce la relazione tra storia e filosofia; anzi, è solo il punto di partenza di un fruttuoso rapporto: la concezione lineare della storia ci porta inesorabilmente verso un concetto-chiave così potente da abbracciare la natura intera: quello di “sviluppo”; la nostra storia non può essere concepita se non come una strada, una lunga strada che si chiama progresso: evoluzione dei corpi animali fino all’uomo, poi della cultura ,della tecnica, della società, il tutto volto al raggiungimento di forme vitali-culturali sempre più abili e capaci. È tipico della natura incarnarsi in forme di vita via via più evolute: questa è la verità generale del divenire, cui perveniamo inevitabilmente mediante la considerazione della storia. Sembra che la natura abbia come degli obiettivi, e che lavori senza sosta nel suo perseguirli: questa vicenda ci riguarda a priori, essendo noi non solo parte della natura, ma anche l’ultima novità nel campo nell’evoluzione, l’ultima grande innovazione della volontà naturale. Possiamo considerare che se la natura si accontentasse di generarsi in animali irrazionali e spietati, che si uccidono a vicenda come orribili e letali macchine, avrebbe tranquillamente potuto fermare la propria mutazione ben prima dell’uomo; avrebbe potuto ad esempio accontentarsi di incarnarsi nei dinosauri, mentre invece si è riprodotta negli uomini, la più recente versione della vita animale, estremamente intelligente (salvo eccezioni ovviamente), razionale, empatico; tutto ciò sembra gravido di conseguenze etiche per noi umani; non possiamo ignorare che tutto questo sviluppo mira precisamente a sviluppare un’intelligenza sempre più potente: e a questa appartiene poi l’empatia e lo stesso sentire etico in generale. Il tutto volto ad un’esistenza sempre migliore, volto a togliere il male dal mondo, almeno nella misura nella quale ciò risulterà effettivamente possibile. Ognuno compie il proprio destino solo adempiendo a ciò per cui nasce (Nietzsche diceva: “Diventa ciò che sei”) ; in generale, noi uomini siamo nati per progredire nella civiltà: è questo il nostro vero imperativo etico, questo è il senso etico della nostra storia.

Chiaramente noi dovremmo aspettarci dal futuro l’avvenire di una potenza tecnica tale da eclissare ogni malessere del mondo; questo è sempre stato il destino dell’intelligenza umana, ciò verso cui noi tendiamo; ne potremmo fare altrimenti, essendo la ricerca del piacere e la fuga dal dolore tutto lo scopo della nostra vita, come rilevava Leopardi nello Zibaldone:

Tutti gli esseri viventi desiderano la felicità: ricercare il piacere ed evitare il dolore sono fenomenologie tipiche di tutti gli enti senzienti.¹

In realtà la questione non concerne il solo grado di potere tecnico in possesso dell’uomo; il vero problema, infine, è il genere umano stesso: già oggi disponiamo di tecnologie potenzialmente sufficienti a garantire un tenore di vita accettabile per ogni singola persona sulla faccia di questo pianeta. Il fatto è che noi non rendiamo un buon servizio alla natura, e neppure a noi stessi; in fondo la storia dell’uomo è quasi interamente una lunga vicenda di sfruttamento e guerra: i rapporti tra i popoli si sono sempre stabiliti sulla base della reciproca potenza militare, gli uomini si sono sempre scannati a vicenda, proprio come quelle belve feroci che hanno evolutivamente superato. Non siamo poi così diversi dai dinosauri. Abbiamo usato la nostra intelligenza per fare il male, siamo stati nichilisti, ci siamo sempre annientati vicendevolmente. Anzi è sempre stata la guerra a trainare il carro dell’innovazione tecnologica; probabilmente si tratta del più grande business dell’economia umana. Tutto questo perché non abbiamo intravisto quel senso etico che ci suggerisce la nostra storia, quel valore positivo del progresso indirizzato verso il puro miglioramento della vita.

