La liberazione del gesto: spunti dall’arte informale ad Asolo

In questi giorni al Museo Civico di Asolo è allestita una mostra dedicata all’arte informale, ovvero quel momento artistico della seconda metà del Novecento in cui gli artisti hanno manifestato in maniera sostanzialmente concorde una medesima necessità: l’emancipazione dalla forma. Passeggiare all’interno delle sale in cui è allestita la mostra Vedova/Shimamoto. Informale da Occidente a Oriente implica la conoscenza di diverse risposte ad un’esigenza unica – risposte fatte prevalentemente di colori, di segni, di materia che si fanno guardare.

Questa distanza dalla forma era già stata inseguita da altri artisti nelle decadi precedenti, ciascuno con i propri perché a cui rispondere e con le proprie soluzioni date. Basti pensare a Kandinskij e a Malevic, a Mondrian e Klee: attraverso il rigore o l’intuizione si tentava di accedere a una dimensione artistica nuova. A questi si aggiunge la riflessione futurista sul movimento, la valorizzazione del transitorio e del dinamico, sulla velocità. Facendo tesoro di questi illustri tentativi, è infine l’evento tragico a costituire il punto di svolta: la seconda guerra mondiale. Con essa l’artista intende rinascere e cancellare il passato con un colpo di spugna, eliminare quell’arte figurativa che (a volte in modo anche palese) aveva sostenuto quei sistemi sociopolitici che avevano portato alla sciagura della guerra, dell’olocausto, dell’atomica. Si trattava dunque di operare una vera e propria decostruzione del linguaggio artistico e dunque del suo millenario punto fermo: la forma.

Reagire alla forma significò per loro, stando all’analisi di Massimo Donà, «riappropriarsi di un gesto creativo opportunamente ricondotto alla sua condizione originaria […] alla potenza generatrice che limiti e vincoli presupposti non ha […] alla esplosività di un atto che potesse essere esperito in quanto tale, a prescindere dall’ipotetica perfezione del suo risultato» (M. Donà, Filosofia dell’arte)1.

informale ad asolo

Per Shozo Shimamoto significava disporre a terra delle tele vergini, immacolate, e scagliarci contro delle bottiglie piene di colore: un po’ come la bomba atomica gettata su Hiroshima e Nagasaki, solo che questa volta dalla distruzione nasce qualcosa di nuovo, di vitale, e il gesto non è più feroce ma libero, puro. Come per gli altri componenti del gruppo giapponese Gutai (letteralmente “concreto”), artisti dell’informale, l’atto creativo è protagonista e l’artista è il veicolo attraverso il quale l’arte si crea: egli fa parte di un tutt’uno, di un flusso d’energia che unisce tutto ciò che esiste, così come teorizzato dalle diverse correnti filosofiche che animano la cultura orientale. Su questo sfondo si afferma l’idea che l’opera non è il vero fine del fare artistico ma una sua componente, uno suo momento. Un’idea questa abbracciata dai giapponesi ma ispirata da venti d’oltreoceano, quelli che hanno sospinto in Asia la rivoluzione dell’action painting. Jackson Pollock, Willem de Kooning e Paul Jenkins sono ugualmente impegnati nella loro crociata contro la forma e orientati a una decisiva liberazione del gesto, ma nascono in un contesto americano e dunque profondamente individualista. Ecco che qui allora l’informale è definibile piuttosto come espressionismo astratto e nell’opera d’arte si riversano spesso frustrazioni, dolori, disperazione, contraddizioni, violenza, facendo emergere una dirompente soggettività. Similmente il veneziano Emilio Vedova, senza la casualità (per quanto apparente) del dripping ma ragionando intensamente sul segno lasciato dal gesto sulla tela, apre nella sua arte uno spazio di «partecipazione attiva» attraverso una gestualità «articolata, tentacolare [che diventa] corpo aggressivo, provocatore»2. Un esito che non sorprende se letto alla luce dell’impegno sociopolitico dell’artista e della sua partecipazione alla resistenza partigiana.

Ecco perché parlare di arte non significa allontanarsi troppo dal tracciato di una profonda indagine sull’uomo. Da quando l’artista si emancipa la committenza, è spesso l’individuo a emergere dall’arte e la sua ricerca artistica spesso coincide con una indagine umana esistenziale. Così, passeggiando all’interno della mostra, si potranno trovare affinità con Shimamoto e la sua volontà di farsi Tutto, con Vedova e la sua violenta espressione del sé, con Fontana e la sua continua ricerca di qualcosa oltre la superficie, con Burri e il suo pessimismo esistenziale, con Afro e il suo incessante processo psicologico di elaborazione emotiva. Artisti, individui che attraverso l’arte hanno cercato risposte a domande non così diverse dalle nostre oggi, colpiti se non sfigurati dagli orrori del passato e smaniosamente proiettati al nuovo. Proprio l’informale più di qualsiasi altro ha consentito loro di cercare risposte a queste domande perché, scrive Walter Benjamin, «è solo nella parzialità dell’astratto, ossia nella parte mancante dell’intero che, all’intero, è dato mostrarsi nella propria verità. È infatti solo nell’impossibilità dell’intero che l’immediatezza si dice veramente, dicendo per ciò stesso la sostanziale astrattezza del concreto»3.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. M. Donà, Filosofia dell’arte, Bompiani, Milano 2007, p. 321.
2. Ivi, p. 330.
3. Ivi, p. 329.

