V per vampiro o V per virtuale?

Nella figura “classica” del vampiro, come è stata adattata da Bram Stoker per il suo Dracula dal folklore est-europeo, uno degli elementi che risulta più curioso è indubbiamente la “regola” secondo cui il non-morto può entrare in una casa solo dopo esservi stato invitato.
La metafora morale sul male, che mette radici solo quando gli si è volontariamente aperto le porte di mente e anima, è chiara, ma a un lettore smaliziato del ventunesimo secolo la cosa potrebbe comunque fare sorridere: perché dovremmo consapevolmente invitare in casa qualcuno col cipiglio diabolico di un Bela Lugosi o l’aria minacciosa di un Christopher Lee, o tantopiù un bambino cadaverico e svolazzante come quelli de Le notti di Salem di Stephen King, che pure recuperava gli elementi più classici del mito del vampiro?

Che si possa ritenere poco credibile una clausola di questo tipo, però, è quantomeno ironico, specie nell’era digitale e del virtuale. Un vampiro di oggi, con ogni probabilità, non busserebbe più a porte o finestre nel cuore della notte, ma si limiterebbe a lasciare sul monitor lunghissimi messaggi di informativa sulla privacy, che l’ignara (?) vittima farebbe scorrere fino all’ultima riga senza leggere una singola parola, solo per cliccare su “Accetta tutto” e proseguire in santa pace con la propria navigazione virtuale.

A ben pensarci, questo è esattamente quello che succede, quotidianamente, a ogni accesso su un sito internet, a ogni ricerca su Google, a ogni registrazione su un social network. Il vampiro, oggi, non si è estinto, ma darwinianamente si è adattato ai tempi, e invece di sangue umano ha cominciato a nutrirsi di qualcosa di apparentemente più astratto ma altrettanto vitale: di informazioni, i famosi “dati” che tutti vogliono proteggere ma nessuno sa bene cosa siano. Come ai vecchi tempi, però, il vampiro chiede il consenso della propria vittima, non “morde” nessuno senza che gli sia stato dato volontariamente – per quanto superficialmente – accesso a tutte le informazioni di cui ha bisogno per prosperare: chi siamo, quanti anni abbiamo, dove viviamo, cosa mangiamo, di che medicine facciamo uso, in quale palestra andiamo, se frequentiamo cinema, teatri, musei o stadi, chi frequentiamo, cosa leggiamo, quali film o serie guardiamo, come passiamo il nostro tempo libero.

Solo apparentemente queste informazioni sono senza valore: si tratta in realtà di vera e propria moneta di scambio, dati ottenuti gratuitamente e rivenduti a peso d’oro a chi ha modo di monetizzarli; quante volte parliamo con amici o parenti di quanto vorremmo cambiare il vecchio divano in salotto, solo per essere sommersi di pubblicità di mobilifici a ogni nuovo banner che si apre? Di postare sui social una foto del nostro gatto e scoprire infinite nuove marche di croccantini? O di ricevere email da agenzie di viaggi o siti di prenotazione alberghi proprio mentre si stava pensando di organizzare un’uscita di un fine settimana per festeggiare un anniversario o semplicemente per staccare un po’ dal lavoro?

Pezzo dopo pezzo, informazione dopo informazione, la nostra vita viene assorbita da un sistema capillare di osservazione virtuale, raccolta dati e rivendita degli stessi, trasformandoci non in famelici mostri succhiasangue, ma in curiosi ibridi che sono produttori di contenuti e prodotti essi stessi, ingranaggi nella macchina del capitalismo digitale, ormai indissolubilmente legato al capitalismo della sorveglianza, a malapena consapevoli dell’enorme potere che abbiamo dato ad aziende invisibili (e non solo) nel determinare le nostre abitudini e il nostro stile di vita.

