Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

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Falsità cosciente e sincerità incosciente

La filosofia e l’indagine filosofica ad essa collegata si prefiggono di giungere, mediante dialogo, ragionamento e logica, ad aletheia, ovverosia verità. Si può pensare a ciò come un traguardo oltre le nostre umane capacità, magari neanche possibile poiché una verità epistemica ultima capace di racchiuderne ogni altra si potrebbe non dare a noi.

Per verità si richiama inevitabilmente al concetto di indubitabilità, ad una dimensione ontologicamente completa e quindi al massimo grado di perfezione, non mancando di nessun attributo. Se fosse manchevole di anche solo una particolarità verrebbe a mancare la pienezza del tutto, si toglierebbe il tutto perché non più fedele al suo nome e sarebbe un tutto senza davvero tutto, privo di qualcosa. Quel qualcosa è un dato non da poco che fa acquisire indeterminatezza e imprecisione all’analisi filosofica volta ad una conoscenza epistemica, dunque rigorosa e incontrovertibile. In tale logica probabilistica ci si può avvicinare con un variabile grado d’approssimazione ad una conclusione, ad una tesi convincente ma falsificabile in futuro. Popper diceva che una teoria scientifica per essere tale deve correre il rischio di essere falsificata. Anche la filosofia, a mio modesto parere, compie questo processo in una successione di tesi approssimative che indagano l’animo umano, inseguendo un senso rappresentato come una continua tendenza alla verità senza mai raggiungerla. Più accurata sarà l’argomentazione più la tesi sarà solida, o meglio tenderà alla solidità e convincerà nel tempo. La convinzione, la persuasione sono elementi che contraddistinguono il dialogo umano, lo scambio di opinioni e tesi tra interlocutori che vogliono giungere ad un risultato dialettico. Cercare la verità mediante il confronto, dire la verità potrebbe essere il mezzo eppure un dialogo non sempre è composto dalla veridicità delle proposizioni degli interlocutori. Il presupposto, spesso, è già permeato da falsità, da intenti diversi da quelli che potrebbero essere quelli della ricerca di cui stiamo parlando.

I sofisti tanto condannati da Socrate sono ancora tra noi e nel loro argomentare per ottenere ragione ad ogni costo sacrificano una base veritativa fondamentale per la ricerca stessa. Viviamo in una società in cui l’inganno è una base piacevole e favorevole per il singolo che vuole emergere, avere la meglio su altre soggettività – magari annientandole – per potersi garantire il proprio benessere. L’inganno è sui volti illusori che abitano il mondo, un fiume di maschere pirandelliane che inonda le strade, le scuole, i ristoranti, le banche, gli uffici. La menzogna parte dal singolo a beneficio del singolo ma contemporaneamente preclude il benessere dei molti. Il paradosso di siffatta società consiste nell’essere composta da individui che pensano a loro stessi e la decostruiscono togliendosi, togliendo la loro funzionalità sociale, annichilendo la forma complessiva che il castello di sabbia dovrebbe avere nel suo essere realizzato dagli svariati granellini.

Se ne conviene che forse Pirandello aveva ragione quando scriveva «imparerai a tue spese che nella vita incontrerai tante maschere e pochi volti»1. Ebbene è in un volto che si può insediare la verità, o almeno il presupposto sincero per favorire il dialogo. Far cadere la maschera svela il vero volto di un individuo, ne mostra gli occhi, lo sguardo che attua già una comunicazione, fa trasparire emozioni e pensieri. La falsità cosciente della maschera può essere combattuta e abolita anche solo da uno scambio di sguardi, un’azione di riconoscimento tra soggettività che non si ignorano, bensì si scoprono, si cercano senza cedere a piegarsi all’altro. L’occhio umano è sottovalutato, è uno specchio che riflette l’interiorità dell’osservatore e svela, anzi disvela l’aletheia personale, quasi inconsciamente. Proprio l’inconscio, come ampiamente studiato e teorizzato dalla psicoanalisi da Freud in poi, pare proporsi come unica via veritativa, come espressione ed esplosione irrazionale di ciò che durante il giorno è velato da un super-io capace di diffondere e incentivare la menzogna.

