BoJack Horseman: l’antidoto alla vita è… la vita stessa

Perché scegliere di vivere accettando la mancanza di senso della vita? Cosa ci spinge ad affrontare ogni giorno il nostro passato e un incognito futuro? Sembra che un modo ci sia: una risposta ce la porge BoJack, il protagonista dell’omonima celebre serie TV creato da Raphael Bob-Waksberg.
BoJack Horseman è una ormai nota serie Tv che porta sullo schermo la storia dell’omonimo personaggio, ormai un attore adulto e disilluso, tra disavventure surreali e commoventi episodi; la storia è arricchita da personaggi vari e sfaccettati che, ognuno a suo modo, arricchiranno il percorso che Bojack affronterà.

BoJack è un’ex star di Hollywood divenuto celebre per aver preso parte a una serie tv di target adolescenziale. BoJack non riesce ad accettare ciò che è diventato, si rimprovera di non essere “un vero attore”, invidia la serenità di Mr. Peanutbutter perché è riuscito ad “accettarsi e a vivere la sua vita riuscendo a sorridere ogni giorno”. L’atto eroico non è altro che questo accettarsi, ma BoJack sembra non riesca a svincolarsi da un passato che continua a influenzare le sue scelte in ambito lavorativo e privato.

La sua vita è solo l’ombra di ciò che egli stesso avrebbe realmente voluto e nonostante tutto, a suo modo, non smette di cercare di vivere. Cerca di svincolarsi da una madre ingombrante che riflette su di lui i suoi insuccessi e trova in Diane chi gli ricorderà che la felicità dipende solo dalle nostre azioni, e che per quanto sia impossibile dimenticare il passato è possibile lavorare sulle nostre scelte, perché nonostante tutto si continua a vivere.

BoJack è cinico, realista e incarna il nichilista contemporaneo: quando sembra che scelga di arrendersi a quella vita che non lo soddisfa, è allora che trova la forza di reagire: è emblematico che chieda a Diane se è mai troppo tardi per ricominciare, le chiederà una mano per non ricadere nel circolo vizioso dell’alcool e delle droghe e in uno dei momenti più toccanti affermerà che «in un mondo orribile tutto ciò che abbiamo sono i legami che costruiamo».

Una delle risposte alle domande iniziali è proprio questa: ciò che ci salva sono i legami che siamo in grado di creare, legami che sono capaci di darci un nuovo sguardo su noi stessi e guidarci, legami che ci ricordano che in un mondo privo di senso non siamo soli perché noi vi apparteniamo, legami che sono i soli ad affermare la nostra permanenza in questa vita e a darne un senso. Questa però non è l’unica risposta possibile alle nostre questioni iniziali.

La grandezza di BoJack è nell’accettare di vivere una vita fatta di discese e risalite, accetta di essere sé stesso e di portare il suo fardello. È commovente che il protagonista, nel momento in cui sembra voler porre fine alla sua vita, scelga nuovamente di vivere nel momento in cui osserva dei cavalli selvaggi che corrono liberi adiacenti alla strada che sta percorrendo. In quel momento capisce che la felicità è fatta di tentativi, di strade impervie e a volte dura solo pochi attimi e per questi vale la pena vivere. Bisogna guardare l’abisso prima di potervi prendere le distanze e questo BoJack lo fa, prende le distanze dall’abisso cercando di guardare «il panorama a metà strada»: cioè riesce per un momento a guardare la sua vita dall’alto e a prenderne le distanze, paradossalmente avvicinandosi nuovamente ad essa, ma con una consapevolezza diversa.

BoJack potrebbe essere paragonato al Sisifo di cui parla Camus nel suo saggio omonimo, affermando che l’unica vera domanda a cui la filosofia dovrebbe rispondere è sul perché valga la pena scegliere di vivere ogni giorno. La soluzione dell’autore è nell’accettare i nostri limiti e le discese e le risalite che la vita ci offre. Così come Sisifo porta il suo fardello ogni giorno, così BoJack accetta di vivere con la consapevolezza che la vita è fatta di attimi, ma allo stesso tempo se non si comincia la salita con il nostro fardello non ci può essere discesa. Deus ex machina, rivelazione che il protagonista apprende da un personaggio quasi mistico che incrocia sulla sua strada mentre sta correndo affaticato: un babbuino gli dirà che correre è difficile, ma provando ogni giorno diventa più semplice.

In effetti la vita non può essere che questo, una corsa a ostacoli sempre nuovi in cui a volte l’orizzonte è così lontano che ci viene voglia di abbandonare la nostra strada non curandoci di ciò che abbiamo percorso. Correndo ci accorgiamo anche che non siamo soli e, nonostante la corsa non sia mai piana, è proprio nelle salite che ci salvano i legami che siamo capaci di creare, che ci fanno pensare che vale la pena vivere.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da un fermo immagine della serie televisiva]

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La saggezza del vivere bene

Esiste un’opera intitolata De vita coelitus comparanda, ovvero Come ottenere la vita dal cielo, e fu scritta da Marsilio Ficino nel 1489, con l’intento di dare consigli su come condurre un’esistenza in totale armonia con il cosmo. In pieno stile quattrocentesco, Ficino sciorina una serie di consigli su come assicurarsi la salute, congiungendo il corso dei pianeti con le giuste erbe e cibi corretti. I suggerimenti di Ficino, coi suoi calcoli astrali e lo studio dei simboli animali, fanno sorridere le menti ciniche e scientifiche. Tuttavia, vi è un momento in cui Ficino, nel suo manuale, afferma qualcosa di molto interessante: «Per vivere ed operare felicemente, in primo luogo devi conoscere il tuo ingegno, la tua costellazione, il tuo genio e il luogo ad essi conveniente. Abita lì. Segui la tua professione naturale»1.