[Photo credit Giorgia Favero: in copertina, dettaglio di un’opera di Afro Basaldella esposta in mostra; nel testo, una sala del Museo civico di Asolo]

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Le stelle di Talete: l’oroscopo filosofico del vostro 2019!

È tristemente noto l’aneddoto riguardante Talete che, mentre camminava guardando le stelle, cadde in una fossa e fu deriso da una servetta. Noi de La chiave di Sophia abbiamo deciso di correre lo stesso il rischio di osservare il firmamento per scorgervi il futuro e poter così dare ai nostri lettori alcuni consigli utili, e rigorosamente filosofici. Nella speranza che questi possano aiutarvi a passare un anno saggio e felice.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-01-01ARIETE (21 marzo – 20 aprile): Per criticare il metodo induttivo Bertrand Russell racconta la storiella di un tacchino che cerca di capire quando gli viene portato da mangiare. Prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino osserva l‘arrivo del mangime per diversi giorni consecutivi e nota che, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, l’allevatore arriva sempre puntuale alle 9 del mattino. Da qui trae la ferma conclusione che le 9 del mattino siano l’orario in cui mangiare. Certezza che dura fino alla vigilia di Natale, giorno in cui alle 9 l’allevatore viene con ben altri propositi… Se non volete fare la stessa fine del tacchino, sarà meglio che anche voi, miei cari ma testardi arieti, iniziate a mettere in dubbio alcune delle vostre più incrollabili certezze.

 

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TORO (21 aprile – 20 maggio): L‘esteta secondo Kierkegaard è caratterizzato da una continua insoddisfazione, un passare sopra ai piaceri senza mai soffermarsi ad assaporarne nessuno. Al punto che se gli fosse data una bacchetta magica capace di poter esaudire ogni suo desiderio la userebbe solo per pulirsi la pipa. E se invece a voi, miei cari Tori, capitasse tra le mani questa potente bacchetta? Pensate a come farne un uso più produttivo dell’esteta kierkegaardiano, chissà che questo 2019 non vi regali un pizzico di magia.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-03GEMELLI (21 maggio – 20 giugno): Si sa che voi gemelli avete una grande capacità di adattamento e nelle occasioni pubbliche ve la cavate in scioltezza. Non trascurate però la vostra interiorità, un altro lato importante della vostra personalità, e riprendete la pratica dell’anachoresis eis heauton, il ritorno in voi stessi consigliato anche da Marco Aurelio. Concedetevi più spesso una serata in solitudine in cui ripensare alla giornata trascorsa e isolarvi dalle preoccupazioni quotidiane. Del resto come diceva l‘imperatore stoico «In nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare. Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati». Non è facile in una quotidianità piena di impegni, ma se se lo permetteva un imperatore potrete trovare anche voi il tempo, no?

 

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CANCRO (21 giugno – 22 luglio): «Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi».  Su noi malinconici cancerini questa frase di Walter Benjamin esercita un grande fascino. È ora però di smetterla di crogiolarci nel passato incompiuto e di comprendere questa frase in senso attivo e propositivo: ossia andare alla ricerca di quella felicità perduta nel passato per portarla oggi a compimento.

 

