Nella figura “classica” del vampiro, come è stata adattata da Bram Stoker per il suo Dracula dal folklore est-europeo, uno degli elementi che risulta più curioso è indubbiamente la “regola” secondo cui il non-morto può entrare in una casa solo dopo esservi stato invitato. La metafora morale sul male, che mette radici solo quando gli si è volontariamente aperto le porte di mente e anima, è chiara, ma a un lettore smaliziato del ventunesimo secolo la cosa potrebbe comunque fare sorridere: perché dovremmo consapevolmente invitare in casa qualcuno col cipiglio diabolico di un Bela Lugosi o l’aria minacciosa di un Christopher Lee, o tantopiù un bambino cadaverico e svolazzante come quelli de Le notti di Salem di Stephen King, che pure recuperava gli elementi più classici del mito del vampiro?
Che si possa ritenere poco credibile una clausola di questo tipo, però, è quantomeno ironico, specie nell’era digitale e del virtuale. Un vampiro di oggi, con ogni probabilità, non busserebbe più a porte o finestre nel cuore della notte, ma si limiterebbe a lasciare sul monitor lunghissimi messaggi di informativa sulla privacy, che l’ignara (?) vittima farebbe scorrere fino all’ultima riga senza leggere una singola parola, solo per cliccare su “Accetta tutto” e proseguire in santa pace con la propria navigazione virtuale.
A ben pensarci, questo è esattamente quello che succede, quotidianamente, a ogni accesso su un sito internet, a ogni ricerca su Google, a ogni registrazione su un social network. Il vampiro, oggi, non si è estinto, ma darwinianamente si è adattato ai tempi, e invece di sangue umano ha cominciato a nutrirsi di qualcosa di apparentemente più astratto ma altrettanto vitale: di informazioni, i famosi “dati” che tutti vogliono proteggere ma nessuno sa bene cosa siano. Come ai vecchi tempi, però, il vampiro chiede il consenso della propria vittima, non “morde” nessuno senza che gli sia stato dato volontariamente – per quanto superficialmente – accesso a tutte le informazioni di cui ha bisogno per prosperare: chi siamo, quanti anni abbiamo, dove viviamo, cosa mangiamo, di che medicine facciamo uso, in quale palestra andiamo, se frequentiamo cinema, teatri, musei o stadi, chi frequentiamo, cosa leggiamo, quali film o serie guardiamo, come passiamo il nostro tempo libero.
Solo apparentemente queste informazioni sono senza valore: si tratta in realtà di vera e propria moneta di scambio, dati ottenuti gratuitamente e rivenduti a peso d’oro a chi ha modo di monetizzarli; quante volte parliamo con amici o parenti di quanto vorremmo cambiare il vecchio divano in salotto, solo per essere sommersi di pubblicità di mobilifici a ogni nuovo banner che si apre? Di postare sui social una foto del nostro gatto e scoprire infinite nuove marche di croccantini? O di ricevere email da agenzie di viaggi o siti di prenotazione alberghi proprio mentre si stava pensando di organizzare un’uscita di un fine settimana per festeggiare un anniversario o semplicemente per staccare un po’ dal lavoro?
Pezzo dopo pezzo, informazione dopo informazione, la nostra vita viene assorbita da un sistema capillare di osservazione virtuale, raccolta dati e rivendita degli stessi, trasformandoci non in famelici mostri succhiasangue, ma in curiosi ibridi che sono produttori di contenuti e prodotti essi stessi, ingranaggi nella macchina del capitalismo digitale, ormai indissolubilmente legato al capitalismo della sorveglianza, a malapena consapevoli dell’enorme potere che abbiamo dato ad aziende invisibili (e non solo) nel determinare le nostre abitudini e il nostro stile di vita.
Possiamo deridere quanto vogliamo i vari Renfield, Lucy, Mina, ma in fondo non siamo troppo diversi, anzi: loro almeno, al contrario di noi, sapevano chi avevano davanti e chi stavano invitando a entrare. Come se non bastasse, poi, il vampiro stavolta non se ne andrà spontaneamente alle prime luci dell’alba, e non ci sono agli o crocifissi che tengano per tenerlo lontano.
