L’ignoranza è forza: da George Orwell al nostro presente

Di questi tempi citare George Orwell può essere pericoloso, si rischia di passare per seguaci di una moda letteraria improvvisata tendente al radical e di replicare con triste ironia le frasi dello scrittore britannico per sottolineare la propria presunta superiorità morale e intellettuale, in contrasto ad una massa di creduloni in costante crescita.
La sola colpa imputabile a Orwell è di aver pubblicato settant’anni fa 1984, un libro che non conosce crisi nonostante l’angosciante grigiore che impregna ogni pagina e che, una volta concluso, fa venir voglia di auto esiliarsi in un monastero tibetano fino alla fine dei tempi; la colpa più grossa tuttavia appartiene a noi, intesi come genere umano, perché siamo stati capaci di realizzare alcuni dei cupi scenari distopici del romanzo e di promuoverli sia nell’intenzionale esaltazione dell’ignoranza, sia nell’inconsapevole immobilismo di chi la vorrebbe combattere.

L’ignoranza è forza è il terzo slogan del Socing – l’ideologia dominante nel mondo immaginato da Orwell – scritto a caratteri cubitali sulla facciata del Ministero della Verità, ma perché ci è così vicino? Perché è così attuale?
Basta semplicemente affacciarsi nel mondo social per rendersi conto di quanto la vera moda non sia tanto citare Orwell ma deridere chi apre un libro, chi si informa prima di esprimere un’opinione, chi sceglie di studiare, chi ha dedicato la propria vita alla ricerca.
Il termine “Professorone” attribuito in senso dispregiativo a chi è costretto a dimostrare che il fuoco scotta e che l’acqua è bagnata, è onnipresente, ed è indice di una sempre più bassa qualità dei dibattiti sociali, portati avanti – ironia della sorte – proprio nella piattaforma interattiva che ha richiesto lo sforzo e lo studio di un numero consistente di tecnici specializzati: il web.

I luoghi comuni secondo i quali “lavora solo chi utilizza la forza fisica” e “possiede esperienza solo chi ha la terza media perché a 14 anni era già nel mondo del lavoro e ha valore solo il sapere derivante direttamente dai nostri avi” formano il pilastro dell’ignoranza più osannata e incoraggiata.
Forse è una sorta di rivalsa non tanto di chi non ha potuto, come ad esempio i nostri nonni che nel periodo bellico e post-bellico non hanno avuto alternativa, ma di chi non ha voluto studiare, per noia o per interessi legittimamente diversi, fatto sta che l’avversione nei confronti di chi invece conosce un determinato argomento è palpabile e spesso violenta.

Perché l’ ignoranza è quindi più forte? Perché il gruppo che ne abbraccia i fondamenti è ben nutrito ma le risorse di cui dispone non le trova solo tra i suoi affiliati, esiste infatti un problema di ghettizzazione intellettuale.
Se dovessimo superficialmente suddividere gli internauti tra colti e analfabeti scorgeremmo tra loro un muro invisibile fatto di prese di posizione, sfottò e nulla più. Gli analfabeti rivendicano la loro natura e deridono i colti, i quali a loro volta deridono gli analfabeti e li classificano come casi irrecuperabili, senza speranza, di conseguenza questi ultimi restano ben saldi al loro mondo e di cambiare abitudini non ci pensano proprio.
Un cane che si morde la coda è una metafora che ben rappresenta la situazione.

L’immobilismo sembra non voler vedere né vincitori né vinti, ma probabilmente non si tratta di far vincere qualcuno, quanto piuttosto di cercare una terza via che conduce ad una sorta di compromesso.
Certo non è sostenibile mettere costantemente in dubbio ogni scoperta scientifica o quanto è già ampiamente conosciuto e dimostrato: la forma della Terra, l’efficacia dei vaccini, certi avvenimenti storici, la bontà dell’istruzione e di chi nell’istruzione ci lavora…
Ultimamente il dubbio è spesso utilizzato per esprimere con forza una negazione ma nella strada del compromesso potrebbe ritrovare la sua propensione alla curiosità, la quale a sua volta è portatrice di ricerca e conoscenza di quesiti ancora inesplorati oppure migliorabili.

Dall’altra parte proprio perché nessuno nasce imparato bisognerebbe puntare all’inclusione, alla divulgazione e alla condivisione delle conoscenze in proprio possesso, per avvicinare quanta più gente possibile ad un qualcosa che alla fine appartiene a tutti.

 

Alessandro Basso

 

Immagine di copertina: Planetoide tetraedrico, Maurits Escher, 1954

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Facebook, dati personali e privacy: siamo all’altezza?

Nel marzo 2018, Cambridge Analytica, compagnia fino a quel momento pressoché sconosciuta, diventa tristemente famosa per aver raccolto informazioni personali identificative di almeno 87 milioni di persone tramite Facebook. Secondo l’informatore Christopher Wylie, ex-dipendente di Cambridge Analytica, la compagnia avrebbe raccolto dati che poi sarebbero stati usati per influenzare le elezioni americane e il referendum inglese sulla Brexit. La compagnia era già nell’occhio investigativo dell’Observer almeno da un anno1, ed era stata oggetto di un articolo del The Guardian nel 20152. Il primo articolo dell’Observer nel febbraio 2017 portò all’apertura di due inchieste ancora in corso, mentre nel 2015 l’Observer accusò il senatore americano Ted Cruz di usare dati definiti “psicologici” raccolti da Cambridge Analytica tramite Facebook, per influenzare i suoi utenti ritenuti potenziali sostenitori. Le interviste all’informatore Wylie del marzo 2018 hanno causato sdegno pubblico a livello internazionale: le inchieste che ne sono derivate hanno portato la compagnia a dichiararsi fallita, a causa delle spese legali sostenute e della pubblicità negativa, il 2 maggio 2018.
Il caso Cambridge Analytica dimostra che le informazioni personali che definiamo sensibili, sono effettivamente molto sensibili, perché possono essere usate in modi che superano la nostra immediata comprensione. Nell’immediatezza dello scandalo, molte persone hanno cancellato i loro profili Facebook, nel tentativo di proteggere i propri dati da futuri utilizzi illeciti.

Ma a ben vedere, il caso Cambridge Analytica dimostra qualcos’altro, altrettanto preoccupante: ovvero, quanto siamo diventati influenzabili in balia dei social media e quanto profondamente essi possano modificare i nostri pensieri e le nostre convinzioni, senza che noi stessi ce ne rendiamo conto. Lo scandalo del caso Cambridge Analytica non risiede tanto nella scoperta che i dati personali sono preziosi e possono essere usati e venduti per vantaggi commerciali (e politici): questo, in teoria, lo sapevamo già, come dimostrato dal proliferare di legislazioni sempre più restrittive a protezione dei dati personali degli ultimi anni. Cambridge Analytica dimostra una verità scomoda, per la prima volta proiettata senza filtri su larga scala: Facebook è uno strumento potente, su tutti i fronti, e noi probabilmente non ne siamo all’altezza. Siamo sufficientemente capaci di usare Facebook con le necessarie considerazioni ed attenzioni che esso richiede? Come è possibile poter influenzare il nostro voto tramite pubblicità o fake news mirate? Della violazione dei nostri dati, se ne occuperà chi di dovere, perseguendo chi ha violato le legislazioni in materia ed emanando nuove politiche per la loro protezione. Ma è sufficiente questo per proteggerci da noi stessi?