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LEONE (23 luglio – 23 agosto): «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo”?» Provate anche voi leoni a rispondere a questa difficile domanda posta da Nietzsche. Suppongo che qualche brivido vi attraverserebbe la schiena, perché è impossibile essere così fieri e convinti di ogni nostra azione passata da volerle ripetere tutte all‘infinito. Concentratevi dunque su ciò che vorreste cambiare per capire quali sono gli errori da non ripetere e gli atteggiamenti da abbandonare in questo nuovo anno.
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VERGINE (24 agosto – 22 settembre): Voi vergini siete famose per essere delle rimuginatrici tendenti al pessimismo, passate cioè fin troppo tempo a immaginare il peggio invece di godervi la vita. Difficile che nel 2019 possiate abbandonare questo vostro tratto caratteristico e trasformarvi in sfrenate edoniste, meglio cercare di volgere a vostro favore questo aspetto della vostra personalità. Gli stoici parlavano di praemeditatio malorum, ossia immaginare possibili mali futuri per neutralizzare la paura dell’ignoto che ci attende e al contempo renderci conto che anche ciò che temiamo di più può essere superato. Vi renderete così conto di essere forti e attrezzate anche agli scenari più bui e verrete sorprese quando le cose andranno meglio di quanto previsto.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-10BILANCIA (23 settembre – 22 ottobre): Parlo a voi, Bilance alla ricerca dell’amore, convinte che solo trovando la vostra dolce metà potrete sentirvi appagate e in equilibrio: smettetela subito! Il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio è uno dei passaggi più famosi, ma purtroppo più incompresi, della storia della filosofia. Questo ha avuto svariate conseguenze nefaste, come convincere voi Bilance che solo trovando l’anima gemella potrete raggiungere la felicità. Quel che il mito platonico significa è invece che ciascun uomo originario era composto da una parte maschile e una femminile (o talvolta due parti dello stesso genere). Ciò di cui dovete andare alla ricerca è quindi la metà nascosta dentro di voi: la serenità, care Bilance, sgorga dalla vostra capacità di sentirvi complete anche quando siete sole. Solo a questo punto potrete andare alla ricerca del vostro partner.

 

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SCORPIONE (23 ottobre – 22 novembre): Per scrivere Il Capitale Karl Marx passò anni a fare ricerche nella sala lettura della British Library di Londra e si racconta che dopo qualche tempo iniziò ad avvertire un forte dolore al sedere. Invece di fermarlo, questo gli diede nuova carica. Marx era infatti determinato a portare a termine un’opera capace di mettere in crisi il capitalismo e farla così pagare al sistema per ogni malefatta, compreso il suo dolore al fondoschiena! A voi scorpioni fumantini consiglio nel 2019 di prendere ispirazione da Marx, così da convogliare l’energia dei vostri momenti di irritazione in un’opera capace di cambiare il mondo (o anche qualcosa di meno grandioso, dai…).

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-05SAGITTARIO (23 novembre – 21 dicembre): Dal 1920 al 1926 Ludwig Wittgenstein si ritirò a fare il maestro elementare a Trattenbach, Puchberg e Otterthal, tre paesini sperduti tra le montagne austriache. Si dice che l‘esperienza, pur riservando momenti difficili e incomprensioni con i genitori dei bambini, aiutò Wittgenstein a formulare la teoria dei giochi linguistici. L‘esigenza di insegnare ai bambini un linguaggio reale lo portò infatti ad abbandonare l‘idea di una struttura logica uniforme del linguaggio per sostenere invece che il linguaggio sia costituito da un insieme di pratiche diverse comprensibili solo nel loro utilizzo pratico.  Voi Sagittari, amanti delle avventure, dovreste impegnarvi in un progetto estremo che aiuti a chiarirvi le idee e abbia un influsso positivo nel modo di guardare il mondo.

 

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CAPRICORNO (22 dicembre – 20 gennaio): «Di quale libertà godiamo se non quella di fantasticare?» si chiedeva Gaston Bachelard. La  rêverie, il sogno ad occhi aperti, è secondo il filosofo francese l’unico momento di completa libertà, in cui il soggetto, emancipatisi dai vincoli logici, può ridisegnare il mondo così da renderlo conforme ai suoi desideri. In questo 2019 Capricorni abbandonate più spesso la logica e cullatevi in fantasticherie dove sospendere quel principio di realtà così saldo in voi. Potreste rendervi conto che questi sogni ad occhi aperti non sono affatto infantili, ma da essi si impara quali sono le vostre aspirazioni più autentiche. 

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-06ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio): Anche voi Acquari siete alla ricerca dell’amore in questo 2019? Ottimo proposito, ma prima dovete imparare a concentrarvi un po’ meno su voi stessi. Vi potrebbe essere utile la lettura di L’elogio dell’amore di Alain Badiou, dove il filosofo francese insegna che l‘amore è la «scena del Due». Non quindi fusione romantica di anime e neppure prevalere delle proprie esigenze, bensì faticoso percorso di costruzione di una visione, finanche di un‘esperienza, condivisa: «il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono». Un insegnamento prezioso per capire che costruire un amore comporta anche fatica e rinunce.

 

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PESCI (20 febbraio – 20 marzo): «Wie man wird, was man ist», ossia «come si diventa ciò che si è». Così recita il sottotitolo di Ecce Homo di Nietzsche. Ma come si può diventare ciò che già siamo? Portando a compimento i talenti ancora a uno stato latente dentro di noi. Perciò il filosofo tedesco usa spesso la metafora della pianta, che cresce rigogliosa fino a fiorire, e quella di un vulcano ribollente e pronto ad eruttare. Progetto ambizioso? Di sicuro, ma è ora di abbandonare la timidezza e sbocciare, per far vedere a tutti quella „stella danzante“ nascosta dentro di voi.