In tal senso il sogno, la dimensione onirica si fa maestra ed ente esplicito dell’interiorità celata, di quello sguardo che ogni tanto desidera porsi una maschera per la vergogna, per l’imbarazzo e il conformismo sociale o adeguamento alla massa. Solo in quel momento, in quella vita notturna troviamo conforto e libera espressione, riscoprendo l’inconsistenza della libertà che tanto professiamo d’avere nella vita diurna. Anche in questo caso siamo i coscienti fautori della menzogna che in tal dimensione diviene una bugia riguardo la libertà, un’autonegazione posta da noi stessi e con altrettanta ed ingenua maestria puntiamo l’indice accusatorio verso altro da noi, verso un ente che dovrà essere colpevole di un nostro e solo nostro atto…

…quello di avere mentito.

 

Alvise Gasparini

NOTE:
1. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi 2005

 

 

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Le “Istantanee” di Claudio Magris: raccolta di suggestioni

Uno scrittore è – soprattutto e prima di tutto – un osservatore. Nel suo ultimo libro Istantanee (La nave di Teseo, 2016), Claudio Magris osserva l’umanità che lo circonda e, al contempo, se stesso, offrendoci un potente collage fotografico-letterario che tocca le tematiche più svariate. Nell’incipit cita – per esplicare la scelta del titolo – il Grande dizionario della lingua italiana: un’istantanea viene «eseguita con un tempo di esposizione molto breve senza l’impiego di un sostegno». Magris presenta infatti circa una cinquantina di scatti “letterari”, brevi, intensi stralci delle esistenze altrui nonché della sua.

claudio_magris_istantanee_cover_la-chiave-di-sophiaGli scorci raccolti fanno parte di un arco temporale che va dal 1999 al 2016, ma a volte scavano ancora più in profondità, nella memoria storica collettiva: è il caso dell’istantanea “Il Muro durerà ancora anni…”, dove egli ricorda una giornata passata in Francia, ad un convegno dedicato all’Europa dell’Est, all’inizio del novembre 1989. In quel mentre una epocale protesta sta prendendo vita a Berlino Est, ma lì si discute pacatamente; è presente anche un regista berlinese. L’uomo è in fibrillazione, e prima di ripartire per unirsi alle contestazioni, afferma di essere convinto di una sola cosa: «il Muro durerà purtroppo ancora per anni». Eppure, solo un paio di giorni dopo esso «era ridotto a qualche rovina scalcinata, un’anticaglia del passato». Magris mette l’accento sulla nostra cecità conservatrice: «Scambiamo la facciata del reale per l’unica realtà possibile, definitiva». In questo prezioso scatto, attraverso parole memori di una rivoluzione passata, il proverbiale velo di Maya viene squarciato un po’.

Leggiamo anche d’amore e dei diversi modi di concepirlo: si sottolinea la differenza tra “stare con” e “andare con” qualcuno. Il primo è programmatico e pone obblighi a prescindere, il secondo è invece «un eros schietto e onesto» che non fa promesse, viene vissuto liberamente e per questo può dare e durare molto di più.

In “Scene mute di un matrimonio” troviamo invece una coppia in un’osteria carsolina: entrambi sono presi dai loro rispettivi smartphone. Le persone attorno, con voyeuristico godimento, constatano quanto due persone che hanno una relazione di lunga data possano non avere più nulla da dirsi. Magris però non è un censore, bensì un osservatore discreto, attento: nota che gli sguardi dei due ogni tanto si incrociano, in «un istante di tranquilla, misteriosa tenerezza», e che la donna tocca il braccio dell’uomo. Per quale motivo, si domanda lo scrittore, «stare insieme in silenzio dovrebbe essere sempre segno di aridità e lontananza?». Ci invita a rispettare quello che degli altri non sappiamo, poiché: «Amare significa anche comprendere e proteggere quella solitudine di cui l’altro ha bisogno», la necessità di «stare unicamente con i propri pensieri e con il loro randagio vagabondare e perdersi».

