La libertà a misura d’uomo

Siamo liberi?

Questa è forse la domanda più profonda che attraversa la nostra esistenza. Quante volte ci sentiamo sopraffatti da ciò che accade, totalmente al di fuori del nostro controllo? Gli eventi che opprimono la nostra esistenza sono dei più disparati – perdite, sfortune, mancate occasioni – ma il peso che esercitano sulla nostra vita è sempre lo stesso: ci sentiamo impotenti, disarmati, a volte addirittura sbeffeggiati dal destino. A questo proposito, due sono le riflessioni che vorrei affrontare.

La prima, più “leggera”, riguarda una sottile ironia che pervade questo modo di interpretare le cose: com’è possibile che se accade qualcosa di negativo incolpiamo il destino mentre se quello che ci accade è positivo tendiamo a compiacerci in quanto fautori dell’accaduto? C’è una effettiva dissonanza. A questo proposito, utile potrebbe essere l’insegnamento pratico di Epitteto: «il sapiente deve essere in grado di distinguere con sicurezza ciò che è estraneo, e che dunque non appartiene al soggetto […], da ciò che invece è davvero sotto il suo controllo» (S. Maso, La filosofia stoica e la questione del “libero arbitrio”, 2014).
L’antico filosofo ci invita a prestare attenzione alla nostra vita e a quello che ci circonda, sforzandoci di comprendere cosa effettivamente dipenda dal nostro volere e cosa invece sia al di fuori della nostra portata. Questo potrebbe essere un utile, anche se preliminare, consiglio per rompere lo schema a cui prima accennavamo.

È possibile, in un certo senso, intravedere in questa proposta di Epitteto la più antica interpretazione della realtà di Protagora: «l’uomo è misura di tutte le cose». Cosa significa quest’ultimo contributo? Molte sono state le letture che se ne sono date, individuando almeno tre livelli di riflessione. Per quel che qui ci interessa, possiamo riconoscere un invito a prestare attenzione a ciò che ci circonda, costituendoci sì come sua “misura” (termine di paragone) ma non per questo necessariamente come suo “metro” (termine di giudizio). La differenza è sottile ma permette di riaprire la strada a quell’idea di interdipendenza e di riconoscimento a cui avevamo accennato in precedenza. Insomma, l’invito è a non adagiarci su facili interpretazioni della nostra vita e di ciò che ci circonda, che portano inevitabilmente a un’esistenza piena di delusioni e illusioni perché non tengono conto della realtà delle cose.

La seconda riflessione, riguarda ciò che, invece, realmente accade e non l’interpretazione che ne diamo. A questo proposito, molto utile potrebbe essere l’esempio proposto da Wittgenstein: «Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui e dica: “Guardate, io posso far andare Wittgenstein esattamente dove voglio”. Ha un meccanismo che regola con una manovella e voi vedete […] che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: “Eri trascinato qua e là? Eri libero?” Io dico: “Certo che ero libero”» (L. Wittgenstein, Lezioni sulla libertà del volere, 2006).

L’idea che emerge da questo passo è molto interessante; in un certo senso permetterebbe di conciliare determinismo e libero arbitrio, ma apre un grande problema. Infatti, visto che stiamo riflettendo su come stia effettivamente la realtà, e non su come venga interpretata, quale versione la rappresenta veramente: la stanza di Wittgenstein, la stanza sotto di lui o la visione delle due stanze nel loro insieme? L’esempio immediatamente successivo che ci propone il filosofo austriaco esprime magistralmente la questione: «Un uomo che può far scegliere a qualcuno la carta che egli voleva che scegliesse. […] Ognuno direbbe che quel qualcuno ha scelto liberamente, e tuttavia ognuno direbbe anche che quell’uomo gli ha fatto scegliere ciò che egli voleva scegliesse» (Ivi).

La questione non può certo essere risolta in questo breve articolo; l’importante è capire come la comprensione di ciò che da noi dipende può essere una via utile nello svolgimento della nostra esistenza e della nostra quotidianità. Ci permette di prendere le distanze da quanto può esserci d’ostacolo per la volontà e per le nostre decisioni; se poi questo rappresenti effettivamente la libertà, per ora, non ci è dato sapere.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit Mohamed Nohassi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

 

Perché l’uomo compie il male in modo volontario?

Per secoli grandi filosofi e teologi si sono confrontati sulla vecchia domanda: Unde malum? Il loro fu un tentativo di giustificare Dio, l’Uno, l’Assoluto, trasformando le azioni umane malvagie in una colpa da ricercarsi nel peccato originale o nella degradazione di bene, come disquisiva già Plotino1, ma partecipante di un disegno divino da compiersi alla fine dei tempi, o in costruzione, mai comprensibile. Il male fu definito come inesistente. Non fecero di meglio i filosofi metafisici che, pur arrivando a vette razionali straordinarie, non seppero precisare la provenienza del male  relegandolo ad altrettanta degradazione finendo per assecondare la visione teologica.

Questo costante e incisivo supporto al male, attraverso la sua negazione, ha permesso la giustificazione costante di ogni atto malvagio fino a quello che viene definito da Hannah Arendt, il peggiore di tutti, cioè quell’atto che tentò di cancellare il concetto di uomo: il genocido nazista2. La seconda guerra mondiale, per questo,  fu una cesoia decisiva. La responsabilità umana e la libertà delle proprie scelte, che diventano azioni, doveva essere affrontata in modo diretto. Tutto ciò fu spinto dai lavori della Arendt che, attraverso il suo libro La banalità del male, Eichmann a Geruslamme, rivitalizzò l’interesse per un tema sempre scansato dai più. Seppur in modo involontario, la teorica politica tedesca obbligò a riprendere in mano il vecchio tema del male radicale di Kant e a svilupparlo in maniera moderna, fino a definirlo banale dando priorità alla questione della libertà e responsabilità3, ma anche a quello dell’incomprensibile, che si palesò  già nelle opere di Dostoevskij4 e di Schelling5.