 

Lorenzo Gineprini

 

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La notte dell’anima fra inquietudini e speranza

Conoscere l’uomo e dunque conoscere se stessi implica penetrare i meandri dell’anima, attraversare le salite impervie e le pendenti discese della propria intimità più profonda. Quante volte nel corso della nostra vita ci troviamo immersi nel flusso impetuoso di emozioni e pensieri che come una corrente carsica solca le pareti più profonde della nostra anima? Quante volte questo fluire di pensieri ed emozioni ci fa sprofondare nella notte oscura dell’anima? Un buio al quale, più o meno consapevolmente, ci conduciamo o siamo condotti da contingenze esterne. Da un lato, una condizione di spaesamento intellettuale, che può portarci a sperimentare il vuoto, il nulla dell’esistenza. Dall’altro, uno smarrimento emotivo, che può condurci ad una profonda sofferenza psicologica e spirituale, nei misteri oscuri della tristezza, dell’angoscia e della disperazione.

Accogliere queste pause dell’anima significa accettare la propria finitudine, la propria umana miseria, la propria infinita piccolezza. Convivere momentaneamente con l’inquietudine del pensiero e delle emozioni che spesso si avviluppano in una inspiegabile e angosciante morsa, tuttavia significa riconoscere che la nostra anima non è immobile, ma che essa è in divenire, che il dinamismo che la caratterizza non si è arrestato, ma sta attraversando le faticose paludi dell’esistenza. In questo senso è possibile riconoscere il travaglio dell’anima, la sofferenza psicologica e spirituale dentro la storia del singolo, espressione dell’umanità.

Conoscere se stessi richiede di prendere coscienza della notte oscura dell’anima, di quel vuoto spaesante e talora disturbante, che sembra difficile colmare. È questa la condizione esistenziale che hanno sperimentato i più grandi maestri del pensiero e dello spirito, che sarebbe onesto definire maestri di vita. Pensiamo alla profonda conoscenza dell’animo umano di Socrate, all’esercizio interiore di Seneca e Montaigne, alle inquietudini del cuore di Agostino d’Ippona, al travaglio interiore di Giovanni della Croce, allo strazio esistenziale di Pascal, Leopardi e Kierkegaard, al buio dell’anima conosciuto da Simone Weil e Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. Costoro hanno attraversato la notte oscura dell’anima, ne hanno sperimentato l’abisso e, più di qualsivoglia manuale di psicologia, possono testimoniare ancor oggi, attraverso i loro scritti sgorgati dalla sera della vita, il cammino tortuoso e sfavillante dell’anima alla ricerca di se stessa e del proprio senso.

Coloro i quali abbiano sperimentato le notti senza stelle dell’anima, si sono al contempo resi consapevoli che è proprio il vuoto, il nulla, la via verso il tutto, verso la pienezza. Solo la mancanza infatti induce l’incessante ricerca personale. Non a caso la parola desiderio (dal latino de-sidera) significa assenza delle stelle, brama d’infinito. L’uomo disposto a scendere nell’abisso della propria interiorità è l’uomo disponibile ad oscillare fra il nulla e il tutto, poiché consapevole che l’uno è foriero dell’altro. La contemplazione profonda non s’arresta dunque allo smarrimento interiore, ma riesce a scorgere, proprio nell’acme del travaglio, la luce della speranza che dà significato a pensieri ed emozioni trasfigurandoli positivamente. Cogliere anche solo i riflessi delle stelle nel torrente impetuoso dell’angoscia e della disperazione, implica la fiducia che le doglie del parto siano generatrici della vita e consente di intravedere che il dolore può essere fertile humus per ogni gesto creativo, per ogni atto d’amore e di vita. In questo senso, come non pensare all’inquietudine psicologica e spirituale di Vincent Van Gogh, dalla quale sono affiorate alcune fra le pennellate più intense, struggenti, appassionate e coinvolgenti della storia dell’arte. Come non ricordare la travagliata esistenza di Alda Merini, dalla cui sofferenza interiore sono sgorgate con slancio creativo poesie traboccanti di vita, amore e bellezza.