Giacomo Mininni
[Immagine di copertina proveniente dall’archivio dell’autore]
V per vampiro o V per virtuale? gennaio 22nd, 2022Giacomo Mininni
Nell’articolo precedente ho parlato delle emozioni come il fondamento di qualsiasi cultura. Questo tema comprende un aspetto che merita di essere precisato: le emozioni, le relazioni sociali e la cultura cui ho fatto riferimento non sono solo enti astratti, “universi simbolici” come diremo tra qualche riga, ma anche elementi concreti della vita quotidiana.
I sociologi Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann ci aiuteranno ad approfondire l’argomento. Nel saggio La realtà come costruzione sociale1 i due autori definiscono “universo simbolico” ciò che dà coerenza e stabilità alla vita quotidiana. La religione, ad esempio, ci permette di mettere in ordine le nostre gioie e i nostri dolori. Un esempio più calzante, però, sono le emozioni; esse danno senso al caos della nostra interiorità: pensiamo a quando definiamo “felicità” un insieme eterogeneo di sensazioni positive. Anche la cultura può essere interpretata come un universo simbolico: se non esistesse la concezione di riunione, come spiegheremmo il complesso di pratiche che comprende lo stringersi la mano e lo stare seduti intorno a un tavolo?
Oltre agli universi simbolici, Berger e Luckmann si riferiscono alla “vita quotidiana”: i due sociologi affermano che essa si origina nei nostri pensieri e nelle nostre azioni e si arricchisce quando incorporiamo nuove conoscenze. In questo senso le emozioni, le relazioni sociali e la cultura di cui ho parlato nell’articolo precedente non sono solo universi simbolici, ma anche frammenti di vita quotidiana.
Questa precisazione è di fondamentale importanza. Interpretare la cultura solo come un universo simbolico significa riceverla passivamente e ignorare la possibilità di cambiarla.
Pensare che la cultura sia vita quotidiana, invece, significa impiegare le emozioni e le relazioni sociali per migliorare diversi contesti: dall’azienda in cui lavoriamo al comune in cui viviamo, passando per la politica che definisce i nostri diritti e le nostre responsabilità.
Solitamente miglioramenti come questi sono messi in atto tramite processi partecipativi.
Un esempio nell’ambito del lavoro è Se guardi il futuro, lo vedi vicino, un progetto realizzato da Intesa Sanpaolo Vita per gestire le relazioni professionali dopo la fusione di diversi gruppi assicurativi. Esso prevedeva la creazione di un’agenda che rappresentasse l’identità della nuova compagnia. Ciò che ci interessa è che la scrittura di questa agenda ha coinvolto diversi dipendenti.
Progetti come questo partono dalle relazioni sociali per controllare situazioni critiche con umanità, ma essi comportano due rischi: il primo è che siano proposti in modo strumentale, ad esempio per indurre il personale ad accettare le peggiori scelte aziendali; il secondo è che siano sporadici, perciò non riescano a mettere radici nei contesti in cui sono creati.
Per evitare questi rischi è indispensabile ricordare le ragioni per cui realizziamo questi progetti. Se lo facciamo perché crediamo che le emozioni e le relazioni sociali siano fondamentali in qualsiasi ambito, allora dobbiamo realizzarli con continuità.
Non si tratta semplicemente di occuparsi del benessere proprio e altrui. Si tratta di attuare, da quell’istante in poi, una cultura del rispetto per sé e per gli altri.
Stefano Cazzaro
Sono il fondatore della start up culturale Còlere. Credo che la cultura sia un’opportunità per le persone che vogliono migliorare la realtà, qualsiasi realtà. Amo tanto la scrittura quanto l’imprenditoria, perciò studio il content marketing e lo storytelling.
