HUMILITAS. In ricordo di Albino Luciani nell’anniversario dell’elezione

Chissà cos’avrà pensato, quel lontano 11 gennaio 1959, il 46enne don Albino quando, giungendo alla stazione di Vittorio Veneto sotto la neve, scese le scalette del convoglio e si trovò innanzi la terra della sua nuova diocesi; la descrisse così, più tardi: «Di qua il Piave, di là il Livenza, sopra si arriva alle porte di Belluno, sotto fin quasi al mare. In cima monti, in mezzo colli, in basso fertili piani, che vanno abbellendosi sempre più di nuove strade, nuove fabbriche, vite e frutteti, e un mantello di chiese che la copre da capo a piedi».
Albino Luciani – nativo di Forno di Canale, nell’Agordino – aveva per sé altri progetti: avrebbe voluto continuare a insegnare in seminario a Belluno, ma papa Giovanni XXIII lo sceglie come successore di san Tiziano sulla cattedra di Vittorio Veneto, una diocesi che – da patriarca – Roncalli aveva ben conosciuto, recandosi in villeggiatura sulle colline di San Pietro di Feletto. Il papa supera le perplessità della Congregazione: Luciani è troppo giovane, è troppo malaticcio … e commentò: «Vuol dire che morirà vescovo».

Lo stemma e il motto di Luciani, che oggi campeggiano nella Sala del Trono del castello vescovile, sembrano dire tutto di lui: tre stelle in campo azzurro, una sola parola sul cartiglio: “Umiltà”; quelle stelle bastano: rappresentano le virtù, la Trinità, la Madonna: il resto è superfluo.
A Vittorio, Luciani iniziò subito la visita pastorale; nello spirito del Concilio, cui partecipò attivamente, condivideva le parole di Paolo VI, che nel 1965 aveva affermato: «Chi appartiene a quella società che si chiama oggi “il popolo di Dio”, deve sapere che questa comunità è organizzata, e non può vivere senza l’innervazione di un’organizzazione precisa e potente che si chiama Gerarchia»; uomo di mitezza e obbedienza, don Albino le pretendeva anche dal prossimo: prova ne è lo strano caso dello “Scisma di Montaner”.

Nel 1969 giunge la nomina patriarcale a Venezia, nel 1973 l’elevazione al cardinalato; nel 1977 incontra suor Lucia a Fatima: questo evento giace a metà tra la storia e la leggenda: il patriarca, in pellegrinaggio a Cova da Idria, incontrò la suora per due ore; il fratello, Edoardo, disse di avere visto il cardinale tornare molto scosso: era diventato silenzioso pensieroso e quando gli chiese cosa avesse, Albino rispose: “Penso sempre a quello che ha detto suor Lucia”. Che gli avesse rivelato l’elezione papale o addirittura il contenuto del terzo mistero è impossibile da verificare; resta solo la certezza che le parole di suor Lucia segnano profondamente l’animo del patriarca.

Nell’agosto 1978, Paolo VI muore e Luciani, il 26 agosto, al quarto scrutinio, è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di Pietro. Il responsabile della sua elezione ha un nome e un cognome: Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, che sperava di ottenere una nomina in curia – forse addirittura la Segreteria di Stato – con l’elezione del patriarca di Venezia al Soglio. Ma non è lo Spirito Santo che sceglie il papa, potreste chiedermi? A questa domanda rispose, non senza una certa dose di bavarese ironia, il cardinale Ratzinger nel 1997, quando di lavoro faceva il custode dell’ortodossia: «Lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto ci lascia molta libertà, senza abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico. Probabilmente l’unica sicurezza che offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata».

Trentatré giorni di pontificato; trentatré, come gli anni di Gesù, come la durata di un ciclo lunare secondo i medioevali. Sembra perfetta la profezia di Malachia che, riguardo al 263° vescovo di Roma diceva: De medietate luna – della durata media d’una luna. Il papa di settembre non presiedette mai Messa in San Pietro, e parlò al mondo di sé con termini di disarmante umanità, toni simili a quelli di un parroco di provincia che non a quelli d’un vicario di Cristo: «Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa». E ancora: «Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri».