È questo l’approdo spirituale di ogni essere umano che vive secondo saggezza e che, avendo conosciuto il vuoto interiore e non smettendo di camminare per le praterie della propria anima, non si stacca dal mondo, ma ne prende attivamente parte per far sì che il suo viaggio interiore diventi generativo anche per tutto quanto è altro da lui. Per questo, è importante riconoscere il lavorio dell’anima anche quando calano le ombre della notte nella nostra esistenza, quando tutto sembra precipitare e perdersi in un abisso senza fondo. Quando ogni significato sembra svanire in un nichilismo distruttivo, è lì che possiamo cogliere espressioni veramente umane. L’inquietudine va dunque riconosciuta, accolta e rispettata in noi e in chi ci sta dinanzi come cifra dell’esistere, come punto di partenza ma non come approdo finale. Le trepidazioni dell’anima ci attraversano e ci trasformano positivamente se cogliamo in noi e negli altri barlumi di speranza che possono emergere anche nelle esistenze più disperate e angosciate. È importante spalancare le porte alla speranza che fa capolino proprio nelle notti oscure della vita. Essa è l’espressione della libertà ultima dello spirito, che conduce l’uomo a trascendere l’immediatezza del presente proiettandosi verso il futuro. Educhiamoci dunque ad ascoltare voci e silenzi dell’anima, a coglierne ombre e luci, a scorgere la speranza anche nelle lacrime, nel grido doloroso o talvolta strozzato dell’angoscia esistenziale che lacera l’interiorità. Educhiamoci a comprendere i moti profondi dell’anima che oscillano fra il dicibile e l’indicibile, fra il visibile e l’invisibile. Proprio accogliendo in noi e nell’altro questa tensione dialettica, fra ciò che può essere detto e l’inesprimibile, è possibile intravedere la speranza, che si riverbera luminosa come la luna sul mare della notte. Anche nelle tenebre dell’anima non cessiamo di coltivare in noi la speranza poiché, come affermava il filosofo tedesco Walter Benjamin: “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. La speranza è infatti garanzia di possibilità per lo spirito affinché si determini la libertà del singolo e la sua responsabilità, per il presente e per il futuro, nel tempo della vita e della storia.

Le inquietudini interiori sono la nudità dell’anima di fronte a noi stessi e all’altro, ma in questa fragilità di pensieri ed emozioni è custodita la vera forza umana. Invero, l’aver attraversato il travaglio della propria anima ci permette di avvicinare maggiormente il mondo interiore dell’altro, evitando di divenire monadi senza porte e finestre, immedesimandoci nella sua imperscrutabile essenza e nel suo vissuto con attenzione, sensibilità, rispetto e calore umano, aiutandolo a scorgere la speranza che, seppur leggera e impalpabile come la brezza estiva, è il motore che permette alla vita di non arrestarsi e di proseguire il proprio misterioso cammino.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo Credit: Hisu Lee via Unsplash.com]

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Perché fermarsi ad osservare il passato piuttosto che correre sempre avanti

Per dare un volto alla sua critica al progresso, Walter Benjamin sceglie Angelus Novus, un quadro di Paul Klee, in cui «è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo»1. Secondo il filosofo tedesco ciò che l’angelo sta fissando con occhi colmi di pietà è il passato, da cui è costretto ad allontanarsi da una violenta bufera che lo sospinge in avanti, verso il futuro: «ciò che chiamiamo il progresso è questa bufera»2.

angelus-novus-paul-klee_la-chiave-di-sophiaLa critica di Benjamin si muove su un piano storico: egli attacca il mito occidentale del progresso perché ci illude che la felicità sia sempre in avanti, alla fine della storia, e così ci convince a rimandare all’infinito la realizzazione dei nostri desideri. E questa bufera, oltre a strapparci dal presente, ci impedisce anche di osservare il passato. Se ci soffermassimo a guardarlo potremmo vedere che esso è pieno di detriti: sono gli scarti della storia, sacrificati sull’altare del mito del progresso; sono storie che ci parlano di felicità non realizzate, utopie di un mondo diverso che sono rimaste inascoltate. Interpretare la storia come una linea retta che procede inesorabile verso un punto d’arrivo finale ci porta a dimenticare ciò che è successo, il dolore che è stato causato, le idee che sono state abbandonate.

Le immagini di Benjamin si hanno solo un significato storico, ma si possono facilmente declinare anche sulla situazione individuale. Perché in fondo tutti noi siamo simili all’angelo di Paul Klee. Noi figli dell’Occidente ci siamo abituati fin da bambini a interpretare la vita come una corsa in avanti: la scuola ci deve preparare a studiare e ad essere performanti all’università, i corsi di lingua ci devono dare un’arma in più da usare per trovare un lavoro, lo stage deve essere un trampolino di lancio verso il posto fisso, il lavoro stesso deve avere una porta aperta verso una promozione… Una corsa che, in un’epoca in cui il futuro è sempre più povero di sicurezza, diventa ancora più frustrante.