NOTE:
1. P. L. Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, 1997
[Immagine tratta da Google Immagini]
La cultura come vita quotidiana: quali potenzialità? maggio 14th, 2017Ospite
Incontriamo Luca Mercalli a Internazionale di Ferrara, in un’aula universitaria vuota, in attesa che si riempia di giovani e giornalisti desiderosi di imparare, desiderosi di essere coinvolti. Gli elementi che lo contraddistinguono ci sono tutti: il sorriso, la camicia e il papillon; quando parla, si percepisce la passione che lo coinvolge nelle tematiche ambientali, di questo mondo sofferente ed ignorato, ed anche noi, inevitabilmente, ne veniamo subito coinvolte.
Luca Mercalli è un climatologo torinese da molti anni impegnato nella divulgazione delle istanze ecologiche e promotore di una presa di coscienza da parte del singolo verso una riduzione del nostro impatto ambientale sul mondo. Da anni collabora con la RAI per la quale ha condotto nel 2015 il programma Scala Mercalli, mentre dal 2003 che è presente come ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa. È inoltre autore di diversi libri nonché di articoli pubblicati su riviste specializzate e testate più divulgative come La stampa e Repubblica; nel 1993 ha fondato la rivista Nimbus, del quale è direttore.
In questi ultimi anni la sensibilità nei confronti del nostro ecosistema sta aumentando, ma non è ancora abbastanza. Perché a suo parere è così difficile l’instaurarsi di un’etica ambientale che venga percepita in maniera forte dai singoli?
Forse perché ci sono prima di tutto delle attitudini antropologiche da sconfiggere – dico delle attitudini ma forse sono più dei vizi, dei difetti: noi siamo una specie che non è abituata a guardare al lungo periodo, tendiamo ad affrontare i problemi sul cortissimo periodo e solo quelli che sono immediatamente vicino a noi. Quando parliamo di crisi ambientale parliamo invece di un problema globale ed anche gigantesco, rispetto al quale sembra esserci anche un atteggiamento di rimozione dovuto ad un senso di impotenza, anche perché parliamo di problemi che spesso sono rimandati negli effetti a decine di anni dopo e che quindi non vediamo direttamente. Questi sono problemi che storicamente hanno sempre interessato l’uomo; ricorre persino nei classici dell’antichità il fatto di non riuscire a progettare un futuro quando già si vedono i semi del dramma, della tragedia prima: pensiamo soltanto alla figura di Cassandra, condannata a non essere mai creduta pur dicendo la verità, in quanto profeta di sventure. Pur offrendo la possibilità di prevenire i grandi problemi del mondo, l’uomo la sdegna e rifiuta questo avvertimento, preferendo invece il giocattolo del momento: il cavallo di Troia è un dono bello, nuovo, splendente e luccicante come i doni che ci sono oggi nelle vetrine dei negozi, e adesso come allora si preferisce il dono oggi, anche se è truccato, invece che riflettere e andare a vedere dentro quali possono essere i pericoli. Io direi che il consumismo di oggi è il cavallo di Troia e il danno ambientale è il trucco che c’è dentro e che noi non vediamo. Quindi ritengo che ci sia questa fortissima difficoltà da parte dell’individuo ad affrontare la visione progettuale e forse anche un pochino di rinunce o di cambiamenti nelle abitudini per evitare grossi problemi dopo. Questo tipo di attitudine viene poi sfruttato invece dal mercato: esso asseconda queste attitudini e quindi alimenta un circuito senza fine che invece di tendere a risolvere il problema finisce col peggiorarlo.
Si può dunque parlare di etica ambientale, intendendo dunque per essa l’attuazione di una serie di comportamenti etici nei confronti delle tematiche ambientali?