Le varie diatribe e studi sorti  dagli anni Sessanta in poi, hanno portato ad una visione più ampia  del male. Attraverso gli esperimenti di Zimbardo e Milgram, messi a confronto con la filosofia e le teorie antiche – moderne, il male pare essere diviso in due grosse macro categorie: quella degli “istigatori” e quella dei “perpetratori” ed entrambi sono definiti come assolutamente liberi nell’attuazione delle proprie scelte. Gli “istigatori” sembrano essere  quelle persone che hanno una innata predisposizione al male. Non solo a compierlo in modo subdolo, ma attraendo individui e indirizzandoli a piacimento. Questo tipo di persone possono essere leader carismatici, ma possono essere anche persone comuni che agiscono all’interno del proprio ambito sociale, lavorativo e familiare6. Questi istigatori, però, non avrebbero forza, se ad agire non ci fossero altri, in maggior numero: i “perpetratori”. Essi, secondo Hannah Arendt e Joseph Conrad, non sono nient’altro che uomini comuni legati in modo viscerale alla vita come sua depauperazione; non hanno empatia, parlano per clichés, sono sprovvisti di pensiero critico e subordinati al sistema dominante, che sono felici di servire. Necessitano di fare parte di un gruppo, di essere riconosciuti e accettati a tutti i costi. Sono disposti a far qualunque cosa per perseguire il proprio interesse, vivono nell’autoinganno e non sanno stare con se stessi. La comunità umana è piena di questo tipo di personalità, mentre il numero degli istigatori pare essere inferiore. Ciò rappresenta una speranza ma anche una condanna. Il “maggior numero” può esser guidato verso una maggior coscienza di sé ma, allo stesso modo, essi sono più attratti da quell’oscuro che, all’interno del sistema umano, sembra essere una necessità. I soggetti che tendono alla scelta del bene sono pochi e spesso ostracizzati.  Il male, perciò, può essere controllato? Secondo Arendt, si: seguendo il modello socratico attraverso uno sviluppo della propria conoscenza del sé, cioè dialogo con se stessi, del pensiero critico, che apre le porte ad una capacità di giudizio di tipo kantiano tale da rendere il soggetto empatico, di mentalità aperta e disinteressato (cioè non ricercatore del proprio inter-esse ma di armonia) da ritrovare nel senso comune, cruciale per costruire una società libera e in equilibrio all’interno di una “necessità” che spinge inevitabilmente verso l’opposto7.

La risposta alla domanda dovrebbe essere, quindi: l’uomo compie il male perché sembra necessitato a prendere una decisione. La libertà pare essere il suo dramma e la sua opportunità. La sua scelta (responsabilità) è decisiva all’interno della mondanità. In quanto tale, il male morale potrebbe essere controllato ma egli è, allo stesso modo, costantemente in pericolo in quanto parte di un contesto “oscuro” imperscrutabile. Se per secoli, dunque, la risposta alla domanda sembrava essere “Necessità”, l’ago della bilancia, nel XX secolo, si è spostato su “Libertà”. Si potrà mai avere una risposta definitiva? Necessità O libertà oppure Libertà E Necessità?

 

Luca Cerardi

Luca Cerardi, 42 anni, docente di Lettere presso la scuola superiore di I grado di Grumolo delle Abbadesse (Vi). Laureato magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università degli studi di Padova (2019) e in Storia, vecchio ordinamento, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (2004) con master in Educazione audiovisiva e multimediale presso l’Università degli Studi di Padova (2006). Maestro di batteria dal 2012 e musicista dal 1995 con esperienza nazionale – internazionale in produzione discografica, management, organizzazione eventi e concerti. Giornalista per il magazine statunitense Steel Notes Magazine in cui si occupa di far conoscere i musicisti sotto un profilo umano più che tecnico – musicale. Amante della natura, ha costruito un giardino “filosofico” su un vecchio campo coltivato intensivamente, bonificandolo. Attualmente impegnato nella specializzazione in consulenza filosofica e in filosofia per bambini (philosophy for children).

 

NOTE:
1. Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Bompiani, Milano, 2010, p. 151.
2. Cfr. H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, Introduzione di Alberto Martinelli, Edizioni di comunità, Milano, 1996, p. 628.
3. Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della ragione, a cura di Vincenzo Cicero e Massimo Roncoroni, Rusconi libri, Milano, 1996, p. 19.
4. Cfr. S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi  male e potere, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 142.
5. Cfr. H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1927-1975 e altre testimonianze, Einaudi, Torino, 2007, p. 16.
6. Cfr. M. Ravenna, Quando individui ordinari compioni atti “mostruosi”. Relazioni tra banalità del male, obbedienza all’autorità, realizzazione della Shoah, Rivista internazionale di filosofia e psicologia, Vol. 2 (2011), n. 2, pp. 96-113, p. 100.
7. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987.

[Photo credit Arisa Chattasa su unsplash.com]

La carrellologia nelle crisi umanitarie: uno sguardo alle intuizioni morali

David Edmonds nel suo libro del 2014 Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore propone al lettore un quesito che è diventato un classico della filosofia morale: «Immaginate di trovarvi accanto a un binario quando vedete un treno in corsa che sfreccia verso di voi: chiaramente i suoi freni non hanno funzionato. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari. Se non fate niente, i cinque saranno travolti e uccisi. Per fortuna siete accanto a uno scambio: azionando quello scambio manderete il treno fuori controllo su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova appena davanti a voi. Purtroppo, c’è un intoppo: sulla linea secondaria notate che c’è una persona legata sui binari; cambiare la direzione del treno si tradurrà inevitabilmente nell’uccisione di questa persona. Che cosa fate?»1.