La necessità di esistere ed essere visibile, essere quindi social, è più forte nella maggior parte delle persone della preoccupazione per i propri dati e, in molti casi, della possibilità che essi siano sfruttati per influenzarci. Inoltre, l’uomo è un essere (più o meno) influenzabile per natura: la capacità di essere influenzato sta alla base della pubblicità. Eppure, nei confronti della pubblicità che passa in televisione, comunque meno effettiva perché non mirata verso uno specifico individuo, siamo più critici perché sappiamo che per vendere un prodotto bisogna, banalmente, mostrare le sue qualità piuttosto che i suoi difetti e, con ogni probabilità, anche gonfiarle facendo attenzione al linguaggio usato, alle immagini, ai colori, a qualsiasi dettaglio necessario per attrarre l’attenzione prima, ed influenzare poi. Non si tratta solo di pubblicità: siamo influenzabili anche offline. Se un nostro amico, collega o conoscente fa qualcosa che ci sembra particolarmente cool, con ogni probabilità influenzerà il nostro comportamento verso quella stessa cosa e nel caso più estremo faremo lo stesso. Un esempio sono le destinazioni turistiche: paesi precedentemente esplorati solo da viaggiatori avventurosi che nel giro di pochi anni vedono duplicare o triplicare il numero di visitatori.
Partendo da questo presupposto, Facebook non ha reso gli individui influenzabili. Esso ha piuttosto moltiplicato potenzialmente all’infinito questa nostra influenzabilità, non fosse altro perché passiamo molto tempo scorrendo una news feed che nella migliore delle ipotesi ci mostra quello che fanno i nostri amici e, nella peggiore, ci presenta notizie o pubblicità mirate ad influenzarci.

Tuttavia, questo non significa che non dovremmo più usare Facebook, come alcuni hanno pensato in preda all’isteria del momento. Non è il male di tutti i mali, ma un facile capro espiatorio. È uno strumento molto potente, con funzionalità potenzialmente positive. Tuttavia, esattamente perché potente, va saputo usare: è necessario aver ben chiaro come funziona, conoscerne i meccanismi (reali) che vi sono dietro, essere consapevoli dei rischi (potenziali) e delle vulnerabilità associate. Serve usare Facebook consapevolmente, nello stesso modo in cui dovremmo bere alcool e fumare consapevolmente, guidare solo con una patente di guida e sparare solo con un porto d’armi. In fondo, nessuna di queste quattro cose, la lasceremmo fare ad un bambino, perché non ha raggiunto la maturità intellettuale, cognitiva e critica per comprenderne a pieno conseguenze e rischi associati a tali azioni. In conclusione, più di tutto è necessario stimolare negli utenti quella criticità perduta (o forse mai veramente sviluppata), la cui assenza rischia effettivamente di essere il male di tutti i mali poiché ci rende influenzabili ad un livello pericoloso, non solo per un utilizzo consapevole di Facebook ma anche nella vita quotidiana.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Revealed: 50 million Facebook profiles harvested for Cambridge Analytica in major data breach, The Guardian
2. Harry Davies, Ted Cruz using firm that harvested data on millions of unwitting Facebook users, The Guardian, 11 Dicembre 2015

[Immagine tratta da pexels.com]

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Parresìa digitale. Rispondere alle domande del web con la filosofia

I nuovi scenari di comunicazione digitali stanno ponendo alla società odierna delle sfide che hanno delle conseguenze decisive sul piano culturale e politico. Tuttavia, non si tratta di problematiche affatto nuove, ma del riproporsi di dinamiche comunicative che la filosofia ha analizzato già da millenni.

Andiamo per un momento all’ultimo corso tenuto da Foucault nel 1984, in cui analizza la storia del concetto greco di parresìa, termine con il quale nell’antica Grecia si indicava il dire-il-vero, il discorso che, mettendo da parte tutti i personalismi e gli interessi particolari, ha come unico obiettivo la verità; e che si sostanziava nel dovere-privilegio di parlare a nome della polis nelle discussioni politiche. Tuttavia, questa pratica diventa pericolosa con l’avvento della democrazia, perché, argomenta Platone, essendo concessa a chiunque facoltà di parlare, discorsi veri e discorsi falsi si confondono e diventano indiscernibili. Anche Demostene nella terza filippica sottolinea come il popolo preferisca chi lo lusinga a chi dice la verità e come ciò renda impossibile la parresìa: nella assoluta libertà di pronunciarsi è impossibile esercitare la parola come strumento di ricerca e comunicazione della verità.

Come questa struttura dialogica perversa si stia riproponendo oggi sul web è sotto gli occhi di tutti. Il circolo vizioso della comunicazione digitale nasce dalla capacità di penetrazione e dalla pervasività degli strumenti digitali, che permette l’identificazione quasi scientifica degli interessi e desideri della propria audience. Da questa grande potenzialità comunicativa discende un uso che mira a accondiscendere a tutte le opinioni per acquisire sempre più pubblico: in questo coacervo di informazioni scritte con il fine di attrarre lettori, la parresìa, la facoltà di esprimere il vero, è inibita in partenza.

Da redattore di una rivista web di musica classica come Quinte Parallele, posso dire che il riscatto da tale scenario deve passare necessariamente da un cambiamento di rotta degli attori che si occupano di informazione e/o cultura. È necessaria una redenzione nell’utilizzo di queste tecniche di comunicazione: la conoscenza delle inclinazioni e del comportamento delle persone deve essere usata per indurre al pensiero critico e all’informazione, piuttosto che per assecondare le opinioni, spesso superficiali, dei lettori, al fine di acquisire pubblico. Nel nostro progetto editoriale cerchiamo di andare in questa direzione, sfruttando le potenzialità della comunicazione digitale per invitare le persone all’ascolto e all’approfondimento della musica d’arte. E possiamo dire che è una strada che funziona, perché i lettori rispondono quando sollecitati. Infatti, la cultura e il pensiero sono elementi costitutivi di ogni essere umano, così come anche le bassezze e le oscenità.

Decidere su quali aspetti puntare significa decidere quale idea di futuro si vuole costruire.

 

Francesco Bianchi

Francesco Bianchi, studia filosofia tra Macerata, Padova e Jena e marketing a Roma. Le infinite vie del Geist lo portano a dirigere nel dopolavoro Quinte Parallele, la rivista di musica classica che fra qualche anno renderà più diffuso Wagner di Beyonce.

Intervista Ferruccio De Bortoli: preservare e accrescere il pensiero critico

<p>Roma 11/05/2010 Trasmissione Ballaro' in onda su Raitre nella foto Ferruccio De Bortoli</p>

Il giornalismo molto ha a che fare con la filosofia, sopratutto se pensiamo alla loro relazione con la verità: entrambi agiscono ricercando la verità dei fatti, comprendendo cause ed effetti, inquadrando lo stato delle cose nel flusso della storia e fornendo così all’uomo-lettore una chiave interpretativa e una prospettiva di senso sul mondo. Il filosofo e il giornalista hanno una grande responsabilità, quella di promuovere, preservare e partecipare allo sviluppo del pensiero critico, di fare in modo che il cittadino, accompagnato all’origine dal dubbio, maturi una capacità forte di pensare in profondità e ricercando il confronto e il dialogo. Così il cittadino-lettore, oggi più che mai nell’era degli users generated contents ha a sua volta un’importante responsabilità, quella di informarsi bene e non superficialmente, essendo egli stesso, attraverso i social network e il web, capace di influenzare e orientare la percezione dei fatti. 