Certo, si parla di etica evidentemente perché già a livello di individuo ci sono delle azioni che potrebbero essere fatte pensando soltanto ciò che è giusto. Pensiamo ad una cosa banale: non buttare i rifiuti nell’ambiente o fare la raccolta differenziata lo riconosciamo come un atto giusto, e in effetti è scientificamente inoppugnabile, non c’è nessuno che possa dire che è un’opinione, è una cosa giusta di per se stessa; eppure noi spesso non lo facciamo e ci rifugiamo dietro mille alibi che possono essere ‘non ho tempo’, ‘sono distratto’, ‘ho cose più importanti da fare’, ‘se lo faccio io però lo devono fare anche gli altri’, ‘se non lo fanno gli altri perché io devo essere il primo’… cioè si cerca ogni genere di piccolo alibi per non fare una cosa per altro assolutamente semplice, figuriamoci quelle complesse.
Molto spesso tuttavia l’informazione non risulta adeguata né sufficiente rispetto alle tematiche che stiamo discutendo, non solo riguardo la possibile attuazione di determinati comportamenti, ma difetta anche di chiarezza circa la questione stessa, lo stato attuale della natura, del clima e dell’ambiente in senso lato. Se a ciò aggiungiamo una mancata ricerca e presa di coscienza da parte del singolo, la situazione non sembra auspicare un cambio di mentalità. Quali sono gli interventi possibili a livello d’informazione?
L’informazione ha ignorato questi problemi per lungo tempo e spesso li ha addirittura minimizzati, mettendoli anche in dubbio in modo però non costruttivo; ancora oggi li tratta come un elemento marginale della vita sociale, mettendo piuttosto in primo luogo il mercato, l’economia, i rapporti tra gli uomini… insomma, i piccoli litigi della politica e della vita sociale, piuttosto che indagare il nostro rapporto di specie con la biosfera e con il resto del pianeta, che è condizionato da leggi fisiche e non dal nostro volere. Questo è già un grave vizio iniziale che impedisce la formazione della coscienza nelle persone; teniamo anche in mente che i problemi ambientali sono complessi anche da un punto di vista scientifico, quindi dovremmo dare un surplus di informazioni invece che di meno. È particolarmente importante riuscire a comunicare alle persone i rischi che corriamo e il fatto che sono un po’ a scoppio ritardato, ma che poi sono irreversibili, quindi se non li correggiamo oggi, i danni poi saranno drammatici; spesso invece questo viene visto come un ‘guastare la festa’, oltre all’andare in conflitto con un certo tipo di economia.
Poca informazione vuol dire quindi poca consapevolezza da parte delle persone e quindi una scarsissima incisività negli interventi che dovrebbero risolvere questi problemi. Gli anni passano, tutte queste cose si sapevano già 30-40 anni fa e stiamo perdendo quindi un tempo prezioso.
Nel suo libro Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza… e forse più felicità (Chiarelettere, 2011) lei sottolinea come il cambiamento può essere possibile, se questo parte dal nostro piccolo, dalle nostre case… Racconta quindi il suo cammino verso la resilienza, ovvero la capacità reattiva delle persone nei confronti delle avversità. Come fare arrivare più efficacemente questo messaggio nelle azioni di vita quotidiana?
La cultura è una delle vie, ma sappiamo che è lenta nel dare gli effetti e purtroppo non interessa tutta la popolazione: la cultura infatti interessa chi è recettivo, mentre c’è una grande parte di popolazione che non è a contatto con le fonti culturali perché si auto-esclude, considerando che oggi grazie a internet avremmo la possibilità di accedere a tutta la cultura dell’umanità, ma se la respingo, se non leggo, se non mi documento, chiaramente ne sono escluso. Ci sono poi anche coloro che pur conoscendo questi problemi li rifiutano a priori per un meccanismo ideologico che può essere di arroganza personale. Quindi io credo che sia importante che ci siano percorsi individuali che creino dei buoni esempi per tutti, ma questi devono essere percepiti poi parallelamente dalla politica di modo che li trasformi in prassi, in procedure che vengono normate: solo grazie alla normativa, e quindi al diritto e alla legislazione, questi processi possono investire poi tutta la popolazione. Bisogna quindi partire dalle consapevolezze individuali di piccole isole d’avanguardia che poi però dovrebbero diventare la prassi di giurisprudenza che realizzi una buona legge, che dica per esempio: “adesso la raccolta differenziata la fate tutti, perché se la fanno loro la potete fare anche voi”. Purtroppo questo raramente succede.