La maggioranza delle persone sceglie di deviare il carrello. Se anche voi rientrate nella maggioranza avete appena salvato cinque persone, ma un uomo è morto; come vi sentite? Ma non fermiamoci qui, andiamo avanti. Un’altra filosofa, Judith Jarvin Thomson, ha proposto di immaginare una scena analoga:

«Siete su un cavalcavia che si affaccia sul binario. Vedete il carrello ferroviario che sfreccia fuori controllo e, poco più avanti, cinque persone legate sui binari. È possibile salvare questi cinque? Ancora una volta, il filosofo morale ha abilmente organizzato le cose in modo che sia possibile. C’è un uomo molto grasso che sta guardando il treno appoggiato alla ringhiera. Se lo spingeste oltre la balaustra, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari. È così obeso che la sua massa farebbe fermare bruscamente il carrello. Purtroppo, in questo modo verrebbe ucciso l’uomo grasso. Ma si potrebbero salvare gli altri cinque. Si dovrebbe dare una spinta all’uomo grasso?»2.

La maggioranza delle persone cui è stato posto il quesito ha risposto che non avrebbe spinto l’uomo. Eppure, da un punto di vista meramente utilitaristico si tratta sempre di scegliere il male minore: una persona muore per salvarne cinque. Qual è la differenza tra il primo e il secondo interrogativo? Perché nel primo caso azionare una leva è percepita come moralmente giusto, mentre nel secondo caso spingere l’uomo grasso viene percepita come un’azione immorale? Se il risultato non cambia, sicuramente dobbiamo analizzare il procedimento o la percezione che abbiamo del procedimento stesso. Ci sono due elementi su cui è opportuno ragionare: la volontà e la necessità.

Nel primo caso non abbiamo alcuna volontà di uccidere l’uomo sul binario; la sua morte non è necessaria al nostro obiettivo: salvare le cinque vite. Infatti azionando lo scambio, possiamo ancora sperare in un miracolo, per esempio che l’uomo si sleghi dalle funi e si salvi. In questo caso saremmo riusciti addirittura a raggiungere il nostro obiettivo senza vittime.

Nel secondo interrogativo l’intenzione di salvare le cinque persone passa necessariamente dalla morte di un altro e dalla volontà di ucciderlo. In altre parole, per poter salvare le cinque persone dobbiamo voler uccidere l’uomo grasso, ed è proprio l’intenzione che spinge la maggior parte delle persone a percepire l’azione moralmente sbagliata. L’uomo, che viene intenzionalmente spinto, è considerato un mezzo per un fine, privato quindi della sua autodeterminazione. Tale intenzione non si percepisce nel primo quesito, in cui “l’effetto nocivo o collaterale” è previsto, ma non inteso. È possibile sostenere, inoltre, che spingendolo dal ponte l’uomo grasso continui a rotolare e ad uscire dai binari. In questa ipotesi non abbiamo salvato alcuna vita, ma sicuramente abbiamo ucciso un uomo. Ecco descritta la ragione per cui la maggioranza delle persone agirebbe in maniera diversa nei due casi.

Il filosofo John Mikhail aggiunge un ulteriore tassello affermando che le intuizioni morali più profonde, come quelle che impediscono di uccidere un innocente, sono universali ed innate. Ma se non parlassimo di una persona “innocente”? Che cosa accadrebbe se la carrellologia non fosse più solo un esempio teorico e lontano, ma fosse possibile inglobarla nella nostra quotidianità?

In ambito umanitario esistono dei principi fondamentali che ogni operatore deve rispettare: imparzialità, indipendenza, umanità, neutralità. Un errore molto comune è confondere i principi di imparzialità e neutralità. Per una maggior chiarezza possiamo definire il principio di imparzialità come principio di non discriminazione nell’aiuto umanitario: l’operatore umanitario deve necessariamente aiutare tutti indistintamente, senza discriminazioni. Il principio di neutralità sottintende che l’intervento umanitario non deve favorire nessuna fazione di un conflitto armato. Dai primi anni novanta, l’intervento umanitario ha dovuto far fronte a un problema estremamente complesso: nelle nuove crisi umanitarie i civili infatti si sono trasformati nei principali “oggetti” di
attacchi e abusi. In questo teatro dell’orrore, esistono gruppi particolarmente vulnerabili come donne e bambini, i quali necessitano di particolari forme di protezione. Compito degli operatori è per esempio evitare che si ripetano stupri e violenze sulle categorie vulnerabili sopra citate.

Immaginiamo ora di essere l’operatore umanitario partito in missione. Siamo in un piccolo villaggio sperduto nel paese X e siamo a capo dell’unità di protezione che deve tutelare le donne e le bambine da violenze e abusi. Conosciamo perfettamente i principi fondamentali dell’aiuto umanitario e li applichiamo alla lettera. Questo significa anche non schierarsi con nessuna delle fazioni in campo, nonostante siamo consapevoli che gli abusi e le violenze provengono da una delle due parti. Per far cessare le violenze decidiamo di andare “a cena con il nemico” e mettere in atto tutto quello che abbiamo imparato sull’arte della negoziazione. Il capo “Y” nota le nostre scarpe e ci domanda se sono un “made in Italy”, rispondiamo di sì. Lui ci confida che ha sempre desiderato un paio di scarpe proprio come quelle. Lo abbiamo in pugno, abbiamo la nostra merce di scambio: scarpe in cambio della cessazione di stupri e violenze. Il capo “Y” accetta e noi rientriamo in tenda con delle utilissime scarpe di plastica.
Passa qualche giorno e avviene un altro caso di stupro. Chiamando il capo “Y” però rischieremmo di istigarlo ad uccidere lo stupratore per dar prova del proprio potere. In questo caso però non ci sarebbero più violenze.
Che cosa fate?

Questi appena descritti potrebbero sembrare dei semplici passatempi, eppure riguardano ciò che è giusto e sbagliato, e come dovremmo di conseguenza comportarci. Gli esperimenti mentali sono progettati per testare le nostre intuizioni morali e per esser in qualche modo d’aiuto nel mondo reale. Bene e male, infatti, sono talvolta così intrecciati da rendere quasi impossibile decidere quale scelta sia moralmente la più etica. E che cosa c’è forse di più importante di capire tutto questo?