Possiamo deridere quanto vogliamo i vari Renfield, Lucy, Mina, ma in fondo non siamo troppo diversi, anzi: loro almeno, al contrario di noi, sapevano chi avevano davanti e chi stavano invitando a entrare. Come se non bastasse, poi, il vampiro stavolta non se ne andrà spontaneamente alle prime luci dell’alba, e non ci sono agli o crocifissi che tengano per tenerlo lontano.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine di copertina proveniente dall’archivio dell’autore]

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Un mondo di Perfetti Sconosciuti: la solitudine del contemporaneo

Quanto conosciamo l’altro? Siamo davvero convinti di sapere tutto sul nostro partner e sui nostri amici più intimi?
Perfetti sconosciuti, film del 2016 diretto da Paolo Genovese, rivela ciò che troveremmo se, durante una cena, tutti mostrassero il contenuto del proprio cellulare, abbattendo le barriere della privacy e condividendo davvero la propria vita. Ne emergerebbe che nessuno è realmente candido nella coscienza, chi per tradimenti, chi per paura di essere giudicato, altri per mancata condivisione delle proprie idee, insomma ognuno mostrerebbe la verità su di sé: la presenza di piccoli o grandi segreti, dei quali nemmeno chi gli è più vicino è a conoscenza. Una sorta di dramma esistenziale, dunque, nel quale lo spettatore facilmente riesce ad identificarsi, guardando sotto la luce della verità la sua vita quotidiana l’ipocrisia che spesso lo circonda e di cui egli stesso si riveste per apparire in un certo modo difronte al prossimo.

«Siamo tutti frangibili» dirà Rocco, forse il più saggio del gruppo, alla fine del film, mostrando la fragilità dell’individuo attuale, che ha affidato la propria vita alla sim di un cellulare, pensando in questo modo di essere protetto da qualsiasi sguardo indiscreto. Ma in fondo nessuno è forte come crede, in quanto condivide davvero poco con i propri amici o il proprio partner e preferisce comunicare attraverso un dispositivo tecnologico piuttosto di vivere a fondo le relazioni. «Allora se ci parli trenta minuti al giorno sei innamorato» afferma Bianca con ingenuità, rivelando come ormai le nostre conversazioni vere sono ridotte davvero a poca cosa, in mezzo agli impegni giornalieri, tanto che trenta minuti di confronto sarebbero addirittura lo specchio dell’amore.

In Perfetti sconosciuti Paolo Genovese mette insomma in scena il dramma dell’individuo contemporaneo, occupato più ad apparire che ad essere, convinto il più delle volte di non aver nulla da nascondere, per poi scoprire di essere drammaticamente solo e attorniato da “perfetti sconosciuti”. Si tratta di un’umanità disumana, magistralmente espressa in maniera caricaturale nel film, che lascia l’amaro in bocca a chi, finita la pellicola, non può che guardare con compassionevole partecipazione i sette protagonisti dell’opera.

Siamo dunque destinati a rimanere in questo mondo di inconoscibilità e falsità? Sotto alcuni aspetti si, come si può intuire dalla conclusione del film, che riporta ognuno dentro alla torre d’avorio dell’Io, ignaro della propria solitudine e di quella che lo circonda. Tuttavia, uno spiraglio di luce lo fornisce sempre Rocco, quando, parlando con dolcezza alla moglie, mostra la remota possibilità di un dialogo vero, pregno di umanità:

«Non credo che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un passo indietro».

In poche parole, forse dovremmo cercare di ascoltare con umiltà, di condividere e aggiustare finché è possibile, di accettare quando non lo è più, perché questa è la chiave per vivere in modo autentico la nostra relazione.
In fondo, l’invito di Perfetti sconosciuti attraverso la voce di Rocco (un Marco Giallini che guarda con pragmatismo alla propria vita) è di essere il più possibile sinceri, perché costruire dei muri che poi diventano voragini non può che allontanare e spingere verso un mondo di isolamento.

Accogliamo dunque l’altro, cercando di ascoltare davvero le esigenze di chi ci sta attorno.