Ficino ipotizza che esista un demone o meglio uno spirito, donato a ogni individuo, e che esso debba guidarlo nei bivi della vita. Tale demone può essere duplice, cioè farà riferimento, da una parte, alla natura ereditata dai progenitori, al proprio carattere in sostanza; dall’altra, rispecchierà le inclinazioni precipue dell’uomo a cui è stato assegnato. La vita di quell’individuo sarà tanto più felice quanto queste due parti del demone combaceranno, ovvero quando ciò che si è troverà corrispondenza in ciò che si compie ogni giorno. Infatti, Ficino ammette che non esista uomo più sfortunato di colui che sia costretto a dedicarsi a un lavoro, a una mansione, a una parte, che non appartenga al suo intimo. Non si tratta, perciò, semplicemente di lavorare ma ciò a cui ci si dedica deve essere un’esplicazione del proprio interiore, un’espressione quanto più chiara possibile del proprio ingegno e del proprio essere. Dal punto di vista di Ficino, non è soltanto questione di realizzazione delle aspirazioni bensì di essere in accordo con il cosmo intero, perché solo agendo in equilibrio con la propria natura si è in armonia anche con ciò che ci circonda e che, apparentemente, non ci riguarda.

Questo principio, raccontato in modo così fiabesco, è in realtà una vera e propria strategia per vivere bene. Non si può essere felici, o anche solo avvicinarcisi, se nulla o poco di ciò che facciamo non rispecchia affatto il nostro essere.

Ficino ricorda qualcosa che si è dimenticato da tempo, cioè che la filosofia è saggezza del vivere bene, e niente di più. A chi dice che filosofia sia solo speculazione e astrazione è probabilmente sfuggito che nulla di tutto ciò vale, se non si potenzia al meglio l’esistenza. Non è più ammissibile che la filosofia sia presentata come esplicazione di argomenti generali ma è necessario che ritorni ad occuparsi dei fatti del mondo e che suggerisca come rigenerare e vivificare l’esistenza stessa. In sostanza, ciò che Ficino afferma è che non si può essere felici se l’interiorità dell’individuo non incontra mai il mondo.

Per quanto possano essere ridicoli i calcoli astrologici di Ficino, quanti di noi sanno davvero vivere bene e in salute? Chi è veramente in grado di dare qualità alla propria vita? Questo testo di fine 1400 si pone il problema di quanto sia importante la professione che un uomo intraprende; non per una prospettiva economica, ma come chiave di volta per essere in equilibrio con se stessi. Quanti di noi sono lacerati, oggi, da questo dilemma? Il compito che ognuno di noi deve effettivamente assumersi è di ricercare tale armonia, perché sopravvivere non è sufficiente e l’esistenza ha diritto a essere potenziata. La filosofia non può più esimersi da tale compito.

Leggendo quest’opera, sembra che Ficino abbia una soluzione a ogni problema della vita, dalla cura del corpo a quella della mente, e la trova scritta fra le stelle, le erbe e le pagine ammuffite di maghi e pensatori. Ovviamente non è mai stato così semplice. Chi, in fondo, ha mai avuto la chiave della felicità? Chi conosce il trucco per vivere in modo davvero soddisfacente? Inseguire la felicità lascia il tempo che trova, eppure, almeno una volta, chiunque si sarà chiesto «perché sono infelice?». Nessuno ha davvero la risposta, neanche chi crede di averla avuta, come Ficino. È anche vero che, prima o poi, si è costretti a fare un patto col mondo e a rimodellare le proprie ambizioni. Tuttavia, la ricerca del senso deve tornare di moda e che sia allora benvenuto il demone di Ficino, e che ricongiunga le sue parti.

Chi può dire se convenga davvero cercare la felicità? Di certo il tempo trascorso a ricercare l’armonia fra ciò che si è e ciò che si fa e a pretenderla, a vivere in un luogo che si ama – compiendo ciò che corrisponde al proprio intimo – non è mai tempo sprecato.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Marsilio Ficino, Sulla Vita, Rusconi Libri, Milano 1995, p. 279.

[Credit Greg Rakozy]

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Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Spesso il mal di vivere…

Una delle caratteristiche più interessanti delle scienze umane è la permeabilità: filosofia, letteratura, musica, pittura non costituiscono discipline separate, ma realtà complementari.

In questo senso, bisogna dire che v’è una strana alleanza tra esistenzialismo e poesia novecentesca; uso l’aggettivo “novecentesca”, nella volontà di ricondurre all’interno d’esso tutta una serie di correnti letterarie tra loro anche molto diverse.

La questione su cui vorrei concentrarmi è: se la permeabilità tra discipline umanistiche esiste, è possibile che la poesia del ‘900 (italiano), abbia risentito della temperie esistenzialista che, come si sa, fu la più importante corrente di pensiero del secolo scorso?

L’aria che si respirava in Europa (almeno dal 1943, anno di pubblicazione di L’Être et le néant di Jean-Paul Sartre) era esistenzialista de facto.
L’esistenzialismo divenne addirittura un fenomeno di massa, la cui diffusione giocò un ruolo da protagonista ovunque e in ogni campo artistico.
Naturalmente, la filosofia che sottintendeva (a volte molto vagamente) le espressioni artistico-culturali europee tra gli anni ’40 e ’60 era conosciuta (sul fatto che fosse compresa, ho dubbi) se non altro perché, nel secondo dopoguerra, sembrava essere la linea ermeneutica che più si adattava all’esplicazione d’un presente difficile in un’Europa prima in crisi, e poi in crescita socio-economica quantomeno problematica. Senza contare che gli esistenzialisti erano, per la maggior parte, d’ultra-sinistra… e questo piaceva.