 

Jessica Genova

 

NOTE:
1, 2 D. Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014

 

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Pazienti e libero arbitrio nella pratica medica

La società civile e il senso comune ritengono che l’oncologia possa essere la specialità medica che per eccellenza trarrebbe giovamento dall’applicazione della recente legge 219/22 del dicembre 2017 riguardante le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Dove le DAT si applicherebbero al meglio se non nel paziente oncologico terminale, colui che soffre per definizione, colui che è portatore di una patologia mortale, quindi non guaribile, colui che momentaneamente sopravvive senza speranza?

In realtà tutte le questioni che la legge afferma e promuove quali il dovere di informare e il diritto di informazione del paziente relativamente al suo di salute, il consenso informato, la comunicazione e la relazione tra medico e paziente, nonché la pianificazione condivisa delle cure, sono tutti temi estremamente familiari in oncologia. È dunque chiaro che i contenuti del testo di legge sulle DAT giungono né inaspettati, né estranei, ma semplicemente come una serie di normative d’azione più formali rispetto a quanto già si svolge nella pratica clinica quotidiana da molti decenni.

Mi soffermerei piuttosto sul comma 5 dell’art.1 che, relativamente al diritto del paziente di approvare o rifiutare accertamenti diagnostici e trattamenti sanitari proposti, afferma: “ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”.

C’è un accordo decennale a proposito dell’utilizzo razionale di nutrizione ed idratazione artificiale in oncologia: ovvero, che l’applicazione di tali mezzi è il risultato finale di una ponderata valutazione pluridisciplinare basata, ove possibile, sul consenso informato del paziente.

Sicuramente, l’impiego della nutrizione artificiale non pone interrogativi dopo un intervento operatorio per neoplasia, indipendentemente dal distretto corporeo interessato, se utilizzata al fine di evitare la perdita di peso e l’insorgenza di complicanze da malnutrizione. Valgono le stesse considerazioni in caso di terapie che pregiudichino la capacità ad alimentarsi, come terapie radianti o chemioterapie che interessano la cavità orale o l’apparato gastroenterico ed esofageo e che richiedono la somministrazione di sostanze nutritive per via enterale1 o parenterale2.

Nessuno, nei casi sopra riportati, può contestare la necessità vitale di tali trattamenti.

Anche nei casi di diagnosi terminale, nonostante la speranza di vita si abbrevi e non essendo esattamente quantificabile l’aspettativa della durata della stessa, nessun medico acconsentirebbe alla sospensione del trattamento nutrizionale il cui epilogo, la morte, non costituirebbe diretta conseguenza della patologia neoplastica, ma piuttosto  della denutrizione.

Differente è il caso di quadri clinici conclamati di morte imminente: in questo frangente la nutrizione artificiale è spesso sospesa, per volontà del malato, non avendo più alcuna efficacia, non potendo prolungare la sopravvivenza ed essendo, in alcuni casi, addirittura controproducente e perciò, sproporzionata.

Diverso è il problema dell’idratazione artificiale. L’organismo di un paziente in fine vita richiede non più di 1 litro di soluzione fisiologica o glucosata nell’arco di 24 ore per evitare una morte atroce da disidratazione che provoca febbre, vomito, scompenso idro elettrolitico, ecc. Considerato che non si prolunga la vita di un paziente idratandolo, né si può ipotizzare una forma di accanimento terapeutico, ritengo che, in oncologia, nella maggior parte dei casi, non si possa considerare l’idratazione artificiale un trattamento sanitario in quanto è la stessa condizione clinica a richiedere un’adeguata idratazione per alleviare le sofferenze del paziente. La somministrazione di liquidi implica l’infusione di due flebo al giorno tramite vena periferica, ciò non richiede molto tempo e, inoltre, non sono richieste manovre “impegnative” come nel caso della nutrizione artificiale.

È chiaro che nutrizione e/o idratazione sono necessarie, nella misura in cui e fino a quando dimostrano di raggiungere la loro finalità propria; andranno, invece, sospese se hanno cessato di avere la loro efficacia e se diventano sproporzionate per la condizione del paziente, come avviene nei casi in cui il soggetto non risulta più essere in grado di assimilare il nutrimento o i liquidi che gli vengono somministrati.

È altrettanto ovvio che, se nella legge 219, nutrizione ed idratazione artificiale vengono entrambe indicate come interventi medici, quindi passibili di interruzione, il paziente tenderà ad interpretarli come “azioni” altamente invasive in quanto non sempre sufficientemente informato riguardo alla reale applicazione di tali misure, alla invasività di cura e ai relativi svantaggi nel rifiutarla. In questo specifico caso, eseguire le DAT potrebbe paradossalmente portare ad agire contro ciò che il paziente avrebbe realmente voluto, ovvero, non soffrire. Il rischio è che, in caso di necessità, le disposizioni anticipate del paziente potrebbero risultare non più rappresentative delle reali volontà del paziente e delle reali necessità mediche volte al suo bene; senza contare che verrebbe sottovalutato un fattore cruciale in campo medico, cioè il rapporto medico-paziente, nel giungere a formulare la soluzione migliore volta al bene del soggetto, soluzione implicante il coinvolgimento dei professionisti e, ove possibile, cioè in presenza di capacità decisionale, del paziente stesso.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE
1. Quest’atto clinico consiste nella somministrazione di sostanze nutrienti tramite l’apparato gastroenterico attraverso sondino naso-gastrico o stomia.
2. Il secondo atto medico, invece, consiste nella somministrazione di sostanze nutrienti per via venosa.

[Credit Matheus Ferrero su Unsplash.com]

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Alla ricerca della perfezione: il doppio volto della corsa al successo

Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.

Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.

E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.

E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.

Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.

Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).

Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

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Lo spirito del potere

Da diversi mesi, ormai, il mondo osserva con interesse l’instabile situazione politica sudcoreana, in seguito all’impeachment che lo scorso dicembre ha costretto la Presidente eletta Park Geun-hye a lasciare la carica. Lo scandalo che ha portato alla fine il governo di quella che era considerata la donna più potente d’Oriente ha avuto origine nei rapporti poco chiari tra Park e la sua amica e consigliera, Choi Soon-sil, che avrebbe manovrato la Presidente fin dagli inizi della sua carriera politica, nel 2011. Ciò che è interessante nella serie di indagini che hanno coinvolto le due donne è che Choi non è affatto una figura politica, né una personalità economicamente rilevante, quanto piuttosto una guida spirituale. Choi Soon-sil era entrata nel palazzo presidenziale assieme al padre, l’ex monaco buddista Choi Tae-min, nel 1974, portando conforto al presidente-dittatore Park Chung-hee dopo l’omicidio della moglie Yuk Young-soo; Tae-min era il capo e fondatore della Chiesa della Vita Eterna (una setta che sposa elementi del buddismo Seon e del cattolicesimo) e a quanto pare ottenne di diventare il mentore e l’amico personale del Presidente dopo aver rivelato proprio a Geun-hye di aver ricevuto la visita in sogno della madre defunta, che gli aveva chiesto di vegliare su di lei. Da quel momento, i Park entrarono nella Chiesa della Vita Eterna, e i Choi ebbero modo di manipolare prima il padre, poi la figlia, ottenendo favori di varia natura e dirigendo da dietro le quinte la democrazia sudcoreana.

Il rapporto tra Park e Choi non è certo una novità, storicamente parlando: è accaduto spesso che, anche dietro a leader considerati forti e autoritari, si nascondesse più o meno in piena luce un’eminenza grigia che si appellava a un diverso tipo di autorità. Grazie soprattutto alla versione romanzata di Alexandre Dumas, per esempio, la figura del Cardinale Armand-Jean du Plessis de Richelieu è diventata in questo senso esemplare, un capo-ministro in grado di manipolare con estrema facilità la volontà della reggente Maria de’ Medici e perfino di re Luigi XIII. Ugualmente leggendaria è diventata la figura del monaco ortodosso Grigorij Efimovič Rasputin, mistico che pare controllasse le decisioni dello zar Nicola II Romanov. Si potrebbe tornare fino ai tempi della Roma imperiale, e ancora prima fino ai poemi omerici, e sempre si troverebbero sacerdoti, maghi, indovini e profeti a consigliare e dirigere i passi di re e imperatori: quale autorità potrebbe far presa sugli uomini e sulle donne più potenti del mondo, se non una che si proclama radicalmente altra rispetto al mondo stesso? Chi se non i (sedicenti) portavoce di un potere altro, divino, potrebbero ottenere l’obbedienza di chi, in terra, non riconosce poteri a sé pari?

Il rischio che un rapporto di questo tipo comporta è autoevidente, specie nel caso di uno Stato democratico come la Corea del Sud, in cui il capo legittimamente eletto dalla popolazione ha delegato la sovranità affidatale. Non si tratta, qui, di ribadire il principio della laicità dello Stato: il problema risiede nell’intimo della coscienza personale dei governanti, non in una struttura teocratica che non è mai stata riproposta. Nemmeno si tratta, però, di voler scindere in maniera schizofrenica la spiritualità o religiosità di un governante dal suo agire politico, processo peraltro impossibile nella misura in cui un credo interiorizzato è parte imprescindibile della persona. Il punto critico emerge piuttosto quando un potere teoricamente religioso si confonde con uno fin troppo umano, strumentalizzando fede e timore di figure che, carica o non carica, rimangono umane, e che si rivelano più che malleabili facendo pressione sui punti giusti.

Come chiosava Woody Allen, «Non ho niente contro Dio, sono i suoi fanclub che mi preoccupano»: le religioni, per loro stessa natura, hanno l’innata potenzialità di liberare le coscienze attingendo ad una logica altra da quella mondana, ma di contro possiedono un enorme potere di asservimento delle stesse facendo uso della medesima logica, capace di piegare anche la volontà dei cosiddetti signori del mondo. D’altronde, non esiste potere di cui non se ne possa trovare uno superiore, ed è sulla corretta distribuzione e applicazione di questi che è necessario vigilare.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

Siamo noi il cambiamento

Oggi è un giorno come tanti altri, un giorno in cui, tramite vari canali di comunicazione, mi è giunta all’orecchio una notizia orribile e disarmante. Ormai al mattino ci svegliamo e subito ci raggiunge l’eco di un orrore perpetratosi in qualche parte del mondo prima ancora di sederci al tavolo della colazione.
Molte volte mi sono detta “Non parlare di queste cose”: ho l’impressione che se ne dica sempre troppo e che invece ci raccogliamo in rispettoso silenzio sempre meno. Però queste notizie ci smuovono completamente dentro, fanno nascere in noi ogni volta un turbinio di pensieri e ne soffriamo – ci toccano da vicino. L’indifferenza totale è impossibile, anche la loro stessa quantità, in realtà, ci cambia. E quindi io sento il bisogno di lanciare un qualche messaggio positivo in mezzo alla catastrofe.

Cominciamo dalla terribile e terribilmente ovvia verità: ogni giorno, in ogni minuto, da qualche parte del mondo è in corso una guerra, c’è un attacco terroristico, delle persone vengono orribilmente sfruttate, dei bambini vengono privati della loro innocenza, tonnellate di cibo oggetti e risorse vengono sprecate e distrutte, degli animali soffrono e soccombono sotto l’implacabile, sconvolgente noncuranza dell’uomo, il Portatore di Distruzione che non guarda in faccia nessuno.
Di fronte a tutto ciò, qualcuno si rifugia nella fede: Dio ci salverà, Allah provvederà, tutto ha una spiegazione nel disegno provvidenziale; altri invece la fede la perdono, e guardano piuttosto ai potenti non-divini, i grandi magnati, i politici, i quali però rispondono con infinite parole, infinitamente retoriche – e non è nemmeno colpa loro, perché come si può dire qualcosa di veramente utile oltre all’ovvio? L’unica risposta sarebbe l’azione: dovrebbero fare qualcosa, mettersi d’accordo, decidere che ormai davvero basta, che davvero siamo al limite, che davvero ci stiamo autodistruggendo. Sanno di dover fare ma non riescono a fare molto. E noi raccogliamo la nostra frustrazione. A chi rivolgersi, a questo punto?