Su queste questione abbiamo avuto il piacere di conversare con il prof. Ferruccio De Bortoli, giornalista professionista dal 1975; direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015, ha matura un’esperienza pluriennale come caporeadattore e come commentatore di economia e attualità politca. Ha anche diretto “Il Sole 24 Ore” ed è stato amministratore delegato di Rcs libri fino al 2005. Dal 2015 è presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas, collaborando tutt’ora come editorialista al Corriere della Sera e al Corriere del Ticino. Nel 2017 firma Poteri forti (o quasi), un libro in cui ricostruisce quarant’anni di storia del nostro paese e del giornalismo, fornendo un’inedita e preziosa testimonianza. Dal terrorismo alla crisi economica, dal declino dell’editoria fino alla comparsa di comunicatori improvvisati e agevolati dalle moderne tecnologie: De Bortoli a ricostruisce incontri e scontri, scambi di opinioni e fughe di notizie, sostenendo che oggi in Italia i poteri sono trasversali ma deboli e che una società evoluta non deve avere paura delle “verità scomode”. Un libro a metà tra il saggio e l’autobiografica, il cui filo rosso è una profonda dichiarazione d’amore per la propria professione di giornalista e per la passione che ha accompagnato e accompagna tutt’ora questo mestiere.

 

Lei è stato per diversi anni (dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015) direttore del Corriere della Sera nonché direttore del Sole 24 ore dal 2005 al 2009, per cui ci sembra una persona più che adeguata a cui porre questa domanda: quali sono gli elementi che contraddistinguono e identificano il buon giornalismo?

Gli elementi sono sempre gli stessi, cioè non cambiano con il mutare delle tecnologie. Un buon giornalismo è per sua natura scomodo, irriverente, imprevedibile, non controllabile. Ci sono due termini del giornalismo anglosassone che credo possano essere assolutamente applicati anche nell’era dei social network e delle comunicazioni digitali: accurancy e fairness, dunque correttezza, credibilità e responsabilità dell’usare la libertà di cui si dispone.

Se il buon giornalismo non è cambiato, sicuramente possiamo affermare che gli strumenti e gli atteggiamenti del giornalismo (senza accezioni) sono mutati, soprattutto nel suo rapporto con il web e con i social network. Quali sono i punti fondamentali su cui riflettere in proposito, sia dalla parte dei giornalisti che dei lettori?

Stiamo vivendo una fase di progressiva riflessione sul tema dell’accesso ai social network. Nessuno mette in dubbio la grande libertà di poter avere contatti e di poter assumere informazioni di vario tipo; stiamo passando diciamo il primo periodo di entusiasmo pioneristico e ci domandiamo se la grande massa (in termini di quantità) di informazioni che abbiamo a disposizione sia di per sé utile o al contrario non sia dispersiva e qualche volta ponga una serie di interrogativi su una censura più subdola, che è quella dell’abbondanza di cose irrilevanti che rendono di per sé l’informazione rilevante trascurata oppure non messa nella giusta attenzione e nella giusta prospettiva di spazio. Quindi ci stiamo ponendo in questa fase di progressiva maturazione della nostra capacità di usare i social network di fronte al tema: tutto quello che abbiamo è utile e necessario o dobbiamo metterci nella condizione di selezionare in maniera più rigorosa le informazioni che abbiamo? Il fatto di avere un sistema che è fornito dall’informazione professionale anche dalle tante testate storiche di poter selezionare gli avvenimenti e i fatti e le opinioni sulla base della loro importanza mette il cittadino navigatore nella condizione di difendersi e nella prospettiva di non diventare, cullandosi in questo mare di informazione disordinata, un naufrago o un suddito passivo.

In questo contesto mediatico appena descritto, soprattutto in riferimento a internet, non crede che ci sia il rischio di compromissione dell’eticità del giornalista che dovrebbe in qualche modo “difendere” o comunque tener sempre conto dei diritti all’informazione dei lettori?

Il web smaschera molto più facilmente i cattivi giornalisti e naturalmente pone il giornalista di qualità nella condizione di essere per prima cosa in possesso degli strumenti tecnologici dell’informazione digitali, in secondo luogo lo pone di fronte a nuovi compiti di correttezza e di affidabilità, lo toglie da un piedistallo che storicamente aveva, perché comunque nell’informazione digitale non c’è più una grande differenza tra chi fa e chi riceve l’informazione e lo mette di fronte a dei doveri morali di chiedere scusa e di non essere così presuntuoso da ritenere di possedere, magari in esclusiva, la verità.

Abbiamo parlato e in effetti parliamo molto spesso del dovere e della responsabilità dei giornalisti a fornire la verità e del loro dovere nel rispettare un’etica giornalistica forte; molto meno spesso parliamo invece dell’etica e delle responsabilità dei lettori, oggi messe a dura prova dai numerosi strumenti forniti dalle rete. A suo parere a quali responsabilità e dovere deve rispondere il lettore-cittadino?

I lettori nell’era degli users generated contents hanno una certa responsabilità, perché sono testimoni degli avvenimenti, partecipano sui social, commentano in diretta opinioni, interventi, fanno atti pubblici, quindi sono in grado di orientare la percezione degli avvenimenti perché comunque insomma interpretano il polso della gente, del popolo che sta attorno ad alcuni fatti  e che segue alcuni personaggi, però hanno anche la responsabilità di informarsi bene, cioè uno degli aspetti secondari degli effetti laterali dell’era del digitale nell’informazione è la comodità con la quale possiamo accedere ad ogni possibile fonte di informazione; questa comodità spesso di trasforma in passività e in accidia. Per informarsi bene bisogna fare comunque un po’ di fatica, non possiamo essere utenti passivi, dobbiamo sviluppare una capacità critica, una coltivazione del dubbio, in modo da poter confrontare in maniera corretta ciò che è rilevante da ciò che non lo è, e distinguere meglio ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è effimero da ciò che è sostanziale, ciò che è lecito da ciò che è illecito.