Conseguentemente, le questioni tipiche dell’esistenzialismo erano non solo importantissime per la vita culturale, ma addirittura divennero moda: è dunque più che comprensibile che la poesia risentisse di questo modus vivendi atque cogitandi, e ne assumesse le tematiche.
E la tematica principale dell’esistenzialismo − in particolare sartriano − è ben nota: la vita è dolore, nausea, ostilità.
Ora la poesia, rispetto alla filosofia, non intende dare soluzioni a, né tantomeno spiegare la sofferenza; i poeti che si interrogavano sulla vita dell’uomo, si limitavano a prendere atto della verità del dolore, senza analizzarlo.

Ovviamente, non tutti i poeti parlano allo stesso modo.
Ognuno di essi, infatti, parla del dolore a seconda del grado di espressività che, d’esso, hanno la convinzione di poter dare.
Di varie modalità espressive e di sterminati autori, ne scegliamo tre che ci sembrano rappresentativi di altrettanti modi di poetare la sofferenza.

 

CLASSICISMO

Montale è il maestro della poesia muta: innanzi alla verità-del-dolore, il premio Nobel guarda senza commentare, ma parla ampiamente e con parole cristalline:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

[…]
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Un vero e proprio canto negativo.
Ciò che colpisce in Montale è la chiarezza vivida, i paragoni e le metafore evidenti. Il dolore non è, per Montale, un trascendentalis inesprimibile; è quotidianità, e la mente poetica, pur rifiutandosi di comprendere, verbalizza:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

ERMETISMO

Vi sono, tuttavia, anche poeti che, pur comprendendo (e incarnando) il dolore, non riescono a comunicarlo completamente, ma solo attraverso immagini misteriose, richiami ancestrali, accostamenti reali e assurdi: pensiamo a Quasimodo, che del dolore fa la magia del verso:

Grato respiro una radice
esprime d’albero corrotto.

Io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.

Nella consapevolezza che ogni gioia è del tutto effimera, che non esiste nulla che possa glorificare l’esistenza in quanto tale, l’uomo tenta di comunicare la sua sofferenza ma non vi riesce se non con dizioni che, purtroppo, solo lui comprende. Resta, quindi, tremendamente solo, e quando cerca conforto, non lo trova se non in se stesso. La grande sofferenza è dunque l’incomunicabilità:

Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d’aspre resine.

E dunque, unica ancora di salvezza, si apre la certezza che il mal-di-vivere, è una volontà di Dio:

Non m’hai tradito, Signore:
d’ogni dolore
son fatto primo nato.

 

MINIMALISMO

Il grado di massima inesprimibilità del dolore si raggiunge con Ungaretti:

La mia squallida
vita si estende
più spaventata di sé

In un
infinito
che mi calca e mi
preme col suo
fievole tatto.

L’uomo soffre così tanto, che l’unica cosa che può dire è, di fatto, e mi scuso per il francesismo, che la vita fa schifo.
E non occorrono tante parole per dirlo: una “squallida vita”, credo (e così il poeta soldato), è espressione ben più che sufficiente a chiudere ogni discorso.
Ma otto versi sono ancora molti, si può esser ancora più brachilogici:

VIE

corruption qui se pare d’illusions.

 

L’esistenzialismo tenta di dare una spiegazione a tutto questo indicibile dolore. Non è compito della poesia, mi sembra chiaro, far tesoro della sua lezione. Il punto di partenza tematico sarà uguale, ma le destinazioni dei due viaggi (poetico-puro e filosofico-puro) sono evidentemente diversi.
E tuttavia, nulla impedisce a un poeta d’esser filosofo (e viceversa) e di tentare di spiegare.
Ebbe a dire Alda Merini:

«La vita non ha senso, anzi è la vita che dà senso a noi, basta che la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita […] È bello accettare anche il male, non discutere mai da che parte venga il male».

In fondo, un filosofo esistenzialista non credo aggiungerebbe molte altre parole.

 

David Casagrande

[Immagine di copertina di Kevin Saint Grey]

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Il suicidio e quella continua ricerca di senso

Inevitabile che mi passi tra le mani in queste ore, di fronte al susseguirsi di tanti suicidi di cui veniamo a conoscenza quasi settimanalmente, anche di amici personali, il famoso volume di Albert Camus, Il mito di Sisifo:

«Vi è un solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».

È con questo inquietante quanto affascinante problema che il filosofo francese si interroga, tanto da scrivere un ampio volume tutto incentrato sul suicidio.

Si lancia nel vuoto un’adolescente perché stanca di vivere, si uccide un padre perché senza lavoro, si impicca un figlio perché ha mentito ai suoi genitori e amici, si toglie la vita un imprenditore perché non riesce più a pagare il salario dei suoi dipendenti.

Ma allora per parlare del suicidio dobbiamo fare un passo indietro e interrogarsi prima sul senso della vita. Ci si suicida, oggi, per mille motivi, ma un unico filo sottile sembra accomunare tutte queste morti: sono i desideri ultimi e supremi di libertà e liberazione.

Libertà dai condizionamenti sociali e familiari, libertà dal dolore fisico e psicologico, libertà dall’oppressione politica e militare.