Sono presenti anche riflessioni sulla soggettività e sull’identità: in “Ritratto di gruppo con giurista addormentato” siamo trasportati in una soporifera riunione accademica, durante la quale un illustre giurista si addormenta. Magris vede «il suo viso allentarsi, come se le singole parti si lasciassero andare, ognuna per conto proprio, e quello non fosse più un viso, ma un insieme casuale di bocca, naso, guance, palpebre». Quel volto «sembra perdere la sua individualità, i suoi tratti irripetibili, e diventare il viso di ognuno, di tutti e di nessuno, generico e inespressivo». Il sonno ha momentaneamente derubato il giurista della sua identità, ha scolorito il suo io: il manto di Morfeo ci livella tutti. Eppure, dormire è necessario: Magris ci suggerisce fra le righe che abbiamo bisogno di sprofondare in un abisso di indistinzione, smettendo per un po’ i nostri panni, forse per sopportare meglio gli ostacoli della vita.

C’è anche il tema del riconoscimento – in questo caso grottesco: nell’ultima istantanea, “Selfie”, un uomo è inferocito perché un’auto si è parcheggiata abusivamente davanti al suo garage bloccandogli l’uscita. In essa c’è una bambina che attende la madre, animaletto impaurito di fronte alle irose invettive dell’uomo, che d’un tratto si vede riflesso nel finestrino: «non mi sono mai visto così brutto e sgradevole». È Magris stesso, quell’uomo, abbrutito dalla situazione.

Istantanee è un’opera antropologica: l’essere umano viene osservato e rappresentato, ma senza che l’autore si cristallizzi mai in alcuna delle sue interpretazioni. Magris legge segni – verbali, mimici – e azioni con una buona dose di autocritica e con una risata liberatoria – che si può sentire sfogliando le pagine – che dice semplicemente: “Siamo fatti così”. Leggiamo la sua mostra fotografica, a tratti tenera, a tratti selvaggia, che ci permette di respirare il mondo attraverso la sua persona, conducendoci ad una riflessione continua, destinata forse a rimanere incompiuta. Scopriamo di sentirci a volte comodi e al sicuro fra le pieghe dei suoi pensieri, ma poi incappiamo in verità scomode e imbarazzanti – come il fastidio provato quando in autostrada si crea una coda a causa di un ferito, o quando un conferenziere viene interrotto da qualcuno in preda a un malore forse mortale.

È un libro corale e al contempo diaristico, che ci sussurra l’incanto, la regalità, ma anche l’invidia, la bruttura, la pochezza dell’essere umano, e lo fa tramite la scrittura, che – come la definisce Magris – è un donarsi agli altri aprendo un dialogo, ed è in esso, «nell’uscire da se stessi e nell’incontrare l’altro, che consiste il senso dell’esistenza».

Francesca Plesnizer

Francesca Plesnizer, classe 1987. Sono nata e vivo a Gorizia, ho conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste nel 2015. In passato ho scritto per due quotidiani locali – “Il Piccolo” e “Il Messaggero Veneto di Gorizia” – e da alcuni mesi collaboro con due riviste: “Charta sporca”, periodico culturale per il quale scrivo recensioni cinematografiche e articoli su tematiche filosofiche, e “Friuli Sera”, per il quale analizzo e interpreto – per una rubrica dedicata – opere di Street Poetry e Street Art. La scrittura è il mio più grande amore (scrivo anche racconti, poesie, saggi), ma adoro anche passare il tempo a leggere e a guardare film. Un’altra mia passione è l’insegnamento, specie della filosofia.

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Un mondo di maschere: Pirandello e la contemporaneità

«Fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. […] Mattia Pascal: non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia».1

Così si conclude Il Fu Mattia Pascal (1904), celeberrimo romanzo di Luigi Pirandello, specchio di un’epoca di crisi morale, psicologica, esistenziale che mette in luce i paradossi umani, polemizza e ironizza sul sistema delle convenzioni sociali entro cui l’individuo, allora come oggi, è costretto a vivere. Mattia Pascal, così come Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila (1926), si perde nel triste e assurdo gioco delle maschere, assume identità diverse in situazioni diverse, vive vite parallele, per sperimentare sul finale l’amaro della sconfitta: l’impossibilità di comprendere fino in fondo e in maniera radicale se stesso e chi lo circonda.