Tutto ciò riguarda qualsiasi tipo di giornalismo. Siamo in un’era nella quale non si può più ingannare il prossimo, si paga un prezzo elevato per la scarsa affidabilità, ma si è tenuti anche a riconoscere gli errori perché lavorando specialmente in un sistema che a volte privilegia la tempestività all’accuratezza si incorre ad una quantità di errori decisamente superiore rispetto a quelli che si potevano commettere in altre ere tecnologiche dove si poteva naturalmente decantare, aspettare, dove il tempo era più in possesso di chi faceva informazione. Adesso il tempo è in possesso dei lettori, il pendolo del potere si è spostato verso l’utenza rispetto a coloro che forniscono e fanno informazione, quindi questo è un elemento di cui vale la pena sottolinearne l’importanza, un tema di maggiore responsabilità di chi fa l’informazione e un controllo molto più stretto da parte degli utenti e del pubblico. La considerazione che comunque se si chiede scusa per gli errori commessi e la rete riconosce la buona fede, è comunque un tema di credibilità, di correttezza, di autenticità del proprio essere giornalista.

debortoli-poteri-fortiNel suo libro Poteri forti (o quasi) (La nave di Teseo, 2017) lei sostiene come i grandi paesi abbiano dei poteri forti, cioè dei poteri che sono però responsabili perché sono all’interno di un quadro di regole, rispettano l’ordinamento democratico. A differenza però di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia i cui poteri non sfuggono alle regole democratiche ma fanno parte di una società che ha un senso di responsabilità nazionale condivisa, il dramma del nostro Paese è di non avere più poteri forti. Perché a suo parere l’Italia non è più in grado di avere poteri riconoscibili?

Nel libro cerco di sfatare un mito che è ricorrente tutte le volte che accade qualche fatto importante nel nostro Paese: si evocano secondo me a volte in maniera del tutto impropria i poteri forti del Paese che interverrebbero nel mutare il corso della democrazia o delle istituzioni privando quelle che sono le rappresentanze del popolo del loro potere e della loro capacità di agire. Io invece penso che se ci sono poteri forti che possono essere da un lato della politica (i partiti) e dall’altro dell’economia/finanza (grandi gruppi industriali o finanziari), se sono poteri forti con una storia, un’anima, un senso di responsabilità, una capacità di sentirsi responsabili per i destini del Paese come avviene diciamo nei Paesi  più evoluti che hanno una classe dirigente coesa, e comunque dei poteri  forti ma responsabili – beh, penso che questo non sia un guaio ma uno degli elementi costitutivi della grandezza identitaria di un Paese. Quando mancano questi poteri forti nella politica, nell’economia e nella finanza si lascia lo spazio ai rider, e i rider possono essere da Berlusconi a Grillo, nell’economia e nella finanza possono essere i furbetti del quartierino o gli speculatori stranieri o anche le grandi banche d’affari americane, cioè poteri assolutamente svincolati da un rapporto con il Paese e quindi privi di un controllo democratico. Penso che il problema vero sia questo: la mancanza di poteri forti naturalmente allinea e accresce poteri trasversali e occulti, deboli, cordate amicali che sono ancora per certi versi più pericolosi di poteri forti che noi identifichiamo. Nel nostro Paese abbiamo paura delle dimensioni, invece dovremmo coltivare un accrescere dimensionale delle imprese e ritornare a riscoprire secondo me l’importanza dei partiti senza i quali non c’è democrazia.

Entrando nello specifico all’interno dell’ambito giornalistico italiano, quali sono le influenze dei poteri “quasi” forti? Mi riferisco per esempio a grandi gruppi editoriali come per esempio Mondadori.

Nel libro spiego molto quali sono i rapporti tra azionisti e informazione; distinguo tra azionisti che hanno rispetto dell’autonomia, dell’indipendenza e del valore delle loro partecipazioni, nel senso che riconoscono e danno fiducia a redazioni o direzioni (poi gliela possono sempre togliere) ma naturalmente che si comportano con rispetto per quello che è il valore intrinseco dei giornali, e poi ci sono dei padroni, delle diverse tipologie di proprietari che magari usano il giornale come strumento di pressione o di potere per inseguire i propri interessi.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere ritiene che la filosofia possa avere un ruolo importante? Che cos’è per lei Filosofia?

Io penso che sia importante, soprattutto nel dibattito riguardante i grandi maestri del passato e naturalmente guardando con grande attenzione allo sviluppo del pensiero contemporaneo, cioè viviamo una fase di grande tecnologia ma di scarso pensiero, esattamente l’opposto rispetto alla Grecia classica, che aveva molto pensiero e scarsa tecnologia. Noi abbiamo il compito di preservare e accrescere il pensiero critico, di fare in modo che il dubbio accompagni la vita dei cittadini responsabili, attenti e curiosi, e in questo la capacità di pensare in profondità, in larghezza e nella disponibilità a mettersi nella parte dell’altro – prendo molto Levinas da questo punto di vista cioè nel riconoscere nell’altro il prossimo – io penso che sia una delle chiavi di volta della vita contemporanea.

 

Elena Casagrande

Intervista rilasciata in occasione di Pordenonelegge 2017

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Onniscienza portatile, istruzioni per l’uso

Hai mai voluto essere Dio?
Onnisciente e ubiquo.
In un mondo in cui siamo tutti umani, a volte anche troppo, la filosofia, la più grande fabbrica di frasi a effetto della storia, suggerisce un’idea di saggezza distante dall’immagine di colui che tutto sa: “so di non sapere” è piuttosto l’ammissione di umiltà che apre la via per la conoscenza.

Ok, Socrate, io so di non sapere, ma Google lo sa. Le risposte che cerco sgorgano dal palmo della mia mano attraverso il mio smartphone, che quando ha la batteria carica ed è ben aggrappato a un segnale Wi-Fi mi offre tutto il sapere condiviso dall’umanità sul web. Posso sapere tutto. Sono connesso con tutti.
Onnisciente e ubiquo.

So che posso sapere.

Gli antichi non si sarebbero sconvolti più di tanto vedendo bruciare la biblioteca di Alessandria, la più grande e ricca dell’epoca ellenistica, se avessero potuto tenere tra le dita uno smartphone. Nelle nostre tasche, di biblioteche di Alessandria ne abbiamo a milioni.

Una vera libidine per il filosofo, che prende il suo titolo in quanto “amante della conoscenza”.
Il filosofo dell’era moderna ha a disposizione un campo senza confini dove ammirare le meraviglie prodotte dallo spirito umano.
E poter imparare di tutto: quali sono le città del pianeta che ospitano più abitantiCome appare il cielo notturno, visto dal polo sud? Quanti elastici ci vogliono per stringere un’anguria fino a spezzarla in due?

Attento, goloso di conoscenza. Davanti a questo buffet sterminato di nuove informazioni, la distanza che separa la ricerca della verità dal cazzeggio asistematico è breve.

Se ti è capito di voler essere Dio, o perlomeno di avere qualcuno dei suoi poteri, probabilmente significa che non lo sei. Che il tuo cervello, come quello dei tuoi simili, è capace di processare in maniera funzionale una quantità limitata di informazioni.

La quantità di conoscenza disponibile in modo tanto rapido e accessibile può essere fruita armoniosamente solo se accompagnata da una consapevolezza qualitativa. Non è superfluo soffermarsi su come organizziamo e gestiamo le informazioni che acquisiamo, non è superfluo cominciare un discorso sul metodo, perlomeno fino a che rimaniamo umani, troppo umani.

So che posso sapere, ma forse so anche di non sapere quello che voglio sapere.

Google sa un mucchio di cose, ma continua a presentarsi come un foglio bianco. Un saggio onnisciente ma muto, pronto a darci tutte le risposte, a patto che siamo noi a fare il primo passo scegliendo una domanda.
L’apertura verso possibilità indefinite può lasciare spiazzati. Basta ricordare quando il professore iniziava l’interrogazione dicendo: “prego, mi parli di un argomento a suo piacimento”. Senza la consapevolezza dei punti di forza e di debolezza, la libertà può risultare fatale.