Persi in questa forsennata corsa in avanti, quando ci guardiamo alle spalle anche noi vediamo gli inevitabili scarti della nostra vita: gli attimi che non abbiamo vissuto fino in fondo, le scelte che abbiamo sbagliato o che più semplicemente potevamo fare diversamente, le persone che non abbiamo apprezzato a sufficienza. Se ci fermassimo ad analizzare le nostre scelte passate forse potremmo capire meglio noi stessi, cogliere più a fondo i nostri desideri per provare a realizzarli. Ma la corsa in avanti non si può fermare. E forse guardarci alle spalle ci fa anche paura perché temiamo di realizzare che abbiamo sbagliato tutto, che a forza di correre sempre più veloce non abbiamo capito di aver sbagliato strada.  

Qual è dunque la soluzione? Dobbiamo abbandonarci alla bufera del progresso e sperare che essa ci trasporti in un qualche luogo felice? Benjamin fornisce la sua soluzione, o quantomeno la sua riflessione, attraverso un’altra immagine potete. Egli racconta che durante la Rivoluzione francese «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»3. Sparare agli orologi per fermare il continuum temporale, infrangere quella linea che procede solo in avanti per poter finalmente tornare indietro, passeggiare tra i detriti della (nostra) storia per guardarli da vicino, perché in fondo la «felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi»4.

 

Lorenzo Gineprini

 

NOTE:
1. W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 35
Idem
Ivi, p. 49
Ivi, p. 8

 

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Indagare l’immagine e l’oggetto: intervista a quattro artisti

Il mondo di oggi, che corre sulle ali di una comunicazione rapida ed immediata, fa un uso molto ampio dell’immagine ma senza mai avere il tempo di soffermarsi ad indagarne la complessità. Questo è invece proprio ciò che si propone la mostra From Object To Exposure inaugurata giusto ieri (sabato 18 febbraio 2017) dall’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte nella sempre suggestiva cornice di Ca’ dei Ricchi a Treviso.
L’esposizione è curata da Carlo Sala e presenta alcune opere di quattro giovani artisti italiani. I loro lavori giustappongono fotografia e scultura ed in tal modo intendono creare delle ambiguità tra l’oggetto reale e quella che invece è l’immagine dell’oggetto: le sculture vulcaniche di Paola Pasquaretta si accompagnano alle sculture di schiuma immortalate nella cornice dello scatto, il cielo stellato di Silvia Mariotti si fa da immateriale a scultoreo tramite la stampa a lambda, i detriti di Marco Maria Zanin sono esposti ma viene esposta anche la fotografia che li ritrae sotto una veste più attraente, mentre Mimì Enna ricostruisce un luogo nello spazio espositivo utilizzando sia immagini a grandezza naturale che veri e propri oggetti di arredamento.
Ma non voglio svelare oltre: vi suggerisco di leggere quest’intervista – che purtroppo è solo uno spiraglio dei mondi che questi artisti hanno dentro e che hanno condiviso con me – e di portare poi con voi le vostre domande e suggestioni al piano nobile di Ca’ dei Ricchi, dove troverete la mostra ad aspettarvi fino al 2 aprile 2017.

[A Marco Maria Zanin]
I tuoi lavori più recenti hanno al centro il detrito come simbolo di una demolizione incontrollata del passato in favore di una indiscriminata costruzione del nuovo, che però si trova spesso in tal modo ad essere privo di radici. In che modo quindi concepisci il detrito come un nuovo archetipo?

MMZ: «In questi ultimi lavori mi sono ispirato alla teoria dello storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, il quale seguendo Walter Benjamin critica la concezione lineare della storia e del tempo per come sono concepiti nella società occidentale, sostenendo invece la concezione della storia come una sovrapposizione di temporalità che possono costantemente riemergere l’una sull’altra, senza che ce ne sia una dominante. Il detrito e la rovina hanno dunque la caratteristica di un sintomo, perché rivelano in superficie una presenza di cose che accadono e vivono in profondità. Ho lavorato già in passato con la rovina, per esempio per la serie fotografica sulle case rurali abbandonate, proprio perché le consideravo una temporalità passata da riportare nel presente: il detrito è quindi il punto di appoggio per creare una breccia in quella che è la temporalità del mercato e del capitalismo. Mettendo il detrito al centro della nostra cosmologia provo a valorizzare i livelli di lettura che sono in esso: ci sono dentro altre dimensioni della realtà che non sono quelle della temporalità dominante che l’ha scartato e buttato via. Nell’opera Copernico qui esposta il detrito di San Paolo, megalopoli in continua espansione, è fisicamente presente, ma è in qualche modo presente anche nella fotografia, che rappresenta in realtà una mia ricostruzione in porcellana del detrito. Questo crea il corto circuito che dona dignità al detrito e consente all’osservatore di accedere ai successivi livelli di lettura».