Risposta: a noi stessi. Basta cercare scuse, basta guardare altrove. Pensiamo di non fare la differenza? Eppure il mondo è fatto di persone, perciò se ciascuno facesse quello che può, secondo la sua coscienza ed i suoi mezzi…
È un po’ come andare a votare: non è che siccome il mio voto è solo uno devo smettere di usarlo, pensando che non serva a niente. Certo, questa faccenda è un po’ più complicata rispetto al porre una croce su di un foglio: decidere di agire in prima persona per migliorare prima di tutto noi stessi e di conseguenza anche il mondo, comporta un po’ di fatica. Innanzitutto, bisogna informarsi: qui e oggi abbiamo a disposizione ogni mezzo di comunicazione e di informazione possibile e immaginabile, tutte le notizie e verità del mondo nel palmo di una mano, dunque è nostro dovere (se non altro morale) non sprecare questa gigantesca opportunità. In seconda battuta, si analizza la situazione: “Che cosa posso fare io nel mio piccolo?”. Trovata la prima risposta la si mette in pratica, sopportando una fatica mentale (devo farlo, devo pensare che è davvero utile farlo) e anche fisica (cambiare le proprie abitudini e stili di vita). Poi arriva la soddisfazione: non ho aspettato che il cambiamento piombasse dal cielo (o dalla politica), sono io il cambiamento. Sto facendo qualcosa di buono. E sei così contento che ricominci il processo: “Cos’altro posso fare io nel mio piccolo?”.

«Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo»¹.

Non so se ciascuno di noi nasca con uno scopo preciso (è una delle cose che continuo a chiedermi), però penso che veniamo tutti al mondo per perseguire lo stesso obiettivo morale. «Ama il tuo prossimo come te stesso»², «Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso»³, «Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini»: ce lo insegnano le religioni, nonché le istituzioni, ma anche il buonsenso. Solo che dobbiamo ampliare il raggio d’azione agli sconosciuti, agli animali, al mondo naturale, al pianeta intero. Ogni giorno. Nel nostro piccolo. Perché in questo caso, anche non fare è un’azione (non evitare lo spreco, non difendere un’offesa, voltarsi dall’altra parte…), e comporta delle conseguenze.

«If you want to make the world a better place, take a look at yourself and make that change».

Tutti noi – possiamo – fare – qualcosa. Mettiamocelo in testa. Basta scuse. Basta frustrazione. Seminiamo positività, comprensione, coraggio; seminiamo amore. Insegniamoci l’un l’altro a non odiarci, che è sbagliato farci del male vicendevolmente. Non smettiamo di aggrapparci alla nostra umanità. Non cerchiamo risposte altrove – le risposte sono dentro di noi.

«Ero intelligente e volevo cambiare il mondo, ora sono saggio e voglio cambiare me stesso».

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. Frase attribuita al Mahatma Gandhi;
2. Cristianesimo ed ebraismo (Levitico 19,18);
3. Islam (Hadith 13);
4. Confucianesimo (Dialoghi 15,23). Potrebbe sorprendervi sapere quanti testi sacri e di quante religioni riportano lo stesso concetto con parole più o meno diverse;
5. Michael Jackson – Man in the mirror : sì, se ne parla anche nella musica pop!;
6. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama.

 

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Per Anna Marchesini, attrice dalla vita “obesa di vita”

Nel 2014, rivolgendosi a Fabio Fazio che le chiese quale fosse per lei il senso della vita (una domanda facile, vero?!), Anna Marchesini, ormai straziata dall’artrite reumatoide, con una parlata strascicata ma dignitosa, quella di una grande persona e di una grande donna – una di quelle creature che non si arrende, e non vuole farlo, che vive di futuro come chiunque altro vivrebbe di ossigeno – rispose con una di quelle frasi che, se ascoltate, non può che cambiare il tuo modo di vedere le cose: «Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa di vita che mi interessa pure la morte, che di essa è il finale e non è detto».
Da allora, questo divenne il mio motto – e mi risultava anche facile applicarlo, essendo io un ciccione. Ecco Anna, sono stato autoironico, sei fiera di me? Lo so che, da dietro quel sipario di broccato che chiamano “morte”, mi hai sentito.

Fu da quell’intervista che chi scrive capì che Anna Marchesini andava conosciuta appieno, e non solo come (pur eccezionale) attrice di varietà, di teatro, di televisione.
Comprai il suo romanzo Il terrazzino dei gerani timidi e lo lessi d’un fiato. Lo feci per curiosità, perché mi torturava una domanda, riguardo questa donna, che allora ricordavo “solo” per quei video che trovi su YouTube vestita da sessuologa o da Lollobrigida, da cartomante o da cameriera-secca-dei-signori-Montagnè: come può Anna, trovare la serenità nella sofferenza fisica? Dopo una vita che le ha dato così tanto, la malattia non l’ha forse infiacchita per sempre?
La risposta mi venne leggendo questa frase: «Respiravo profondamente l’aria della sera, si trascinava dietro un tiepido profumo di gerani, mi assalì il timore che tutto sarebbe rimasto identico e immutabile come quei vasi indifferenti, nulla era certo – mi dissi – ero stanca, quel difficile esercizio di equilibrio, in bilico tra l’infanzia, il presente e il futuro remoto, aveva incredibilmente moltiplicato il tempo […]. Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo».

Sono le piccole cose. Ecco il segreto per la felicità. Non lamentarsi per quello che non si ha più – o di quello che non s’avrà mai – ma gioire di quello che c’è. Fu la prima lezione di esistenzialismo della mia vita. E non m’era giunta da un grande filosofo, ma da una divertente attrice e delicata scrittrice.
La protagonista del romanzo non è Anna Marchesini, ma è una donna che le somiglia molto, indubbiamente, e per sua stessa ammissione; la grande attrice sublimava sé stessa, ultimo glorioso esercizio di metodo Stanislavskji, nelle vite degli altri; perché questo era per lei essere-Anna-Marchesini: vivere la propria vita per (e con) la vita-degli-altri. Ed ecco perché Anna non poteva che essere un’attrice, la più grande, la migliore.