Considerato conservatore in termini di morale sessuale, Giovanni Paolo I è uno strenuo difensore dei diritti dei poveri: animato dal fuoco della Populorum Progressio di Paolo VI, durante un discorso disse: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono opprimere i poveri e defraudare la giusta mercede agli operai», frase che provocò qualche imbarazzo ai redattori dell’Osservatore Romano, impegnati a trascrivere.
Vero scandalo creò, invece, la dichiarazione della maternità di Dio del 10 settembre: «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre» – per i teologi è un colpo basso. Dio è, nel Nuovo Testamento, sempre descritto con tratti maschili: Gesù ci ha insegnato a chiamarlo “Padre” e raramente, nell’Antico Testamento, Jahwe è accostato ad attributi femminei. Eppure il suo amore è tenero come quello di una mamma, è più caldo di quello – leggermente più formale – di un buon papà … come conciliare le due cose? Il cardinale Ratzinger risolse la diatriba nel 2001: «La Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono racchiusi in lui – e lui è al di là di entrambi».

Alla sua ultima udienza generale, il 27 settembre, un uomo gli grida: “Lunga vita!” … lui alza la mano, sorride, sembra imbarazzato. Forse, sa.
Quattro sole udienze, ma il filo del discorso è chiaro, le quattro catechesi hanno senso perfetto, e sembra abbiano concluso un ciclo di insegnamenti sulle virtù: umiltà, fede, speranza, urgenza della carità; nello stile di Luciani, il superfluo va rigettato: sembra quasi che un’altra udienza sarebbe stata solo un orpello inutile, perché al cristiano bastano queste cose: sufficit tibi gratia Mea.

Il sorriso, la semplicità di un parroco veneto chiamato a Roma, sono i tratti che più rimangono a noi, che non lo abbiamo conosciuto se non dai filmati d’epoca e dalle testimonianze di chi lo conobbe da vescovo o cardinale, e nel ricordo commosso dei suoi successori sul Trono di Pietro.
E forse la morte di papa Luciani, così fulminea e rapida, inaspettata e triste per tutti i fedeli del mondo, non è altro che l’ovvia conclusione di una vita dimessa, lontana dagli eccessi: “Scritta nella polvere, affinché il merito rimanga tutta a Dio”.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

I festival come valore del territorio: intervista a Viviana Carlet del LFF

E’ passato quasi un anno da quando uno dei festival cinematografici più validi ed interessanti in Italia aveva rischiato di dover chiudere per sempre i battenti. Oggi però, grazie a un’incredibile forza di volontà e a una costante voglia di mettersi alla prova, l’undicesima edizione del Lago Film Fest è pronta per tornare in scena a Revine Lago. Abbiamo intervistato Viviana Carlet, la direttrice della rassegna (insieme a Carlo Migotto) e ci siamo fatti raccontare qual è la filosofia che si nasconde all’interno di un festival cinematografico

-Dopo alcuni mesi, in cui molti avevano temuto che la storia di Lago Film Fest fosse giunta al suo epilogo, è arrivato l’annuncio di quest’undicesima edizione che si presenta come una delle più ricche ed interessanti degli ultimi anni. Da dove è nata la decisione di non fermarsi e la voglia di organizzare una nuova edizione?

La decima edizione per noi è stata la chiusura di un percorso. Non si è trattato di una rottura ma di un’esigenza su più punti, nel senso che il festival era iniziato nel 2005 con degli obbiettivi molto chiari e doveva essere solo uno dei tanti progetti che avremmo dovuto portare avanti. Io definisco il festival come una macchina pesante e ben strutturata, quindi la sua preparazione richiedeva alla fine un anno intero, togliendo il tempo a tutte le altre cose. Abbiamo capito allora che dovevamo mettere un punto per andare a capo e riscrivere la storia della rassegna, soprattutto perché la nostra è un’attività legata allo sviluppo sociale e culturale di un luogo. Non proiettiamo solo film ma cerchiamo di valorizzare un territorio. Il punto messo alla fine della decima edizione ci ha permesso di reinventare il festival, facendolo diventare qualcos’altro. La decisione annunciata l’anno scorso non è stata solo una questione di soldi, ma anche di programmazione e di una concezione di quello che si vuole veder fatto per un territorio. Sono queste le idee da cui siamo partiti per organizzare l’undicesima edizione.

-Quali sono le novità principali inerenti alla rassegna di quest’anno?