Buona volontà individuale e azione istituzionale, quindi. Quanto incidono a livello culturale le politiche e le governance degli Stati? Pensiamo per esempio agli accordi di Parigi che recentemente sono stati ratificati anche da Stati Uniti e Cina, che sono i più grandi produttori d’inquinamento al mondo1. Quale influsso hanno dunque sul comportamento dei cittadini questi accordi, che forse vengono percepiti anche un po’ distanti?
Sono distanti proprio perché al momento non sono ancora stati tradotti in pratiche quotidiane, e questo per il momento è ciò che mette in dubbio la loro efficacia: un pezzo di carta firmata non è ancora una soluzione di un problema, un problema che passa invece per delle scelte estremamente concrete in termini di risparmi energetico, di uso di combustibili diversi, di energie rinnovabili, di economia circolare, di economia sull’uso delle risorse naturali, di riciclo dei rifiuti. Quindi bene, bicchiere mezzo pieno o forse soltanto un passettino avanti rispetto a più di vent’anni precedenti di vuote chiacchiere; sicuramente ci vuole, è un passaggio formale, ma poi ci vuole quello sostanziale e quindi staremo a vedere se i singoli governi di tutto il mondo saranno capaci di tradurre gli intenti generali dell’accordo di Parigi in fatti concreti che poi investano la vita quotidiana delle persone. La risposta, purtroppo, non gliela so dare.
C’è quindi una lontananza che è soltanto momentanea tra questi accordi e la vita del singolo, nel senso che nel momento in cui un governo accetta l’accordo di Parigi immediatamente deve legiferare al proprio interno perché questi obiettivi vengano raggiunti. Bisognerà vedere se ci sarà la forza di farlo e chi sarà il controllore, perché l’accordo per ora è impostato sulla buona volontà, ma bisogna che ci sia qualcuno che verificherà questi dati.
Prima abbiamo parlato di etica ambientale: qual è il ruolo della filosofia in tutto questo?
Il ruolo della filosofia secondo me è importantissimo e fondamentale, è un ruolo che deve essere riconquistato perché la filosofia è un po’ assente nella nostra vita di oggi, forse era più presente nel passato. Oggi abbiamo bisogno di una filosofia ambientale, una ‘filosofia della crisi ecologica’, che è anche il titolo di un pamphlet uscito nel 1991 del filosofo Vittorio Hösle, che nonostante non abbia più scritto sull’argomento, impostava benissimo la necessità di costruire una filosofia che allontanasse il rischio di collasso dell’umanità. Quindi la posta in gioco è elevatissima, è gigantesca, è la nostra permanenza sulla Terra con un ragionevole benessere per i secoli e per i millenni futuri. E’ necessario che molti più filosofi si riapproprino del ruolo di indicatore della via da percorrere che storicamente la filosofia ha avuto, ma devono anche scendere con i piedi per terra. Io conosco un po’ di filosofia (buona filosofia) che è stata fatta su questi argomenti, penso ad Hans Jonas in Germania, con il principio di responsabilità, ma sono piccole isole di riflessione che non hanno per ora prodotto una presa di coscienza intanto dei filosofi, e poi della società. Ci sono ancora tantissimi filosofi che pensano che questi argomenti non siano importanti e non debbano essere oggetto della loro riflessione, perdendo la loro vita a far ‘spaccapelismo’ su argomenti assolutamente ininfluenti per il futuro dell’umanità.
Giorgia Favero & Elena Casagrande
NOTE:
1. Stati Uniti e Cina hanno ratificato gli accordi di Parigi il 3 settembre 2016; l’Unione Europea li ha ratificati (come Organizzazione Internazionale Governativa) il 4 ottobre 2016 e successivamente anche l’Italia, il 27 ottobre.
Intervista a Luca Mercalli: “Il consumismo è il nostro cavallo di Troia” luglio 20th, 2017lachiavedisophia