A ben vedere i romanzi di Pirandello rispecchiano quello che accade all’uomo contemporaneo, spesso restio a mostrarsi per quello che è, difficilmente limpido e puro nelle relazioni con l’altro. Oggi come allora l’umanità si trova a vivere frequentemente un alto grado di menzogna, ad ideare stratagemmi macchinosi per ottenere risultati, avvalendosi di atteggiamenti fittizi che possono nascondere i veri interessi. L’onesto arriva per ultimo, è letto come ‘lo sconfitto’ dato che fatica di più per giungere a destinazione; meglio allora indossare una maschera messa a punto per la situazione che possa rendere il percorso più agevole e meno accidentato!

Così accade anche nelle relazioni interpersonali: Pirandello ci insegna che essere noi stessi implicherebbe accettare il peso del confronto, dibattere, affrontare conflitti e sperimentarne i danni, mettere in discussione le proprie idee con il pericolo che vengano demolite. Da ciò deriva che l’uomo trova più facile e meno rischioso occultare il proprio volto dietro una maschera, vivere ai margini della mediocrità, senza abbracciare apertamente alcuna posizione. Chi non si mostra non ha il pericolo di perdere, dato che appare inattaccabile su ogni fronte. Chi non si mette in gioco non può stabilire autentici legami con l’altro, ma allo stesso tempo è in grado di adagiarsi sulle piume della quiete quotidiana.

Da qui il dibattito che scaturisce dai romanzi dell’autore, la crisi che investe i personaggi, il loro essere dei ‘disadattati’, sempre alla ricerca di se stessi, imprigionati in forme e situazioni che non sentono peculiari a sé. A ben vedere la realtà attuale non sempre offre una visione più rosea: costretto e gettato in un mondo mutevole e dall’esponenziale velocità, l’uomo si trova a sottoporre sé e il prossimo a continue rivalutazioni, a mostrarsi diversamente nei vari contesti per poi chiedersi alla resa dei conti: “Chi sono io? Quale delle infinite figurazioni di me stesso? E gli altri come mi vedono?”

Si pensi anche soltanto alle circostanze che ogni persona si trova a vivere nella propria quotidianità: dall’esperienza lavorativa a quella con il/la partner alle relazioni con gli amici; è sempre sé stessa oppure si scompone, si ‘frantuma’ in un’individualità diversa, in una, cento, mille maschere difronte ad ognuno di loro? A ben vedere, la società stessa richiede questa ‘fossilizzazione’ in entità differenti che in parte sono responsabili della morte dell’individuo. In situazioni ufficiali è necessario ostentare la dovuta formalità, con i conoscenti si indossano maschere che possano risaltare i pregi caratteriali, con il/la partner ci si sforza di mostrare il lato migliore e via dicendo.

Viviamo in un mondo in cui le maschere ci appaiono quasi necessarie per fronteggiare situazioni, in una realtà in cui l’estrema labilità delle relazioni non permette facilmente di acquisire la conoscenza di chi ci sta attorno e di contro nemmeno di noi stessi. Ci illudiamo di comprendere appieno chi è di fronte a noi, fino a quando un evento casuale fa crollare immancabilmente il castello di carte che avevamo creato. Non ci resta così che raccogliere i cocci della casa, per iniziare una nuova costruzione.

Ma cosa rimane allora all’uomo se non può conoscersi e conoscere il mondo appieno? Quale via d’uscita gli si pone davanti in una realtà fatta di apparenze e finzioni?

L’ammissione e l’accettazione dei cambiamenti in sé e negli altri, la consapevolezza che «una realtà non ci fu data e non c’è […] una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile», come direbbe Pirandello, e il tentativo di essere, per quanto possibile, più sinceri con il proprio io e con chi è difronte a noi.

Insomma, è il momento di abbandonare le maschere e tentare di mostrare la nudità del proprio volto.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 2009, p. 233.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Il volto: Metafisica della biologia

Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.