Parlando con i ragazzi del Liceo Artistico “Ripetta” di Roma, nel 2008, la Marchesini disse: «Mi ero iscritta a psicologia, ma divenni attrice perché andando all’università in treno, vedevo sempre una finestrella accesa. Madonna, avevo una curiosità e mandavo una sfoglia di me a guardare. Mi immaginavo una donna che faceva il caffè, una camera da letto dopo che due persone avevano finito di stringersi, una ragazza che rincasava tardi, oppure uno che era in bagno a spingere e basta! Io mi immaginavo cose meravigliose. Avevo una passione per la vita-degli-altri, e io ci volevo guardare dentro. Avevo un voyeurismo ginecologico per la vita degli altri».
È così che nascono le grandi passioni, da grandi curiosità personali… che poi, nel progredire della storia dell’Universo, non sono che piccole meraviglie quotidiane. La giovane orvietana Anna, che ogni mattina si recava a La Sapienza per seguire le lezioni di Psicometria, si meravigliò di una lampadina accesa, e divenne Anna Marchesini – non è ironico? Lo è, e lei, anche raccontandolo, faceva di tutto perché apparisse tale.

Indipendentemente dal valore filosofico delle sue parole (valore di cui la Marchesini era perfettamente consapevole, e in cui si crogiolava: «D’altronde da bambina volevo essere il Messia donna!» disse nel 2008), Anna aveva una missione, e una volontà precisa: essere ironica – sempre e comunque. Sentiva come suo il compito di strappare un sorriso, un momento di gioia, di esilio dall’abisso dell’anima quotidiana: e per far ciò, lo aveva capito ben prima del grande successo con Il Trio, occorre necessariamente prendere in giro l’ordinario, ridicolizzare (con eleganza e intelligenza, però) la grande mitologia, portare all’estremo i tabù di una società, quella italiana in particolare.
Ed ecco spiegati la sublimità della parodia dei Promessi Sposi e personaggi immortali come la Signorina Carlo, inviata – con tanto di cofana à là Moira Orfei – da Quelli che il calcio… a commentare improbabilmente partite di pallone, di cui a malapena capiva regole; o come la sessuologa Merope Generosa che, al momento di pronunciare le parole più “sconce” tipiche della sua professione, si imborghesisce a tal punto da sostituire il termine “pene” con “malloppetto ciccioso e pendulo” e “ragazze che hanno rapporti pre-matrimoniali” con “zozzone sporcaccione”; o come la cartomante Amalia che – con esagerato accento romanaccio – invitava i suoi ascoltatori a telefonare e a “non porcastinare inoltre il tempo perché le linee ponno ésse ingorgate, ma la regia mi trasloca un buzzicone ch’ha acchiappato aa linea”.

Maestra di meta-teatro, Anna era fieramente donna, e donne erano i suoi personaggi, sempre e comunque: donne che si rapportano all’uomo, ridendo e prendendolo (e prendendosi) in giro, perché la vita è esattamente questo: autoironia, umiltà, abbandono. Maschera di sé stessa – perché la sua vera lei erano appunto le maschere – ci lascia cosa, se non un sorriso, una risata, forse una piccola lacrimuccia?

Ma forse no!, lei non vorrebbe che piangessimo: la morte è la fine, ma non è detto… perché, anche nel dolore e nella malattia, da vera maestra di esistenzialismo teatrale, Anna sapeva perfettamente che la situazione è grave, ma non è seria.
Solo che se in politica questa frase è un’accusa esplicita ad atteggiamenti vergognosi, nella vita di tutti giorni, sul palco della nostra storia particolare, e dietro le quinte dell’esistenza, è un valore, e si chiama leggerezza.

David Casagrande

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La questione del suffragio universale

In questo ultimo periodo caratterizzato da referendum e votazioni mi sono sorpreso da ciò che questi fatti producevano al mio interno: la messa in discussione della valenza del suffragio universale.
Inizialmente pensavo fosse causato dal mio orrore mentre ascoltavo i resoconti delle affluenze così basse, delle interviste e degli autorevoli pareri di esperti. Successivamente, però, mi sono reso conto che – analizzato logicamente dal punto di vista teorico – forse una discussione attorno alla sua necessità debba essere intavolata, almeno per essere sicuri di accettarlo consapevolmente e non per comune abitudine.

Il suffragio universale è uno dei capisaldi della democrazia, introdotto in Europa nel corso dell’Ottocento – nonostante per un periodo di tempo brevissimo sia stato adottato anche nella Francia post-rivoluzionaria. Esso esprime gli ideali democratici in maniera massima: ognuno vale uno, cioè ognuno è uguale, ogni opinione ha lo stesso peso, ogni desiderio ha la stessa importanza di ogni altro. Non ci sono restrizioni: non c’è ceto, etnia, censo, genere, orientamento sessuale che tenga.
Concentriamo il nostro sguardo sull’unica discriminante: è necessario aver raggiunto la maggiore età per poter esercitare questo diritto. Quindi: per votare, è necessario avere un’età minima.
Ora mi chiedo: e perché non si è presa in considerazione anche un’età massima?
La questione è molto meno banale di quello che sembri, basti osservare cosa è successo nel Regno Unito recentemente: la parte “vecchia” della popolazione ha imposto il Leave alla nuova generazione, che aveva votato compatta per il Remain (75%). Non sto esprimendo giudizi su chi avesse ragione e chi torto, sto semplicemente analizzando un fatto: chi non vedrà i risultati del proprio voto ha imposto il futuro a chi, invece, subirà le conseguenze (positive o negative che siano) di questa votazione.
Stesso discorso per quanto riguarda, invece, due non-restrizioni: il grado di istruzione e il bagaglio di informazioni. Queste due variabili, infatti, condizionano pesantemente le nostre scelte. Guardando sempre alla “Brexit” per comodità temporale, la differenza tra zone rurali e grandi città come Londra è molto evidente.
Con ciò, di nuovo, non sto dicendo che una delle due sia nella ragione ed una nel torto, sto analizzando semplicemente dei dati.