Tutto il sapere del mondo vale poco, se non si è addestrati a porre delle buone domande. Nell’epoca della connessione, non sono solo i dispositivi elettronici e le strutture informatiche che possono essere collegate in una rete grande come il mondo: anche noi abbiamo la possibilità di connettere la marea di informazioni in cui siamo immersi con le nostre vite, sfruttando le possibilità delle tecnologie digitali per i nostri obiettivi e le nostre motivazioni.

Se potessi entrare oggi nella biblioteca di Alessandria, quale sezione visiteresti per prima? La risposta a questa domanda potrebbe dirti qualcosa di più su come sei.
Ogni giorno, quali sono le cose che chiedi ad internet, che tutto sa? Quale immagine di te riflette?

Quale può essere quindi la domanda degna delle possibilità che abbiamo oggi?

 

Matteo Villa

 

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Cyberbullismo: basterà una legge a salvare i nostri ragazzi?

Comportamenti prepotenti e violenti, perpetrati dal “branco” nei confronti dei più deboli, è un fenomeno noto da molto tempo, oserei direi sempre esistito. Tuttavia, negli ultimi anni, l’uso improprio delle nuove tecnologie, del web e, in generale, del mondo digitale, ha innescato una nuova tipologia di bullismo definito cyberbullismo. Il fine è sempre lo stesso, ovvero molestare, spaventare, mettere in difficoltà ed escludere chi viene considerato “diverso” da un punto di vista estetico, perché introverso, per un differente orientamento sessuale, ecc.

Le modalità, rispetto al bullismo tradizionale, sono differenti. Le maldicenze vengono divulgate attraverso strumenti digitali: messaggi sul cellulari, mail, vari social network; vengono postate immagini e video imbarazzanti, rubate identità e profili social per insultare, deridere le vittime.

Tali azioni possono veramente annichilire un adolescente che non è sufficientemente forte per dare il giusto peso alle offese perpetrate, soprattutto in una fascia d’età in cui il giudizio dei coetanei è determinante per essere accettati dal gruppo e, purtroppo, anche per stare al mondo.

Gli effetti sono altrettanto devastanti. Lo stigma inflitto porta all’annientamento della vita sociale delle vittime, all’isolamento totale con conseguenti danni psicologici di tipo depressivo e ideazioni o intenzioni suicidarie. Il cyberbullismo ha così innescato una serie di comportanti criminosi e ha causato non poche vittime tra gli adolescenti.

Dobbiamo inoltre considerare che tali crimini vengono perpetrati in assenza di limiti spazio temporali. Ovvero, mentre il bullismo tradizionale avviene in luoghi e momenti specifici, il cyberbullismo colpisce il/la ragazzo/a preso/a di mira ogni qualvolta desidera collegarsi ai mezzi digitali manovrati dal cyberbullo. Le prepotenze hanno la capacità di divulgarsi all’istante e la vittima ha la sensazione di poter essere raggiunta ovunque si trovi.

Altro elemento da tener presente è il possibile allentamento delle remore etiche dell’adolescente molestatore che, oltre ad avere la possibilità di essere “un’altra persona” online, non si rende pienamente conto di quanto un insulto, un video violento o una foto possano nuocere. I ragazzi fanno fatica a riconoscere che il materiale che hanno diffuso è criminoso e ricordarglielo significherebbe preoccuparli unicamente per le punizioni legali, non tanto per la gravità morale che caratterizza l’atto compiuto.

Lo scorso 17 maggio la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge contro il cyberbullismo.

La nuova normativa regola e sanziona i reati del mondo digitale compiuti attraverso strumenti telematici (sms, mail, chat, ecc…) e ha come obiettivo la prevenzione e l’attivazione di strategie educative nei confronti sia delle vittime che dei responsabili.

I risvolti penali del cyberbullismo dovrebbero essere un deterrente per tutti quei ragazzi che intendono minacciare la vita dei loro coetanei attraverso contenuti digitali molesti.

Dico potrebbe perché la legge da sola non può bastare. In una società ipertecnologica in cui le possibilità di connettersi al web sono semplici e costanti, gli adolescenti utilizzano le nuove tecnologie per giocare, comunicare con gli amici, postare e condividere foto e video; ciò a tal punto che il digitale ha modificato linguaggi e comportamenti dei giovani nelle relazioni interpersonali, facendo sì che la dimensione online e quella reale diventassero complementari.

La legge da sola non può bastare se a monte non c’è un’azione educativa. Noi adulti dobbiamo iniziare a considerare che internet fa parte dell’evoluzione e che vietarne a priori l’utilizzo comporterebbe solo un uso del web “segreto”e spesso scorretto o pericoloso.

Si tratta di considerare il web come uno strumento da utilizzare in sinergia con i nostri ragazzi, educandoli, ascoltandoli e facendoci spiegare come lo utilizzano; si tratta di interessarsi alla loro vita che, volenti o nolenti, è anche online. Solo se da genitori o educatori entriamo in contatto con i nostri ragazzi e con la loro “vita online”, possiamo conquistare la loro fiducia e dettare regole, “stipulare un contratto” sull’uso corretto dello smartphone e del pc, avvisarli dei pericoli, delle conseguenze di certi atteggiamenti e delle implicazioni legali.

Solo in questo modo avremo dei ragazzi in grado di vivere correttamente il loro essere cittadini digitali.

 

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Intervista a Piero Dorfles: verso un’etica della consapevolezza dell’informazione

In un’epoca in cui l’informazione, il giornalismo e l’editoria stanno cambiando velocemente e radicalmente, è necessario prendere consapevolezza di tale cambiamento, che inevitalmente si sta ripercuotendo su tutti noi lettori. Siamo davvero sicuri di essere lettori consapevoli? Consapevoli di ciò che leggiamo, di ciò che ci viene fatto vedere alla televisione o sentire alla radio? Sappiamo davvero distinguere se il libro che abbiamo tra le mani è un prodotto di qualità oppure è frutto di un mercato monopolizzato dai grandi gruppi editoriali?

Per rispondere a queste domande, abbiamo voluto riflettere sullo stato attuale del giornalismo, dell’editoria e dell’informazione con Piero Dorfles, giornalista e critico letterario tra i più affermati in Italia, responsabile dei serivzi culturali del Giornale Radio Rai e conduttore del programma televisivo Per un Pungo di libri di Rai3. Autore di diversi libri, tra i quali: Atlante della radio e della televisione (Nuova ERI 1988), Carosello (Il Mulino 1998) e Il ritorno del dinosauro, una difesa della cultura (Garzanti libri 2010). 