Per l’undicesima edizione abbiamo deciso di ridisegnare completamente il festival, creando una “Piattaforma Lago”, una realtà fisica, fatta di persone reali che fanno parte di una serie di progetti per dare la possibilità a più persone possibili di crescere e imparare. Lago Film Fest non è più l’unico progetto intorno a cui ruota tutto, ma è diventato uno dei tanti. Per uno spettatore che arriva da fuori non c’è molta differenza, ma per il nostro gruppo si è trattato di un cambiamento profondo e radicale. Quest’anno poi punteremo molto sulle attività giornaliere, non ci saranno le proiezioni pomeridiane come negli anni scorsi bensì una serie di workshop aperti al pubblico. Ci saranno dei seminari tenuti dai giurati presenti al festival e un focus dedicato a ognuno di loro. La mattina ci saranno le conferenze stampa in cui si potranno incontrare gli attori e i registi presenti in concorso. Il primo fine settimana sarà invece dedicato alla danza, mentre la Svezia sarà la nostra punta di diamante con varie rassegne dedicate e autori presenti in concorso. Ci saranno poi concerti tutte le sere e attività dedicate ai cantautori veneti, una serie di varie performance, e infine le proiezioni serali dei film in concorso.

-Che aggettivi usereste per riassumere al vostro pubblico questa nuova edizione?

Pensando all’aspetto cinematografico te ne do tre: affilata, femminile (senza averlo cercato) e impegnata ma in modo obliquo, anche se per il fatto che nessuno se la sarebbe aspettata direi che è un’edizione inaspettata per l’appunto, perché ha un linguaggio diverso rispetto a tutto quello che avevamo fatto fino ad oggi

-Nonostante Lago Film Fest sia un festival molto legato al territorio locale riesce sempre ad allestire un programma di respiro internazionale, collaborando con le principali rassegne cinematografiche nel resto del mondo. C’è un festival che voi amate particolarmente e a cui vi siete ispirati per organizzare la vostra rassegna?

Quando ho iniziato i miei modelli erano due festival italiani che da sempre mi sono rimasti nel cuore. Inizialmente Lago Film Fest doveva essere un progetto di public art e il cinema doveva essere solo un mezzo per raggiungere uno scopo. Successivamente però l’aspetto cinematografico è cresciuto sempre di più. I miei modelli sono il Lucania Film Festival e il Milano Film Festival. Sono rassegne legate in modo molto stretto e forte allo spazio in cui vengono realizzate. Sono in realtà dei progetti e non dei festival canonici. Sono delle realtà che riescono a dialogare con lo spazio e con le persone che lo vivono. Riescono a creare un’interazione tra cinema, arte e territorio e sono questi gli obbiettivi che abbiamo cercato di raggiungere anche con il nostro festival.

-Ogni festival, a suo modo, ha una propria filosofia stilistica e di pensiero. Lo si capisce dal modo in cui è strutturato e dal programma di film che porta di edizione in edizione. Qual è la filosofia del Lago Film Fest?

La base di partenza, come detto prima, è la continua valorizzazione del territorio. Molto importante per noi è poi la continua ricerca, nel senso che vogliamo far si che i registi o gli artisti che vengono a lavorare qui possano fare delle loro cose creative, realizzando i loro sogni. Vogliamo insomma dare un ruolo attivo all’artista e anche allo spettatore.

-Parlavamo poco fa di quanto il Lago Film Fest sia legato alla valorizzazione del territorio in cui viene organizzato. Se non aveste scelto Revine ci sarebbe stato un altro luogo in cui avreste voluto organizzare un festival cinematografico?

No, Lago poteva essere l’unico luogo possibile. Io sono andata via da qui perché era un posto che non mi piaceva, e in cui non avevo nessuna voglia di tornare. Ho scelto Revine perché volevo rivalorizzarla per me stessa. Volevo portare qualcosa nel posto in cui ero nata. Non ci sarebbe stato nessun altro luogo in cui avrei voluto organizzare un festival. Si tratta di un legame molto personale. Avevo bisogno di realizzare un progetto a casa mia e portarlo alla vita nel luogo da cui venivo.

-Lago Film Fest non è solo cinema, ma un evento che unisce tra loro varie arti in maniera unica e trasversale. Quali sono, oltre al cinema, le arti da cui siete più influenzati nella vita e nell’organizzazione di un festival come questo?