[A Paola Pasquaretta]
In questa mostra hai portato delle sculture di sapone, fragilissime ai fattori ambientali e dunque destinate a deperire con il passare del tempo, mentre hai cristallizzato nelle fotografie sculture di schiuma che altrimenti sarebbero esistite per pochissimi secondi prima di deteriorarsi. Considerando la paura diffusa oggigiorno dello scorrere del tempo, c’è forse una bellezza in esso che tu hai voluto metterci davanti agli occhi?

PP: «Più che la bellezza direi che è fondamentale la consapevolezza del passaggio del tempo. Noi lo viviamo e lo subiamo in prima persona su di noi come esseri umani, però per me è interessante la trasformazione. Io sono affascinata dai fenomeni geologici ed i cambiamenti che avvengono nella geologia, che hanno tempi molto più dilatati ed incomprensibili per noi perché distanti dalla nostra vita, sono sì deperimenti ma l’ottica non è quella di un cambiare in modo negativo quanto piuttosto proprio di un modificarsi delle cose del tempo. Si tratta quindi di essere consapevoli del fatto che non sarà mai tutto uguale rispetto a come l’avevamo lasciato, quindi per esempio anche noi nei confronti della natura e dell’ambiente dovremmo utilizzare un certo tipo di sguardo e di attenzione, perché le cose cambiano anche a causa nostra. Anche il mezzo artistico stesso poi sottende una riflessione ed un gioco sul tempo, perché la fotografia cristallizza un momento, ma cosa sarebbe invece vederlo dal vero, vederlo succedere rapidamente? Allo stesso modo la scultura è solitamente una cosa finita, invece in questo caso cambia anche lei. Si tratta di cambiamenti e non implicano necessariamente la bellezza: non c’è giudizio».

[A Mimì Enna]
La tua riflessione invece riguarda soprattutto lo spazio, poiché con le tue Delocazioni intendi trasferire un luogo all’interno dello spazio espositivo. Quali sono dunque per te gli elementi che determinano lo spazio in quanto tale?

ME: «Per me le Delocazioni sono un trasportare un luogo all’interno di uno spazio, nel senso che per spazio intendo un luogo più neutro e che non necessariamente palesa un vissuto al suo interno, mentre invece un luogo sì, perché un luogo è abitato (o lo è stato) e s’impregna di tutte le tracce che lascia chi lo ha vissuto,   come anche gli oggetti che lo hanno arricchito. Quando mi inserisco nello spazio, le Delocazioni le intendo quindi come una porzione di un luogo, trasferendovi anche un intero modo di abitare, come è successo per Delocazione nello studio di uno psicologo: siccome il mio intento era esasperare la fragilità di quel luogo ho trasferito l’intera attività dello psicologo, nel senso che lei ha effettivamente esercitato la sua professione all’interno di quello spazio espositivo allestito. Lo spazio si è caricato del vissuto del luogo stesso».

[A Silvia Mariotti]
Nelle opere che hai scelto di esporre in questa mostra risulta predominante il tema del buio e della notte: emergono dunque spazi e realtà privi di solidi punti di riferimento e dunque anche potenzialmente destabilizzanti. C’è in tutto questo una riflessione esistenzialista o è principalmente estetica?

SM: «Questo in realtà è partito proprio come un lavoro sulla morfologia del territorio [quello delle foibe carsiche], dunque con una connotazione molto naturalistica: volevo assolutamente evitare di fare un lavoro documentaristico, quindi riportare sì il contesto storico ma giocando sulla doppia chiave del sublime, dove la tragicità sta nella storia stessa nascosta dietro quei luoghi, ma anche la loro semplice natura morfologica. L’esperienza è comunque sempre la chiave di lettura: la notte che si fa contenitore di una serie di esperienze, soprattutto la mia ma anche un’esperienza che voglio ridare a chi la riesce a percepire nel momento in cui sta di fronte all’opera.  Da lontano queste opere sembrano buchi neri: mi piace tantissimo questa cosa del disvelare pian piano la realtà, cosa che necessita anche un prendersi del tempo di fronte all’opera».

L’artista è una persona che si pone in modo del tutto speciale nei confronti di un oggetto d’arte, poiché è creatore egli stesso di oggetti d’arte. Quale rapporto si è creato tra voi e le vostre opere?

PP: «Essendo creatore dell’opera d’arte, anche quando non c’è più come un tempo una grande lavorazione manuale (per esempio nelle fotografie), sento le mie opere come figli, cioè come parte di me. Nel momento in cui sono finite – o meglio le considero finite – diventano invece l’opposto, totalmente estranee da me. Anche nel caso di questi vulcani, loro vivono di vita propria! Io le costruisco, impiego moltissimo tempo nel dettaglio per renderle più belle e più precise possibile, e poi il materiale col tempo cambia e si modifica per cui la forma che io ho dato al mio lavoro non è più la stessa. Nel momento in cui i miei lavori escono dallo studio ed arrivano in una mostra o vengono viste da altre persone diventano parte del mondo, della storia, non c’è più l’attaccamento iniziale. Questo anche perché nel processo di lavorazione è difficile considerare conclusa un’opera, per cui il momento dello stacco è fondamentale perché altrimenti il processo creativo continuerebbe all’infinito; allora da quel momento loro cominciano a vivere per conto loro».