Attraverso  I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, (Garzanti Libri, 2014), Piero Dorfles è convinto che i grandi classici possano dirci e insegnarci molto sul mondo contemporaneo, dimostrandoci come la letteratura spesso anticipa il tempo. Ma il grande classico non è un libro per ‘intrattenersi’, è un libro che bisogna imparare a lettere, con esercizio e con lo spirito di chi vuole andare avanti e indietro nel tempo. Così se, l’impiegato Gregor Samsa ne La metamoforsi di Kafka, trasformato in un insetto mostruoso e rifiutato dalla sua stessa famiglia, rispeccha la condanna di tutte quelle persone che non riescono a sintonizzarsi con i comportamenti dettati e codificati dal mondo, Capitano Nemo in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne è simbolo di coloro che sono sempre alla ricerca di una rivincita sul mondo, e ancora, se nelle pagine del Ritratto di Dorian Grey di oscar Wilde ritroviamo quella paura di invecchiare così presente nel nostro tempo, in Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati ritroviamo l’uomo che, intrappolato nel rispetto e obbiedenza delle regole imposte dalle istituzioni, si brucia gli anni migliori della vita.

Come diventare dunque, lettori coscienti e lettori del mondo? Lo capiamo dalla parole di Piero Dorfles.

Sulla base della sua esperienza di giornalista, a suo avviso, quali sono i principali punti di debolezza del giornalismo italiano oggi, non solo da un punto di vista editoriale, ma anche del trattamento delle notizie da parte dei giornalisti?

Dire qual è il problema tecnico secondo me è secondario, perché in realtà in Italia abbiamo anche ottimi giornalisti che sanno fare benissimo il loro mestiere; il problema secondo me non è dei giornalisti ma della politica editoriale dei mezzi di comunicazione, siano essi radiofonici, televisivi o a stampa. Noi viviamo un periodo in cui la confusione prodotta dall’estensione dei grandi partiti di massa ha prodotto un atteggiamento molto distaccato della gente e delle comunicazioni di massa nei confronti dei grandi problemi che stiamo vivendo, e dall’altra parte la preminenza di una visione commerciale (sia per quanto riguarda la produzione culturale che per quanto riguarda la produzione di massa) tende a dominare come principio informatore tutto quello che noi facciamo. Ecco perché io credo che il problema non sia tanto di valutare se per esempio i giornalisti siano capaci di fare quello che una volta era la grande inchiesta e di “consumarsi le scarpe”, quanto piuttosto che cosa gli chiedono in redazione: se l’editore chiede al direttore copie, e se il direttore capisce che per vendere bisogna andare incontro agli istinti più bassi del pubblico, considerando che questo comporta non l’approfondimento ma la superficialità, noi di conseguenza avremo giornali, televisioni e radio superficiali; che dentro i giornali ci siano persone di grande qualità purtroppo vale poco.

A proposito di tecnologie e social media: il web e i social network hanno rivoluzionato il modo di fare giornalismo ma anche il modo di fruire l’informazione. Anche l’informazione deve spesso sottostare alle rigide dinamiche e regole del web e molto spesso le notizie arrivano prima nei canali social che non alla televisione o sui giornali. Com’è cambiato il giornalismo nel suo rapporto con il web e con i social network?

È cambiato sicuramente in modo radicale, ma non solo perché ci sono i social network: il meccanismo di comunicazione in rete ha prodotto da un lato una accelerazione della comunicazione e dall’altro una forte semplificazione dei rapporti tra fruitori e produttori dell’informazione, i cosiddetti prosumers o prousers, così definiti da degli scienziati americani. Essi sono i veri informatori di oggi: qualsiasi cosa succeda per la strada dopo pochi minuti in una redazione arriva l’sms o l’mms con le immagini o addirittura il filmato di quello che è accaduto, prima che qualunque troupe si possa spostare o un giornalista esca di casa. Questo naturalmente cambia sostanzialmente la velocità dei rapporti con le cose.

L’informazione però non è fatta solo di nudi facti ma è fatta anche delle informazioni necessarie ad inquadrarli, a capirli e a spiegarli; se c’è qualcosa che la rete purtroppo sta facendo è di erodere questa seconda parte del prodotto informativo e che è fondamentale per capire cosa abbiamo intorno a noi nel mondo. Sostanzialmente noi viviamo in un momento in cui il flusso d’informazioni è frenetico, ma la capacità di spiegarle, interpretarle ed inquadrarle sistematicamente diventa ogni giorno più modesta; questo cambiamento che ipoteticamente poteva essere un formidabile strumento di democratizzazione della conoscenza e dell’informazione rischia invece di essere qualcosa che toglie alla grande maggioranza della gente che non legge i giornali e le riviste le informazioni necessarie a inquadrare il mondo in cui viviamo con sufficiente lucidità.

L’editoria è in continua evoluzione e con essa anche i generi letterari. A suo parere il web e il digitale hanno in qualche modo “obbligato” gli scrittori e autori a nuovi parametri e stili di scrittura? Un contenuto perché sia leggibile e visualizzabile sembra dover avere per forza determinate caratteristiche e seguire determinate regole del web. Cosa pensa a proposito?

La mia risposta sarebbe “no”, e potrei anche fermarmi qui. Però vorrei aggiungere che in realtà se c’è una cosa che non ha funzionato è il concetto di lettura elettronica, perché il vero lettore tutto sommato non vuole soltanto avere l’intrattenimento che un libro ha nei tempi più veloce possibili, vuole anche avere il libro, in quanto non cosa fisica ma strumento materiale sul quale ritrovare emozioni, storie, scrittura, che rimane lì, per tutta la vita, non sparisce dopo che uno l’ha letto. Allora il lettore molto superficiale che legge un giallo per intrattenersi, tutto sommato forse segue una logica che nel tempo si è adeguata a modelli comunicativi molto stringenti, che poi sono quelli della narrazione televisiva; ma un lettore un po’ più attento – e i forti lettori lo sono – non ha bisogno di questo, ha bisogno di qualcosa che comunichi appunto più in profondità, e quindi dia non soltanto l’emozione di un racconto stringente, ma anche personaggi consistenti, una narrazione che inquadri bene l’argomento, che racconti la psicologia dei personaggi in profondità, che per esempio sia in grado di distinguere qual è il paesaggio anche umano e storico del racconto che ha messo in campo.

Io non ho la sensazione che in questo momento tutto ciò stia cambiando, ecco perché dico di no; naturalmente qualcosa succede sempre quando c’è un nuovo mezzo di comunicazione, perché questo produce anche una sensibilità e una cultura diversa. Piano piano noi ci siamo adeguati a modelli comunicativi diversi, il romanzo ottocentesco è bellissimo ma nessuno scriverebbe più come Balzac o Flaubert ma questo non toglie che questi continuino ad essere autori di grandissima profondità, ed è il genio di quegli uomini, la loro capacità di raccontare il mondo, che ancora oggi li rende immortali; quando un libro non ha alle spalle questi strumenti, attingere all’immortalità è molto difficile.

Per un pugno di libri, trasmissione televisiva alla quale da anni Lei collabora nel ruolo di critico letterario, è una delle poche nel panorama televisivo contemporaneo dedicate alla promozione della lettura e dei libri. A suo parere perché un programma televisivo può risultare più efficace rispetto ad altri canali, in particolare se consideriamo la presenza massiva di blog letterari che recensiscono libri?