«Libertà vo cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta»1, scrive il sommo poeta a proposito del suicidio. Gli fa eco il filosofo franco-rumeno Emil Cioran in Sillogismi dell’amarezza: «Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l’idea di suicidio, mi sarei ucciso subito».

Il suicidio diventa, quindi, un inno alla libertà, la fine da ogni costrizione della vita e dalla sua drammatica finitudine. Suicida sembra oggi colui che non vuole più scendere a compromessi, che non vuole più rimanere all’interno di steccati ben definiti, che non accetta più certe regole e la “schiavitù” a cui è sottoposto, colui che non accetta più la finitezza e cerca l’infinito a tutti i costi. È il coraggio dell’impossibile, è sfidare qualcosa che altri non vogliono o hanno smesso di sfidare, è cercare quella luce in fondo al tunnel, è cercare un senso in un’altra dimensione.

«Soltanto gli ottimisti si suicidano, gli ottimisti che non possono più esserlo. Gli altri, non avendo alcuna ragione per vivere, perché dovrebbero averne una per morire?» continua freddamente Cioran.

I suicidi di oggi sono dunque quelli in cui si sperimenta l’Assurdo e si cerca di andare oltre: si fugge per sempre da quell’incoerente mancanza di valori, di ragioni, di verità, di uguaglianza, di equità. L’Assurdo nasce quando nasciamo e muore quando moriamo. E allora perché continuare a vivere nell’Assurdo? Meglio andarsene prima ritrovando senso e significato all’esistenza stessa riconciliandosi con il mondo ed eliminando così ogni impurità di cui è contaminata la terra, rifugiandosi per sempre in una dimensione asettica.

Ma è proprio qui che sta il problema: anche il suicidarsi diventa uno degli atti dell’Assurdo, quindi anche il togliersi la vita rientra in quell’assurdo vortice di non senso, è uno degli atti più materiali e pregni di non-vita che l’esistenza umana ci offre. L’uomo di oggi non deve compiangere il suo destino, non deve eliminarlo, ma deve affrontarlo, deve essere più forte di esso. Alcuni di fronte a queste morti dell’Assurdo si chiedono: “Dove sei Dio?” Io mi chiedo: “Dove sono gli uomini? Dov’è la politica?”. Noi dobbiamo diventare Dio, dobbiamo riappropriarci della nostra vita, senza illusioni ed effetti speciali, dobbiamo lottare, a volte senza illuderci. Ecco il compito delle istituzioni, della politica, della religione: aiutarci a dare senso al nostro sudore, ai nostri passi stanchi, alle nostre lacrime che non potranno non esserci, ma che dobbiamo riconoscere come costitutive del nostro essere e per questo non da eliminare, ma da superare per raggiungere anche in questa dimensione un vivere meno inquinato.

«Bisogna amarsi molto per suicidarsi», scrive ancora Camus ne I giusti. È questo che non hanno ancora capito nostri politici, i nostri genitori, i nostri superiori, i nostri insegnanti, la chiesa: noi vogliamo amarci, noi vogliamo il meglio, vogliamo cambiare e se non ci è data questa possibilità allora è meglio morire.

Solo se aiuteremo l’uomo a superare il pessimismo facendogli sperimentare una sorta di metafisica dell’entropia, allora il suicidio non sarà più visto come negazione della volontà, ma come redenzione dell’esistenza, come capacità di guardare negli occhi l’Assurdo e il Nulla e vincerli per sempre.

 

di Gianbruno Cecchin

 

Gianbruno Cecchin, 46 anni, di Galliera Veneta (PD), dove “dormo”. 
Filosofo.
Laureato in filosofia a Padova con un tesi in filosofia della religione.
Ora, invece, mi occupo di filosofia della scienza e bioetica.
Collaboro all’Interno di alcuni progetti (master, corsi di specializzazione e altri corso come ad esempio P4F) con il dipartimento FISSPA dell’Università di Padova (in particolare con il gruppo di ricerca sulla pedagogia speciale). 
Sono professare a contratto in alcune università italiane ed estere dove insegno “etica e deontologia professionale”, nonché bioetica e storia della medicina.
Ho scritto numerosi articoli in riviste di settore e come editorialista in quotidiani locali e nazionali. 
Da libero professionista svolgo docenza di materie inerenti il mondo della comunicazione all’interno di corsi finanziati dal FSE e non e collaboro con alcuni enti di formazione professionale del Veneto ed Emilia Romagna.
Ho un “blogger” tutto mio dove annoto appunti di vita: “unfilosofoelavita” su WordPress. 
Single per scelta, adoro viaggiare, leggere (soprattutto saggistica), ascoltare e andare al cinema. Amo la buona tavola, adoro i mercatini dell’antiquariato e i festival del vintage (non ne perdo uno e acquisto l’impossibile!!).
Concludo con una citazione a me cara di William Hazlitt: “Una parola delicata, uno sguardo gentile, un sorriso bonario possono plasmare meraviglie e compiere miracoli”.

 

NOTE:
1. Dante, La divina commedia, Purgatorio, I, 71

[Immagine tratta da Google Immagini]

Un’idea di felicità: la filosofia servita a tavola

Sempre di più oggi la cultura alimentare sembra essere estranea a se stessa: l’uomo non è più ciò che mangia, non sa più cosa mangia e neppure perché. Progressivamente si stanno perdendo i suoi riferimenti fondamentali definiti nel tempo.

Per comprendere cosa rappresenta oggi il cibo, bisognerebbe ritornare al significato stesso della parola, come facevano i grandi filosofi, riacquistando il suo senso autentico che non si riferisce solamente a ciò che si consuma e che nutre, ma a ciò che è in grado di esprimere anche un intreccio di prospettive legate a identità, appartenenza e relazione, perché è la tavola stessa a raccontarci il suo cibo.