ME: «Io ho iniziato a fotografare perché ero appassionata, però mettendomi nei panni di un fruitore esterno ho cercato sempre di rendere molto tangibile il mio volere, quello che volevo offrirgli. Questo è il motivo per cui ho voluto inserire gli oggetti [in dialogo con le fotografie], di modo che per il fruitore fosse percettibile l’intento, che non si verificasse quella distanza che spesso capita quando si parla di arte contemporanea. Nelle mie opere c’è sempre un riferirmi alle forme che sono familiari e comuni a tutti i tipi di fruitore, non solo agli addetti ai lavori in questo campo, proprio per avvicinarli tramite queste forme».

Nonostante gli intenti con cui molti movimenti e correnti sono nati, l’arte contemporanea oggi arriva con più fatica alla cosiddetta “gente comune”, soprattutto in un Paese come l’Italia ricco d’arte antica. Sapreste tessermi gli elogi o magari una semplice apologia dell’arte contemporanea?

SM: «Come ti dicevo anche prima, per me conta davvero molto il riportare un’esperienza, la relazione che si può instaurare nel momento esperienziale che io riporto e che comunque diventa soggettivo, ed un altro momento esperienziale ancora nella persona che si trova a fruire dell’opera. Io lavoro attraverso il mezzo fotografico, però non mi piace lavorare attraverso un tecnicismo – per esempio l’uso delle esposizioni – perché mi interessa proprio immergermi in una dimensione e riportarla al pubblico, che la può reinterpretare e creare una esperienza ancora nuova. L’arte contemporanea, per come la vedo io, è un regalare delle esperienze».

MMZ: «Guarda, io sono laureato proprio in Filosofia e poi in Relazioni Internazionali, per cui le mie radici non affondano proprio nel terreno dell’arte, e infatti questa apertura dell’arte contemporanea al grande pubblico per me è molto importante. Questo è anche il motivo per cui in molti miei lavori ci sono anche un’estetica ed una poetica che sono linguaggi universalmente comprensibili, diventando così una prima porta per accedere ai livelli di comprensione successivi che sono spesso racchiusi nell’arte contemporanea in genere. Io poi ho un progetto di residenza artistica [Humus, ndR] in cui proprio uno degli obiettivi è quello di mettere l’arte contemporanea al servizio di un territorio, come quello della bassa padovana, che sta ai margini; questo perché l’arte contemporanea è uno strumento di lettura di quello che accade nella realtà presente incorporando un linguaggio enormemente innovativo e fresco. Io faccio arte contemporanea perché spero che essa possa creare uno spazio all’interno della comunità umana».

Dietro ogni oggetto d’arte, soprattutto nel contemporaneo, si nasconde un profondo pensiero ed un ben preciso modo di concepire il mondo. Tutto questo, per noi, può chiamarsi filosofia. Voi che valore date alla filosofia?

SM: «La filosofia ti apre a mille interrogativi ed è come una ricerca a più livelli, come un gioco di specchi: una profondità che non ti porta mai ad una fine reale e anzi, ti apre continuamente a diverse interpretazioni e punti di vista».

ME: «Io associo spesso la filosofia al lavoro che facciamo noi perché il fine non ha un aspetto “utile” inteso in modo scientifico: è più soggettivo. Quindi per questo motivo sicuramente è molto aperta, come diceva Silvia, nel senso che non si conclude e non c’è un fine preciso. Questa secondo me è la grande forza di entrambi gli ambiti, la mutevolezza; e poi sono sicuramente entrambe necessarie alla vita».

PP: «Io penso alla filosofia in modo molto applicato, quindi non tanto a quei grandi e complessi ragionamenti che si pensa essere la filosofia quando la si studia; per me è un’analisi più approfondita del quotidiano – infatti ci sono filosofie applicate a qualsiasi cosa, anche all’economia o ad altre cose più pratiche. Pensando al mio lavoro per esempio ci sono in gioco delle riflessioni – come prima sul tempo, per dirne una – che io tratto in modo materiale ma che penso appartengano anche all’ambito filosofico».

MMZ: «Secondo me la filosofia è la possibilità di tagliare con un bisturi quella che è la realtà, imparando proprio a porsi delle buone domande e provando a sentire qual è la pulsazione del proprio tempo: aprirlo con un bisturi, guardarci dentro e raccontarlo».

Giorgia Favero

Per maggiori informazioni sulla mostra e sugli artisti vi rinviamo al sito di TRA.