Credo che la differenza principale sia che i blog letterari parlano quasi esclusivamente a chi è già un lettore, e anche un lettore appassionato,  perché altrimenti  non si metterebbe a frugare tra i blog; mentre un programma tv parla a tutti, lettori e – soprattutto – non lettori. Ha quindi la possibilità di sollecitare curiosità per la lettura in chi non ha mai preso un libro in mano. Nel caso del Pugno, poi, c’è la sfida tra due classi di ragazzi che si devono preparare su un romanzo per poter concorrere. Qualcosa che, soprattutto se fatto in forma collettiva, con la speranza di fare bella figura e magari di arrivare in finale raddoppiando il viaggio per gli studi televisivi, può portare ad apprezzare letture che altrimenti rischiano di risultare noiose.

In definitiva, mi pare che in rete ognuno cerchi ciò che già ama; e i lettori ci si ritrovino tra loro, senza però aprire nuove possibilità di sviluppo della passione per la lettura. Credo invece che la tv abbia ancora la possibilità di svolgere un ruolo pedagogico, o quantomeno di pubblicizzazione di qualcosa che nessuno considera più un comportamento socialmente rispettabile: la lettura. E questo, se non lo fa il servizio pubblico radiotelevisivo, chi lo può fare?

Si può dire che da ogni romanzo il lettore può trarre un insegnamento, nuove visioni e spunti di riflessione. Tra questi cento classici che ha selezionato, ce n’è uno al quale si sente più legato?

No. Ognuno ha avuto un significato diverso, in tempi diversi, e a seconda del numero di letture che ne ho avuto. Aggiungo che tra i Cento libri ci sono libri che non ho amato per nulla e altri, per me fondamentali, che non ho inserito perché non rispondevano al criterio che ho usato, quello dei classici più popolari. Leggere Salgari a otto anni è importante per sollecitare la fantasia, far correre gli occhi di un bambino per il mar della Cina; pur avendo amato Sandokan, però, non sono diventato un pirata. Ma a cinquant’anni può essere un esercizio improbo. A quindici anni si può amare Kafka e non capirlo, ma ogni volta che lo si rileggerà ci si troverà dentro qualcosa che prima non si era colto. Ciò detto, spesso, la mattina, ho la sensazione di essere diventato uno scarafaggio.

Considerando invece la continua offerta di nuovi libri, qual è la sua opinione sulla produzione letteraria contemporanea? Se dovesse realizzare un’antologia di romanzi degli ultimi decenni quali sentirebbe di non poter mai escludere?

Da me, non avrete un solo nome, nemmeno sotto tortura. L’immensa mole di libri pubblicati negli ultimi anni nasconde certo qualche perla, ma non mi sentirei di metterla in un’antologia. Le antologie dovrebbero essere fatte solo con i classici. Se qualche scrittore contemporaneo lo diventerà, vorrà dire che se lo sarà meritato. O che ce lo saremo meritato noi, come diceva Nanni Moretti di Alberto Sordi.

Ne I cento libri che rendono più ricca la nostra vita (2014) lei afferma che i classici costituiscono una grandissima fonte di ricchezza, non solo intellettuale, ma in quanto strumenti in grado di orientarci tra le grandi contraddizioni e complessità della società contemporanea. Con quale approccio, secondo lei, può rapportarsi un lettore ad un classico? Come renderlo attuale?

Quello che ho detto precedentemente a proposito di Dostoevskij credo sia lo strumento con cui avvicinarsi ai classici. Ciò che secondo me è importante è che uno non deve avvicinare un classico dicendo “Adesso mi intrattengo un po’”: deve piuttosto immaginare che si tratti di una lettura che gli darà qualcosa solo se lui l’affronta con un minimo di disponibilità, che vuol dire entrare in un mondo diverso dal nostro, andare avanti e indietro nel tempo, cercare di trovare il senso di cose profonde. Se c’è una cosa particolarmente interessante che ha detto oggi Noteboom1 è che per leggere la poesia bisogna imparare a leggere la poesia: anche per leggere un romanzo bisogna imparare a leggere romanzi, è una competenza che si deve acquistare: pensare che solo perché uno ha letto un libro contemporaneo poi può leggere subito Dostoevskij sarebbe sbagliato, c’è qualcosa di un po’ più profondo, di più analitico e di più complesso. Dostoevskij inoltre ci riporta indietro di centocinquant’anni, però dentro i suoi romanzi ci sono gli stessi comportamenti umani che noi conosciamo oggi, lo stesso tipo di tratti psicologici e sociali. Per cui anche se uno fa un po’ fatica a leggere Delitto e castigo, Raskol’nikov c’è ancora, è tra noi, ed è importante saperlo riconoscere.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno: il nostro obiettivo ci pare dunque molto vicino al suo. Lei che cosa pensa della filosofia?

La filosofia non serve a niente. Per questo è utilissima. Sappiamo a cosa servono gli idraulici, gli ingegneri nucleari, gli strateghi e i chimici; questi mestieri servizievoli, basati sulla specializzazione, ci sono indispensabili, ma non servono né a capire in che mondo viviamo, né a darci conto della complessità del problema del senso ultimo della vita. La filosofia non risolve nessun problema, non aggiusta i tubi e non produce energia, ma nemmeno guerre né armi letali. Produce dubbi, smussa le certezze, obbliga a fare i conti con le contraddizioni di cui è intessuta l’esperienza dell’uomo.

Senza filosofia si può vivere benissimo. E non porsi problemi. Ma chi non si pone problemi non è un uomo consapevole di sé. E chi non è consapevole di sé spesso cede a forme di irrazionalità collettiva che possono produrre le peggiori tragedie. Meglio avere meno specializzazioni e più consapevolezze, se si vuol vivere tranquilli. Magari con tanti rovelli, ma almeno senza la sensazione di aver lasciato ad altri il compito di pensare.

 

Impariamo a scegliere ciò che leggiamo, cosa guardiamo e cosa sentiamo, nei libri, alla televisione, alla radio e nel web, non in virtù delle logiche di mercato o da ciò che il mercato editoriale e informativo impone. Impariamo a scegliere un libro, un’edizione del libro, un sito di informazione o un programma per la qualità e non per la facilità.

Esiste un plurarismo informativo e editoriale di qualità che molto spesso, a causa del monopolio di grandi società, non riesce ad emergere. Se tutti noi lettori e ascoltatori imparassimo che, per fruire di certe informazioni e contenuti, è necessario prendersi del tempo, ricercare e documentarsi, saremmo i primi sostenitori della qualità dell’informazione e dell’editoria di qualità.

Elena Casagrande

Intervista rilasciataci da Piero Dorfles in occasione del Festivaletteratura di Mantova nel settembre 2016.

Feriti da parole: “Parole O_Stili” contro gli haters del web

Scelgo le parole con cura.

«Odio come strumento politico» (Laura Boldrini).

«Non nutrire il Troll. Non regalare visibilità. Più ‘noi’ che ‘io’. Humor e temi positivi» (Annamaria Testa).

«L’uso modesto delle parole diventa uso modesto delle idee» (Franco Cesati).

«La bugia può percorrere mezzo mondo prima che la verità si metta i pantaloni» (Winston Churchill).

«Prendersi cura dell’ostilità. Comunicare è farsi capire da chi non è d’accordo» (Bruno Mastroianni).

«Restituire alle parole il loro significato. Aristocrazia delle competenze» (Lorenza Alessandri).

«L’ostilità che il web riflette, non l’ha creata» (Massimiliano Gallo).