L’etimologia della parola appetito, ossia l’essere attratti da qualcosa, non si riferisce ad una pulsione istintiva che obbliga a mangiare, ma è attrazione per qualcosa che ci invita. Ecco che il cibo può essere considerato lo strumento di relazione per eccellenza: la condivisione, la ritualità quotidiana, il convivio, rappresentano il cuore del vivere insieme e l’uomo, che Aristotele descriveva come essere sociale, ha sempre desiderato di vivere assieme agli altri; un vivere che si esprime solo attraverso lo scambio e l’esperienza.

Il sedersi a tavola insieme può rappresentare quella dimensione reciproca fatta di valori che è in grado di ridare significato e spessore a un gesto di vita spesso tralasciato, perché semplicemente non viene interrotta l’abituale corsa frenetica,  in un contesto in cui soprattutto la percezione e l’organizzazione dello spazio e del tempo vengono trasformati e sottratti allo scambio e alla relazione. Godere dell’esperienza quotidiana, comunicare e consumare la narrazione del cibo, sono infatti dei rituali che nella società frammentata di oggi si stanno perdendo. Il mangiare insieme, quando legato al concetto di convivialità, oltre a ridare dignità al gesto in sé, può rafforzare la ricerca della felicità condivisa, perché anch’essa è raggiungibile attraverso il cibo e il rapporto con esso, ricerca che a volte può essere articolata come la natura intrinseca delle relazioni.

L’esistenza stessa si fonda sul legame che si instaura tra il mangiare e il quotidiano, portatore di significati e mediatore nei confronti di una realtà la cui conoscenza e comprensione spesso non può che avvenire in modo diretto. Come mangiare un piatto di pasta assieme, in cui gli elementi base restano prodotti semplici, ma che insieme sono in grado di costruire un forte valore identitario e di soddisfare il gusto tanto da diventare un’abitudine quotidiana. Non a caso il piacere della semplicità e dello stare a tavola assieme si condivide con facilità. La quotidianità del mangiare quindi rappresenta quel semplice spazio di condivisione ripetuta, in grado di aggiungere valore e sentimento anche ad un modesto piatto di spaghetti al pomodoro.

Una pratica che può essere riconosciuta come patrimonio immateriale proprio perché si riferisce ad uno stile di vita e alla tradizione, non solamente ai singoli ingredienti, che vengono ricreati e trasmessi garantendo un senso di identità e continuità tra i soggetti, in risposta alla loro cultura.

All’interno di questo contesto il rapporto con l’altro trova sulla tavola di tutti i giorni il luogo speciale per la sua manifestazione più genuina, perché è nel quotidiano e nella continua ricerca che cibo e filosofia possono trovare il loro punto di unione: il cucinare, il mangiare assieme e il fare filosofia, in modi diversi, accompagnano continuamente l’uomo nella ricerca costante di una vita che ha bisogno dell’impegno umano per poter essere riconosciuta, se non felice, quantomeno nostra.

Riprendendo le parole di J. Inés de la Cruz, «si può benissimo filosofare e preparare la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più».

Martina Basciano

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La contraddizione come condizione dell’esistenza

<p>La Trahison des images (Ceci n'est pas une pipe). 1929. Oil on canvas, Overall: 25 3/8 x 37 in. (64.45 x 93.98 cm). Unframed canvas: 23 11/16 x 31 7/7 inches, 1 1/2 inches deep, 39 5/8 inches diagonal. Purchased with funds provided by the Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection (78.7).</p>

Sembra quasi un ossimoro, un’affermazione paradossale.
E proprio un paradosso può essere l’inizio della nostra indagine. È uno dei più famosi nella storia dell’uomo: il paradosso del mentitore, articolato tramite una proposizione auto-negante del tipo “questa frase è falsa”. Nessuno potrà dimostrare se essa sia vera o falsa dato che se fosse vera allora non sarebbe falsa; mentre se fosse falsa si capovolgerebbe in “questa frase è vera”, quando si è appena affermato il contrario.

Contraddizione. Questo concetto attraversa tutta la storia della filosofia occidentale. Ai suoi albori, Aristotele formulò il famoso principio di non contraddizione, che è diventato la base più solida della nostra logica e del nostro linguaggio, una città amica dove sappiamo di poterci sempre rifugiare insieme ad un alleato pronto a sostenerci. E con un alleato come il “principium firmissimum” – come è stato più volte chiamato – la vittoria sembra certa.
Ma come dovremmo comportarci di fronte ad una situazione paradossale? Una soluzione può esserci suggerita attraverso il principio del terzo escluso, ovvero che non è possibile una terza via tra due proposizioni tra loro contraddittorie: “tertium non datur”. È necessario però fare una precisazione: questo principio non scandisce che non può esserci una terza possibilità tra vero e falso – che sono contrari –, il che aprirebbe la strada all’indeterminato, come spesso è stato interpretato, ma tra vero e non-vero (o falso e non-falso), che sono appunto contradditori. Sembra quindi che all’interno del non-vero possa essere posto sì il falso ma, ad esempio, anche l’indeterminato.
Un’altra soluzione può essere quella – condivisa anche da Aristotele – che tramite i paradossi non si stia dicendo propriamente nulla, e quindi la (non-)proposizione va tralasciata senza nessun problema.