Tutto ciò si rivela estremamente preoccupante soprattutto se pensato nell’ottica evoluzionistica: è tipico della natura scartare, distruggere ciò che non adempie al proprio scopo, e sostituirlo con forme di vita più adatte: è questa la legge dell’evoluzione. È necessario un rinnovamento etico del genere umano intero. Posto che ciò sia poi veramente possibile.

Alessio Maguolo

[Immagine tratta da Google immagini]

Mio fratello scrive

Che cos’è uno zibaldone? Scartafaccio in cui si annotano, senza ordine e man mano che capitano, notizie, appunti, riflessioni, estratti di letture, schemi, abbozzi, ecc.:.

Lo zibaldone è ciò che più si avvicina alla mia idea di coscienza, ciò che conosco che ricordo o posso ricordare è stato scritto perché sembrava importante, ma poi trovare un ordine all’insieme delle annotazioni è molto difficile e più si accumulano informazioni, più si fa ricco lo zibaldone personale, più la difficoltà ad unire le parti aumenta.

Ed è forse per questo che si scrive, per dare un senso alle idee che si rincorrono, Mattia ha chiamato “appunti per una guerriglia” il suo insieme di scritti e degli scritti che l’hanno colpito, guerriglia perché l’esistenza non è quasi mai una battaglia campale, accompagnata dalla tempesta e dallo squillo di trombe! ma piuttosto una lotta casa per casa, con il coltello e la pistola. E un verso, una poesia possono aiutare a ribaltare lo scontro, quando ormai tutto sembra perduto.

“Perché fatti non foste per viver come bruti” si ricorda Levi nei campi di concentramento, “stai leggero ragazzo” mi dico io nei momenti più tesi, non so da dove venga ma è una frase che ho memorizzato. E così le frasi ci seguono, questa è la cultura che m’interessa: quella che accompagna nel percorso alla comprensione della vita, alla sopportazione della vita, che spesso serve a poco, ed altre volte è indispensabile. Quella che lasci in un baule perché non è il momento per aprirla e quella che sai esattamente dove andare a recuperare quando ne hai bisogno.

 

Scrivo per non dimenticare,

scrivo per ricordare,

scrivo perché ho tempro per farlo, scrivo perché sono vivo,

scrivo perché non riesco a dormire,

scrivo forse perché l’oralità è morta,

Mattia Cappellazzo

La scrittura è qualcosa in più della sopravvivenza, ma è fondamentale alla sopravvivenza dell’intelletto… perché “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza

La scrittura è qualcosa di personale, e come tutte le cose strettamente personali, è qualcosa di universale, perché è qualcosa di umano.

Sono andato a correre. Ho svuotato la mente da ciò che non fosse necessario, da ciò che non fosse il ritmo, del mio respiro e delle mie gambe. Ho continuato a correre, a spingermi, a ignorare i polmoni. Sapevo perché correvo. Dopo l’ennesima curva me lo sono trovato di fianco, di colpo. Stessa maglietta, stessi pantaloncini, stesse scarpe, capelli più lunghi. Lo stesso percorso che avevamo fatto la scorsa volta, quando sembrava anche felice. E forse lo era.

Non importa, sapevo perché ero lì. Ho corso più forte, più veloce, ho dato fondo all’ultima riserva d’aria e l’ho lasciato indietro. Ho spostato più avanti (ma anche più indietro) i miei limiti.

Alla fine mi sono trovato seduto per terra, mi sono tolto le scarpe, e dopo mesi ho camminato scalzo sulla terra, sull’erba. Oggi è anche Primavera.

 

La Primavera non rinasce nell’erba sintetica dei vostri giardini,

nei neon dei vostri stabilimenti balneari,

nel cemento delle vostre strade,

ma nei canneti lungo gli argini dei fiumi,

nella sabbia delle spiagge più isolate,

nel pietrisco dei sentieri di montagna.

Dove l’uomo non può sentirsi padrone,

ma può solo sentirsi parte dl tutto.

Mattia Cappellazzo

Articolo di Gianluca Cappellazzo

[immagini tratte da Google Immagini]