L’arte contemporanea senza dubbio. Nella mia idea originaria l’arte doveva essere la vera protagonista di questa rassegna. Se tu vedi l’arte come una piattaforma hai una serie di progetti che ti permettono di lavorare su più livelli creando un festival generalista che unisca l’aspetto di ricerca a quello dell’attenzione verso i gusti del pubblico. L’importante per noi è mescolare le cose. Frequentando l’Accademia di Belle Arti mi sono accorta che i vari settori (pittura, teatro, ecc) erano molto separati e chiusi tra loro, quello che a noi interessa però è creare un’interazione tra l’arte e le persone.

-A proposito di arti, volevo aprire una breve parentesi sulla musica. L’anno scorso la colonna sonora del festival era “Wrong to be kind” di Glenn and the chunkies. Prendendo spunto dal titolo e dalla vostra esperienza personale, è davvero sbagliato essere gentili?

Quella canzone era una meditazione generale sul concetto di no profit e sul darsi gratuitamente. In realtà era un modo spiritoso per ironizzare su un tema molto serio. Si riferiva alla capacità di mediare tra disponibilità e voglia di condivisione. Da un lato era una provocazione, noi cerchiamo sempre di essere gentili però a volte bisogna essere in grado di dire basta.  Il volontariato oggi è definito “il terzo settore”, riesce a muovere montagne ma viene puntualmente ignorato e snobbato da tutti. L’Italia potrebbe vivere solo di cultura senza fare nient’altro eppure non ci riesce. In Francia uno dei pacchetti più importanti è quello della cultura, qui da noi non viene nemmeno presa in considerazione. Questo è un aspetto che da molto fastidio.

-Scriveva Julio Cabrera in Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film: «Se la filosofia scritta pretende di sviluppare un universale senza eccezioni, il cinema mette invece in scena un’eccezione con caratteristiche universali. »
Il guardare le immagini permette all’uomo di imparare e ragionare molto più facilmente rispetto all’esercizio filosofico tradizionale, poiché la poiesis ci mette in contatto diretto con l’universale. Potremmo dunque intendere il cinema come “la cosa più filosofica”. A vostro parere quali sono i punti di forza e le potenzialità che il cinema possiede nel veicolare certi tipi di contenuti e/o messaggi rispetto ad altre arti?

Il cinema è un’arte di per sé magica perché è costituita da un’immagine in movimento. Contiene quindi più sensazioni al suo interno, capaci di provocare altrettante reazioni negli occhi di chi guarda. A me certi film piacciono per l’esperienza che riescono a comunicarmi, più che per il modo in cui sono girati. La magia comunque resta il più grande punto di forza di quest’arte. Non c’è mai stato nulla di più magico del cinema. Inoltre è un’arte alla portata di tutti, che resta molto più impressa nella memoria rispetto ad altre. Tutti si ricordano il primo film che hanno visto da piccoli, pochi invece saprebbero dirti qual è stata la prima mostra d’arte che sono andati a vedere. Il cinema fa volare le persone, è lo spettacolo più facile da fruire. Lui inizia a raccontarti una storia senza chiederti il permesso, va e tu non puoi far nulla se non rimanere incollato allo schermo. Il cinema è un’arte immediata e anche questo è un grandissimo pregio da non sottovalutare.

-Il cinema è una chiave filosofica per vivere la vita di tutti i giorni. Ma, cosa significa per voi la filosofia?

Caspita, domanda tosta! La filosofia per me è come la politica, è un modo di vivere. Anzi, è come vivo. Nel modo in cui io vivo e mi esprimo faccio della politica ed elaboro idee e concetti che rappresentano la mia vita. Non sono un’intellettuale e non mi definirei tale. Sono una persona “di pancia”. Una persona che ha bisogno di fare le cose per esprimersi. E il festival per me è stato questo: una possibilità per trovare un posto nella società, un ruolo che fosse mio costruendomi un mio spazio e un mio ruolo. Sono una persona che ha sempre bisogno di fare, vivo una filosofia pratica e cerco di applicarla alla vita di tutti i giorni.

 

Sito: www.lagofest.org

FB: facebook.com/lagofilmfest

Programma festival: qui

 

Alvise Wollner

[foto concessa da Viviana Carlet ]