Facciamo ora un passo oltre ai paradossi e concentriamoci sulle contraddizioni vere e proprie, quali i paradossi non sono.
Il significato di una contraddizione è molto semplice: essa si presenta quando si considera una proposizione logica attualmente identica al suo opposto (ad esempio “in questo momento piove e non-piove”).
Possiamo quindi tranquillamente soprassedere alle contraddizioni logiche e ampliamo lo sguardo alla nostra vita.
È un dato di fatto che nel corso della nostra esistenza compieremo qualche scelta e/o azione irrazionale. L’uomo infatti è sì – per dirla con Aristotele – animale razionale, ma la nostra “umanità” non si esaurisce in questo.
L’azione di andare contro il buon senso può essere considerata una contraddizione? Ed il suicidio? Perseverare in una scelta pur sapendo che non ci condannerà ad altro che all’infelicità e a ripetute delusioni è una contraddizione?
A mio modo di vedere – e con qualche necessaria precisazione – la risposta può essere positiva e negativa insieme, ed ecco che si ripropone una contraddizione.
Se consideriamo l’uomo come entità calcolante, alla stregua di un computer, la risposta è certamente affermativa: queste azioni – potremmo dire – sarebbero espressione di un malfunzionamento.
La risposta è negativa (ma ora vedremo che in realtà sarà comunque positiva) se aggiungiamo all’uomo la sfera emotiva. Seguire le emozioni, gli istinti, le pulsioni: ecco cosa ci differenzia dalle macchine, ed ecco i grandi problemi con cui ha a che vedere la robotica e lo sviluppo delle intelligenze artificiali.
Ma possiamo ipotizzare vari gradi di irrazionalità? Può esserci un’irrazionalità sempre maggiore che al suo estremo sconfini comunque nella contraddizione? Può cioè essere l’irrazionalità essa stessa irrazionale non per definizione ma per comportamento? E non stiamo parlando di due negativi che moltiplicati fanno un positivo: una irrazionalità irrazionale non diventa ragionevole, bensì si riproduce ed amplifica, sconfinando – appunto – nella contraddizione.
E ciò – a mio modo di vedere – succede ogni giorno.
Accade quando sappiamo che dobbiamo andare al lavoro ma restiamo a letto.
Capita quando vogliamo esplodere di rabbia ma ci imponiamo di stare calmi.
Succede quando siamo consapevoli che amare qualcuno potrebbe destinarci al dolore ma lo facciamo comunque.
Ciò – in sostanza – si realizza quando, nel conflitto tra ragione e passioni, una delle due prevale sull’altra. Perché entrambe le possibilità sono me.
Entrambe potrebbero, singolarmente, esprimere la mia individualità. Entrambe, isolate, sono una parte che esaurisce il tutto. Ma l’uomo non è questo Tutto, esso va oltre, ha bisogno anche di quello che circonda la Totalità, che per definizione non esiste e che la logica non riesce nemmeno ad immaginare. Eppure è proprio questa sovrabbondanza di esistenza inesistente che ci permette di domandarci cosa c’è oltre l’Universo, cos’è veramente una singolarità avvolta da un buco nero e se il tempo possa essere aggirato.
È come se fossimo inconsapevolmente consapevoli di essere altro rispetto a quello che siamo.
È una contraddizione che spiega la vita.
È La Contraddizione: vivere senza sapere il perché ma sapendo che c’è.
Vivere perché si vive. Vivere perché sono vivo.

Massimiliano Mattiuzzo

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Contro il tempo, la libertà

Non c’è sera in cui, percorrendo i pochi passi dal bagno al letto, io non ricordi a me stessa, in maniera forse ossessiva, che un altro giorno è ormai finito e passato. Nello specifico, sono due le frasi che mi ripeto, sera dopo sera, senza mai stancarmi. La prima, presa da una canzone di Guccini, che in realtà non ascolto ormai da anni: «un altro giorno andato» (la sua musica ha finito, quanto tempo ormai è passato e passerà). La seconda, copiata questa volta a una poesia di Quasimodo, ricordo forse delle medie, forse delle superiori, chi lo sa: «ed è subito sera». Prima di addormentarmi ripercorro con il pensiero i momenti che hanno riempito la mia giornata, le persone con cui ho parlato, quelle con cui ho scambiato un semplice e veloce sguardo, le parole che ho detto, i piatti che ho mangiato, i particolari che mi hanno colpita, e via dicendo. Finita questa lista di istanti trascorsi e passati, inizio quella del giorno dopo: ricapitolo mentalmente le cose da fare, a volte numerose, a volte minime, fantastico sui miei desideri o progetti futuri, a volte carichi e rinvigorenti, altre volte spenti e deprimenti.

Il tempo che scorre incessantemente e passa alla velocità della luce è il nostro più fedele compagno, ma anche il nostro peggiore nemico. Il mio rapporto con lui qualche mese fa è stato abbastanza turbolento: la paura di aver perso tempo in anni di università che forse non mi porteranno laddove mi ero immaginata intraprendendo questo percorso; il rimorso di aver già rinunciato a piccoli grandi sogni, attività o impegni; il dovere di inventarmi in fretta cosa fare di qui a qualche mese… Mettiamoci dentro anche la banale preoccupazione per i primissimi capelli bianchi. E la sana invidia verso mia sorella quasi diciottenne, alla quale, sentendomi una vera nonna, ripeto con i miei migliori auguri che ha tutta la vita davanti.