Emmanuel Lévinas (1906-1995)

Nel mondo contemporaneo, contrassegnato da repentine e traumatiche trasformazioni socio-culturali, la spiritualità umana acquista i caratteri della non indispensabilità e la speranza capitola sotto i duri colpi d’un imbarbarimento antropologico, fatto di rassegnazione, indifferenza, egoismo. Così, agli albori di questo terzo millennio, il nichilismo, quale sintomo d’una civiltà crepuscolare dilaga, supportato peraltro da un umanesimo riduttivo: l’uomo affina le armi della violenza, si macchia di sangue innocente, banalizza coi suoi giochi genetici la bontà della vita e si sbarazza della propria socialità proponendo, come alternativa, la virtualità d’un sito telematico. Ed è proprio di fronte alla perdita di valori, alla dittatura della non autenticità dell’essere che si eleva altisonante la voce del grande E. Levinas il quale pone all’apice della sua indagine filosofico-metafisica, il rapporto tra l’idea passiva e originaria dell’Altro (e che ognuno di noi possiede) e il “Volto” .

Inteso come Tu e non come non-io, sappiamo che il primo volto a manifestarsi è quello materno: il primo volto, quindi, è DONNA! Si tratta d’una incontaminata intuizione senso percettiva, d’una epifania di volti e sguardi in un continuo e incondizionato innamoramento. Essendo un legame poetico, un Dialogare perenne che inizia sin dal concepimento, quel messianico apparire del volto materno sarà come un big bang d’ amore. Al contempo, sempre in virtù di quel volto, il soggetto sperimenterà, ben presto, anche sentimenti opposti all’ amore. La relazione diadica lentamente va perdendo le prerogative iniziali della esclusività e il volto materno che ora funge da ponte, consente al bambino di intuire la presenza di altri volti, di vivere nuove alterità dell’altro in ambito familiare così come successivamente in quello scolastico e poi socio lavorativo. Il volto materno ci sconvolge perché ci responsabilizza, ci egemonizza, ci rapisce, ci sensibilizza, ci attira e ci spinge a fuoriuscire da forme aberranti di anarchia e solipsismo: ci sprona a relazionarci e interfacciarci col prossimo, a confrontarci col mondo.

È innegabile che le conquiste storiche raggiunte dalla donna come il diritto all’istruzione, al voto, al lavoro extra domestico, nonché alla parità dei ruoli, hanno portato la stessa prima di tutto alla consapevolezza di essere persona, ma la maternità, il prendersi cura dell’altro non è uno dei tanti diritti, bensì il DIRITTO che, oggi, sembra sia solo una appagante eventualità. Il rapporto madre-figlio, impostato sulla fragilità di legami, sulla frettolosità, sulla schizofrenia e labilità di quelli, sulla disattenzione materna è un rapporto frustrante perché carente di affetto, di umanità, di altruismo. Una tale carestia d’amore non può non generare che una società malata, sorda alle esigenze altrui, insensibile alla sofferenza, al dolore, alla indigenza, alla morte: l’altro più non ci sconvolgerà!

Giulia Di Nola

Scrittrice.

Laurea in Filosofia presso Federico II Napoli

Scritti pubblicati
– E…divennero sorelle (romanzo), da cui è stata ricavata una sceneggiatura e una recensione a cura del prof. universitario Marco Ivaldo;
– Capillari di metafisica I (poesie);
– Capillari di metafisica II (poesie);
– Saggio su Rosmini (saggistica).

Lavori in fase di ultimazione
– Femmina, femminicidio, femminilità (saggistica);
– Marika (romanzo);
– Aforismi I.

Hobby
Contemplare il mare!

[Immagini tratte da Google Immagini]

Il doppio volto del tradimento

 

Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla. Erri de Luca

Lucia – Sabato mattina

Paolo era uscito a fare delle commissioni e lei si era ritrovata sola in casa. Stava rifacendo il letto quando si era accorta che Paolo si era dimenticato il cellulare. Non l’aveva mai fatto in tanti anni, ma quella mattina trovandosi quel telefono tra le mani, così familiare ma al tempo stesso così sconosciuto, non era riuscita a resistere. Per la verità era stata attraversata da un brivido, da un misto di eccitazione e paura. Cosa avrebbe potuto scoprire? E così aveva aperto i messaggi di Paolo. Read more