Il problema non è di facile soluzione, perché ha a che fare con il Tutto, nel suo rapporto con la molteplicità.
Inoltre, il suffragio universale, mi sembra che presupponga se stesso nella sua accettazione: una ipotetica votazione che abbia come oggetto l’adozione o meno del suffragio universale come metodo di voto deve per forza di cose essere già aperta a tutti, e quindi esso si troverebbe già ad essere il metodo di votazione.

Un inizio di soluzione può essere intravisto alla base del sistema.
La questione non è la diversità di opinione a cui il suffragio universale dà voce; anzi: essa è ciò che permette l’essere di uno stato democratico. L’anello debole della catena è la volontà subdola di creare o trasformare opinioni negli/degli altri, di allarmare, di terrorizzare, di deviare l’attenzione verso capri espiatori. Ciò fa gravemente ammalare la validità del suffragio universale, che diventa una semplice facciata: un nome per coprire gli intenti demagoghi e populisti e un mezzo per realizzarli.
La cura, a mio modo di vedere, prevede una medicina politica ed un per la società.
La prima dà voce a come sia necessario avere la capacità critica di scegliere quali decisioni debbano essere espresse dal collettivo e quali dalla rappresentanza di esso. Con il nostro voto, infatti, scegliamo i nostri rappresentati, ai quali diamo la nostra fiducia. E una delle sezioni all’interno di questa fiducia è la speranza che scelgano per noi il meglio, a fronte di una capacità politica che noi non possediamo. Questo determina delle scelte in cui la nostra voce di popolo non conta, perché è appunto espressa dalla rappresentanza, o comunque essa tenta di raggiungere i migliori risultati possibili per la collettività.
La seconda ha a che vedere con la buona informazione.
Può essere un’utopia, in un mondo dominato dalla Rete; in cui ogni notizia è praticamente istantanea e priva di filtri, in cui si fa a gara a chi pubblica per primo una notizia, in cui i dettagli non contano: ciò che importa è il titolo (al quale una buona parte del pubblico si ferma senza andare oltre).
Ma una buona informazione è uno – se non il – presupposto perché il suffragio universale sia espressione del popolo e non di opinioni condizionate.

Massimiliano Mattiuzzo

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Un illogico teorema di incompletezza

In quel corridoio ho lasciato una parte di me. È rimasta lì, come anche sui banchi, su ogni foglio utilizzato, ogni riga scritta, ogni parola proferita. Sono tante piccole parti che in un qualche modo mi mancano, sento la loro mancanza, come se fossero tasselli del puzzle che sono e che lentamente sto smontando. Sento di avere delle parti mancanti, sento questo desiderio nostalgico, il pensiero di qualcosa che avevo, che ho vissuto e altro non è che un ricordo, una cosa passata che non può tornare. Nel ricordare un’esperienza come il mio esame di maturità quando è ormai già passato un anno, mi sento quasi come un Ulisse consapevole di non poter tornare alla sua Itaca, consapevole di aver intrapreso un viaggio più grande di lui. Ricordo con piacere o con un’invariata emozione ogni singolo dettaglio, ogni singola scena di quel che è stato, di quel che ho fatto in quel periodo per me così importante, mentre per altri era un semplice ed indifferente mese di giugno, proprio come dovrebbe esserlo per me ora.

Il tempo passa e non lo possiamo fermare, non possiamo relegare noi stessi in una forma congeniale, in un corpo e in una mente che non siano soggetti al divenire, non me ne voglia Parmenide. Siamo costretti ad andare avanti anche se alla nostra testa piace voltarsi per guardare ciò che ormai è stato, ritrovandoci spesso in un’impossibilità, in un paradosso da noi creato per andare contro al mondo, alla vita stessa piena di regole preimpostate. Siamo noi questo paradosso, ci rinchiudiamo da soli in una gabbia di ricordi, pensando di poterci trattenere nel passato, nelle emozioni che già abbiamo vissuto e che sempre vorremo aver presenti. È un desiderio capace di distruggerci, di lacerarci nel nostro io più profondo, un io che non si sente a suo agio e vaga nella temporalità, che tende al passato apparentemente paradisiaco. Ciò che già abbiamo superato, che ormai ci è lontano e si presenta come ricordo è una figura subdola, non poi così veritiera come può apparirci. Nel nostro criticare la realtà, cercando di fuggire dalla scomodità del presente, dimentichiamo così velocemente la medesima condizione che caratterizzava tutte le altre esperienze che non sono più attuali per noi. Non ci toccano più nelle loro particolari difficoltà, nella loro pesantezza nel viverle, perché ormai distanti dalla nostra percezione. La falsificazione del ricordo qui rischia di essere effettiva, causata soprattutto da una mentalità attualizzante che nell’andare a ritroso elegge sempre il passato e ogni sua immagine come i momenti più belli da noi vissuti, la condizione migliore in cui sentiamo di non esserci crogiolati abbastanza.

Sarà sempre così, nella nostra impossibilità o non accettazione di vivere il presente appieno, questo istante irripetibile in ciò che può darci nel qui ed ora, finiremo sempre a rimpiangere il passato. La nostra condizione risulterà essere sempre quella di una figura incompleta per sua volontà, un puzzle che, come ho detto ad inizio articolo, si sta smontando lentamente lasciandosi deficitario dei propri tasselli. Ed è pur vero che non possiamo fermare quest’inesorabile scorrere, questo tempo fluido che tutto si porta appresso, ma non ne possiamo neanche rimanere in balia. Possiamo accettare tutto ciò, accettare il tragico nella nostra vita e diventare ciò che siamo, parafrasando Nietzsche, rendendoci conto che ciò che veniva visto come il lento declino, la costante perdita di qualcosa, di una parte di noi è sempre compensata da qualcosa che deve ancora arrivare. Come costruttori di questo puzzle che noi stessi siamo, dobbiamo poter accettare di inserire nuovi pezzi ad una sagoma che altrimenti rischierebbe di rimanere vuota, andando addirittura a cancellare la sagoma stessa.

Alvise Gasparini

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