Ho cercato di venirne fuori, da questo superficiale e stupido malessere che mi stavo ossessivamente creando da sola. L’ho fatto cercando di appropriarmi per davvero di quel maledetto tempo che ci caratterizza e condiziona tutti, ricordandomi di un’altra dimensione che appartiene all’uomo, alla pari del tempo. La nostra libertà! La libertà di muoverci nelle trame del tempo come ci pare e piace, la libertà di disporre di esso e di gestirlo nel modo in cui preferiamo. Preciso che con ciò non intendo la possibilità di svincolarci da una serie di obblighi alla quale siamo chiamati a rispondere per un dovere che potrei definire ‘morale’. Altrimenti, lungi dall’essere libera e volontaria gestione del proprio tempo, questa finirebbe per decadere nel caos egoistico dettato dal volere e dal piacere. Intendo piuttosto dire che, nella scelta riguardo il come poter disporre del tempo che ci appartiene, dovremmo darci tutti una lista di priorità e dovremmo provare a rispettarla quanto più ci è possibile.

Dovremmo imparare a dire ‘sì’ senza paure, ma anche imparare a proferire qualche ‘no’ secco andando oltre le convenzioni. Dovremmo impegnarci con dedizione e costanza in quanto crediamo, e riuscire a rinunciare ad impegni che lungi dall’arricchire la nostra persona finiscono invece per inaridirla. Dovremmo accogliere e passare più tempo con le persone che amiamo e stimiamo e svincolarci da quelle con cui non riusciamo più ad avere punti d’incontro.

Dovremmo e potremmo fare tante cose. Ma non tutto dipende da noi e dalla nostra libertà. I giorni si susseguono senza sosta, e un altro anno è ormai andato… La sola soluzione è allora ricordarci di vivere appieno ogni singolo momento della nostra vita, bello o brutto che sia. Dobbiamo ardere, per noi stessi, per il dono della vita, e per quanti ci stanno attorno. Circondiamoci di quanta più freschezza e positività riusciamo. Facciamoci avanti e consumiamo, inghiottiamo, svisceriamo il nostro presente!

«Circondatevi di uomini che siano come un giardino, o come musica sopra le acque, al momento della sera, quando il giorno già diventa ricordo».

Nietzsche

Federica Bonisiol

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Sguardo a Oriente: Tiziano Terzani e il concetto di malattia

Il tema della qualità della vita è uno degli argomenti più discussi degli ultimi anni. Senza un giusto bilanciamento tra sopravvivenza e qualità della vita, si corre il rischio che gli inconvenienti determinati dalle cure, ad esempio, interferiscano con lo stato di benessere soggettivo della persona tanto che tutto il periodo di sopravvivenza arriva a coincidere con quello di sofferenza, indotto da una terapia.

In questo caso, Tiziano Terzani (1938-2004), giornalista e reporter italiano che ha legato la sua vita, il suo lavoro e la sua ricerca di verità in particolare all’Asia, in Un altro giro di giostra racconta il suo ultimo viaggio, quello attraverso la malattia che lo ha colpito, un viaggio quindi diverso, più intimo e personale, che l’ha portato da New York all’India, lungo le strade della medicina sia tradizionale che alternativa. In una ricerca tra Oriente e Occidente «Ognuno deve cercare a modo suo, ognuno deve fare il proprio cammino, perché uno stesso posto può significare cose diverse a seconda di chi le visita. Quel che può essere una medicina per l’uno può essere niente o addirittura un veleno per l’altro: specie quando si lascia il campo, in qualche modo collaudato, della scienza e ci si avventura in quello ormai affollato delle cure alternative».

All’interno di questa prospettiva, la cultura orientale è stata a lungo ignorata da quella occidentale, impegnata a costruirsi categorie e strumenti razionali di indagine e di dominio della realtà. L’Occidente infatti è venuto a identificarsi sempre più con la razionalità tecnica e scientifica: modello che è stato spesso messo in discussione e che ha maturato una nuova attenzione per la civiltà orientale, espressione di una diversa tradizione culturale. L’Occidente guarda a Oriente perché trova nella sua saggezza qualcosa che ha smarrito e non ha più nel suo patrimonio culturale; secondo Terzani infatti: «l’uomo occidentale, imboccando l’autostrada della scienza, ha troppo facilmente dimenticato i sentieri della sua vecchia saggezza».

Se la cultura occidentale si presenta sempre più segnata da dualismi (soggetto-oggetto, mente-corpo), da conflitti e contraddizioni, l’Oriente, invece, sembra avere molto vivo il senso della ricomposizione armonica degli opposti, del loro equilibrio e la concezione di una unità armonica di tutta la realtà, in tutti i suoi aspetti.

Questa mancanza di armonia nel mondo occidentale è vista come effetto del prevalere di un atteggiamento aggressivo; si sente quindi il bisogno di integrare un altro tipo di atteggiamento, per conquistare l’armonia e l’equilibrio desiderati. La trasformazione comporta però una revisione, sia del modo di vivere che del modo di vedere le cose. Bisogna quindi superare quegli atteggiamenti unilaterali e la volontà di dominio per orientarsi sempre più verso un atteggiamento di complementarietà, verso una visione d’insieme. Questa visione unitaria, nella cultura occidentale sembra mancare, perché in essa è prevalso un modello di razionalità analitica e astratta, che ha sacrificato l’esigenza di avere un’esperienza profonda del mondo e delle cose.

L’Occidente quindi, si impone con la sua razionalità scientifica e tecnologica, ma sembra avere sempre più bisogno di qualcosa che non trova nella propria realtà culturale. E questa crisi della ragione sembra essere sempre più evidente dalle parole di Terzani: «la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è ancora estremamente limitata e dietro alle apparenze, dietro i fatti, c’è una verità che davvero ci sfugge, perché sfugge alla rete dei nostri sensi, ai criteri della nostra scienza e della nostra cosiddetta ragione».