«Penso che nel giornalismo occorra fare ecologia dell’informazione» (Anna Masera, giornalista).

Sono alcune delle frasi che mi sono appuntata durante la due giorni dell’evento Parole O_Stili che si è tenuto a Trieste il 17 e 18 febbraio 2017. Parole che tracciano lo stile (scusate il gioco di parole) del progetto dal quale è nato l’evento. Ad un certo punto della scorsa estate, un gruppo di creativi, docenti e comunicatori ha ritenuto di interrogarsi e di riflettere sui moti d’odio, sugli eccessi di rabbia e di aggressività che si riversano sul web. In particolare sui social media.

«Se è fottutamente vero che i social network sono luoghi virtuali dove si incontrano persone reali, allora viene da domandarsi chi siamo e con chi vogliamo condividere questo luogo – così i promotori hanno spiegato il progetto -. Parole O_Stili ha l’ambizione di essere questo: l’occasione per ridefinire lo stile con cui stare in rete e magari diffondere il virus positivo dello “scelgo le parole con cura”, perché “le parole sono importanti”».

In quei due giorni ho avuto di interrogarmi sul peso delle parole e sulla responsabilità che comporta scrivere. Su un giornale o su un social network, poco cambia. L’odio corre sul filo che unisce la tastiera al video. Anche l’amore, certo, ma la forza degli haters batte ancora quella dei lovers. Le notizie di cronaca nera fanno più clamore e sono più lette delle altre. Altrimenti non saremo qui a discuterne. Purtroppo non esiste una bilancia per riconoscere universalmente e con certezza il peso delle parole, se non la nostra coscienza, la nostra morale, il nostro grado di umanità. Il linguaggio dei social manda un riflesso della società di oggi, fatta di chiusure, muri che si alzano, arroganza che batte la gentilezza. Chi ha aderito al Manifesto della Comunicazione non ostile presentato a Trieste non è certo uno stinco di santo, ma è consapevole che sia necessario un cambio di rotta per riportare la conversazione su binari meno disumani. Nelle settimane precedenti l’appuntamento di Trieste, è stata data al pubblico la possibilità di scegliere le definizioni per ciascuno dei dieci principi che compongono il Manifesto. Una sorta di decalogo delle buone maniere quando si scrive, in particolar modo sui social. Ecco il risultato:

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Niente “Peace & Love” bensì dieci dritte di buona educazione nella comunicazione scritta. Perché, scomodando i latini, Verba volant, scripta manent. «La ferita provocata da una parola non guarisce» è stato il motto dell’evento. Quando siamo davanti al video e sfioriamo la tastiera dovremmo ricordarci che non siamo dei pistoleri dallo sparo facile in un saloon del Far West. Anche se i colpi sparati con le parole possono uccidere come quelli di una pistola.

Elisa Giraud

Qui per approfondire il progetto Parole Ostili

[Immagine tratta da Google Immagini]

Lo and Behold: Internet raccontato da Werner Herzog

Il Guardian recentemente ha sostenuto che stiamo vivendo nell’età d’oro dei documentari. Vero o meno vero che sia, il catalogo Netflix dei documentari sta vivendo un periodo florido ed è consigliabile dargli un’occhiata tra una serie e l’altra. Da poco tempo è presente nella lista anche il nuovo documentario del regista tedesco Werner Herzog, artista eclettico e slegato dai generi come pochi, intitolato Lo and Behold e uscito nei cinema ad ottobre. Tratta di internet, dalla sua nascita alle prospettive future che il suo sviluppo potrebbe comportare. Diviso in dieci capitoli, dagli albori di internet (The early days) a The future. Ognuno di questi dieci blocchi racconta o un periodo storico della breve vita della rete o un tema connesso a questa.

Il film si serve esclusivamente di interviste, è ed volutamente statico ed essenziale nelle immagini. La forza della narrazione viene così dal parlato, dai dialoghi del suo autore, molto presente, con le personalità che decide di interrogare. Queste vanno da pionieri di internet come Leonard Kleinrock e Ted Nelson, a moderni tycoon come Elon Musk, e all’hacker Kevin Mitinick, ma ci sono anche persone comuni che hanno risentito in diversa misura della crescente ingerenza della tecnologia del web nelle loro vite. Herzog ci racconta le glorie e le miserie della rete nei suoi primi 50 anni di vita. Dalla sua nascita e dal primo messaggio (il Lo, di Log-in, del titolo) mandato da un laboratorio della UCLA (Università della California, Los Angeles) a Stanford molte cose sono cambiante e altrettante muteranno. Già dai primi minuti il documentario dà quasi il senso di ineluttabilità di internet, di un progresso esponenziale che non si può fermare. Portando sì moltissime utili innovazioni, le glorie, come il gioco che ha messo in rete la ricerca sulle molecole di Rna, ma creando anche situazioni nuove e difficili da interpretare per la gente comune. La quale ne sembra quasi investita, senza la possibilità materiale e legale di fare qualcosa. Come si capisce dalla storia raccontata dalla famiglia di Nikki, le cui foto da morta sono circolate indisturbate sul web, dato che la privacy via internet decade con la fine della vita di una persona.

Il documentario di Herzog in questo senso è molto più umano che didascalico. Ci mette di fronte chi internet ha contribuito a costruirlo, fornendo un cambiamento al corso dell’umanità, chi l’ha usato nel bene e chi invece l’ha subito nel male. Non racconta la Storia di Internet, ma racconta internet oggi. Offre quello che si può chiamare in modo abusato uno spaccato della nostra società rispetto alla tecnologia che sta permeando quest’era. Ne risulta un documento quasi antropologico, molto parziale perché comunque raccontato dal filtro dell’autore, che non fa niente per nascondersi, anzi. Ma prendere o lasciare. Ed è quello che forse del documentario resta di più, la capacità di Herzog, neofita sognante quanto scettico, di indagare le contraddizioni della rete. Con anche molta ironia, come nella scena dei monaci buddisti a capo chino sullo smartphone o come quando si offre come colonizzatore di Marte ad Elon Musk. E con alcune parti surreali o fantascientifiche; quando per esempio chiede/si chiede se internet sogna se stesso.

Il tutto contribuisce a creare un prodotto ibrido: non una narrazione entusiasta delle sorti magnifiche e progressive del nostro mondo interconnesso, e neanche una produzione segnata dal catastrofismo o dal luddismo che possono nascere in risposta al primo approccio. Herzog ha molti dubbi e a volte sembra parteggiare per le vittime di questo progresso, ma al contempo ne è estremamente affascinato. Ne capisce la portata rivoluzionaria e anzi vuole indagare fino a dove si possa spingere. Così alcune delle grandi domande vengono a galla, ma senza nessuna faziosità o alcuna pregiudiziale. E si finisce per restare immersi noi stessi nella sincera curiosità di Herzog che si chiede, in definitiva, dove ci porterà tutto questo: su Marte, o alla distruzione?

Per cui se cercate qualcosa di elettrizzante, o anche solo un documentario alla Alberto Angela, allora forse Lo and Behold non fa per voi. Ma se volete molti spunti non banali per interrogarvi sulla questione, allora meglio che lasciate stare quella serie tv e clicchiate play.

Tommaso Meo

[Immagine tratta da Google Immagini]