La medicina occidentale, a questo proposito, sembra vedere la malattia e non più il malato, conosce le patologie del corpo, ma non sa vedere l’unità profonda della dimensione fisica e di quella spirituale; per questo il ricorso alle medicine alternative può essere considerato per affrontare e curare i disagi profondi di un’umanità interiormente divisa. Il confronto con l’Oriente quindi può suscitare una consapevolezza dei limiti della razionalità, il bisogno e la necessità di ripensarla, rompendo quelle impostazioni che sono avvertite come un impedimento per affrontare problemi e difficoltà nuovi.

Se l’Occidente quindi in questo senso è in una situazione di blocco, può cercare anche fuori di sé un aiuto e un’integrazione del suo ethos. Questo non significa abbandonare completamente il suo approccio, ma riconoscere di avere bisogno di altre fonti di morale, in un rapporto che sia di conoscenza, di disponibilità al confronto e al cambiamento. Dialogo che deve essere improntato al rispetto e alla convinzione che anche l’ “altro” è portatore di valori; arricchendoci a partire da questo incontro; come avviene nei rapporti di cura.

Ma un’importante indicazione si aggiunge a questo discorso, che ci viene da Terzani, perché egli riconosce che il viaggio per lui è stato una grande occasione di riflessione e di ricerca, ma «quello che alla fine mi pare di aver imparato è parte di quella filosofia perenne che non ha nazionalità, che non è legata a nessuna religione, perché ha a che fare con l’aspirazione più profonda dell’animo umano, con quell’eterno bisogno di sapere come mai siamo al mondo».

 

Martina Basciano

 

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Vi è traccia di divertimento nello studio della storia?

Puntualmente, per esperienza personale, quando chiedo ai bambini un indice di gradimento numerico per l’insegnamento di Storia, il valore che ottengo solitamente è prossimo allo 0. Nel migliore dei casi. Motivi? La Storia è noiosa e vecchia così come il maestro che la insegna, anche se magari ha 35 anni. Una sorta di consustanzialità fra il documento storico ammuffito e il classico pile sgualcito dell’insegnante. In pratica una crisi d’identità assicurata intorno ai 40 anni per chi come me è in procinto di laurearsi in Storia e non disdegna una carriera futura da passare dietro la cattedra.

Quali sono i motivi di tale declino? Perché piace addirittura più la Matematica e soprattutto l’ora di Religione con i suoi film pieni di amore e lieti fine stucchevoli?

Innanzitutto è necessario premettere due cose: in primo luogo ogni fascia d’età possiede esigenze e capacità differenti e specifiche. Quindi è assolutamente improprio far imparare migliaia di date a memoria agli adolescenti; tanto il giorno dopo scambieranno la caduta dell’Impero Romano d’Oriente con quello d’Occidente. Tranne per i nerd: loro le sapranno grazie alle mille ore passate davanti ai giochi di strategia per il Pc.
In secondo luogo, invece, si deve ammettere che non tutte le epoche hanno sentito la mancanza di volgere lo sguardo verso il passato per studiarlo. Basti pensare a oggi, dove la modalità classica di trasmissione del sapere – dall’anziano al giovane, dal maestro all’alunno, dai genitori ai figli, dal passato al futuro – si sta rapidamente invertendo: ora sono i figli ad imprecare contro i genitori, colpevoli nel 2016 di non sapere utilizzare la tecnologia.

Oh Clio, come fare allora per recuperare quel divertimento che lo studio della Storia recava a Marc Bloch?1

Sicuramente compiendo azioni rivoluzionarie.
Togliamo la cattedra! Le lezioni frontali producono un’insensata voglia di giocare a Snake e per chi ha il cellulare scarico appisolarsi risulterebbe la miglior opzione. A parte l’ironia, credo che una disposizione a cerchio delle sedie faciliti il dibattito perché mancherebbero riferimenti spaziali – gerarchici. In questo modo, da un lato gli studenti parteciperebbero attivamente senza timore dell’entità suprema confinata dietro la cattedra e dall’altro il maestro migliorerebbe la propria relazione con i propri allievi ed emergerebbe nella discussione in ogni caso come fonte di sapere, visto le sue maggiori conoscenze.

La Storia è vita vissuta! La Storia è fatta di carne e di ossa! Molte volte i manuali raccontano le guerre, le scoperte e le rivoluzioni come fossero di altri mondi. La Terra ne sembra incolume.
Beh, aggiornamento dell’ultima ora: noi tutti facciamo parte della Storia. Sono convinto che esserne consapevoli sia estremamente utile e affascinante per due ragioni: da un lato pungolerebbe la curiosità di coloro che vedono nel sussidiario con copertina verde – la Storia l’ho sempre associata a questo colore. Retaggi delle scuole elementari – un potenziale allergenico; dall’altro pensarsi all’interno del flusso storico stimolerebbe le riflessioni sul rapporto che intercorre tra l’individuo e gli eventi, sia passati che contemporanei. Alla fine lo studio della Storia non è altro che un’intervista continuamente aggiornata rivolta al passato, un interlocutore difficile da capire, ma allo stesso tempo affascinante per la molteplicità di punti di vista che può darti.

Solo attuando queste modifiche (le idee sarebbero molte di più), la Storia da disciplina marginale di un’ora alla settimana, diventerebbe azione quotidiana di comprensione della società.
Alla fine anche Euclide e il suo maledetto teorema sono stati concepiti in questo mondo.

Marco Donadon

NOTE:
1. M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, 1949.

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