 

Anna Tieppo

 

[Immagine fermo immagine dal film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti]

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Ritornare a Platone. Per combattere il cyberbullismo

Con i miei studenti liceali faccio, di solito, un piccolo esperimento: chiedo loro di fare una lista di cinque cose, dalla più reale alla meno reale. Lo faccio un po’ per spiegare i limiti di certa filosofia contemporanea, persa nel dibattito (a tratti ozioso) tra ciò che è reale e ciò che non lo sarebbe, mostrando invece che la questione del reale riguarda intensità e veri e propri ordini di grandezza.

Dalle loro liste emerge spesso un dato comune. I ragazzi mettono agli ultimi posti, nella loro scala delle cose reali, sentimenti e social media.

Gli esperti, e chi a vario titolo si sta giustamente battendo per un’educazione digitale, sostengono che i ragazzi non comprendono quanto veramente accade in rete, sui social. Per tanti di loro, infatti, virtuale non sarebbe reale. E le mie liste lo confermerebbero. I ragazzi possono essere molto aggressivi in rete (ma non solo i ragazzi), perpetuare le loro violenze e credere nello stesso tempo di non star facendo qualcosa di reale, di non star ferendo o tormentando altre persone. Ma non potrebbero sbagliarsi di più.

Su questo punto psicologi, sociologi, esperti dell’educazione hanno certamente ragione. Tuttavia, quando dalla diagnosi si passa alla cura, le cose non vanno certo meglio. La cura – ciò che gli esperti dicono – sarebbe far capire che virtuale sarebbe reale. Non basta, ma soprattutto, messo in questi termini, il rimedio sarebbe ancora più dannoso.

Prendiamo, ad esempio, il primo punto del “Manifesto della comunicazione non ostile”, risultato degli incontri tenutisi con degli esperti il 17 e il 18 febbraio 2017 a Trieste. Il punto del manifesto recita: “Virtuale è reale. Dico o scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”.

Si comprende l’analisi che c’è dietro questo punto, per certi versi condivisibile. Le relazioni sui social sono caratterizzate da una maggiore disinibizione, perché avvengono attraverso gli schermi, e per questo molte persone timide o introverse quando comunicano in rete appaiono irriconoscibili. Il che spiega anche la diffusione di un fenomeno come il cyberbullismo, che ha reso bullo anche chi in passato probabilmente non lo sarebbe stato o non avrebbe potuto esserlo.

Il bullo tradizionale aveva spesso vantaggi fisici e relazionali che le sue vittime difficilmente potevano vincere: era più forte, era spalleggiato dal suo gruppo di amici, era aggressivo, con scarsa empatia per la sua vittima. Con il cyberbullismo la scena cambia radicalmente: i social media possono dare la possibilità di compiere atti di bullismo anche a chi non avrebbe mai potuto e con conseguenze ben più gravi, come testimoniano i molti casi di suicidio tra gli adolescenti e non solo. Ma l’invito a dire in rete solo ciò che si ha il coraggio di dire di persona non mi migliora certo la situazione.

Ciò che si dice di persona ha meno effetti o conseguenze rispetto alla comunicazione sui social. Ciò che viene chiamato “virtuale”, soprattutto dopo l’avvento di social network come Facebook, è, sotto molti punti di vista, più reale di ciò che viene definito reale. Se un ragazzo insulta un suo compagno in rete, magari proprio come farebbe in classe, non considera la radicale differenza: in rete, su Facebook ad esempio, l’insulto diventerebbe diffamazione aggravata.

La comunicazione in rete è più persistente e più potente (e quindi più persecutoria) di quella, più o meno evanescente, che può esserci faccia a faccia. Quindi virtuale non è reale. Appartiene a un livello di “realtà” superiore. Le chiacchiere in un bar non hanno la stessa realtà, giuridica ad esempio, di un documento scritto e diffuso, di una legge approvata e così via.

L’esperimento delle liste che faccio con i ragazzi ha, pertanto, un obiettivo preciso: capovolgere la gerarchia, l’ordine di grandezza di ciò che considerano meno reale, senza fare l’errore di equiparare (come si fa nel Manifesto citato) virtuale e reale. Dalla loro equiparazione nascono infatti diversi problemi, soprattutto nei più giovani. Pensiamo solo all’incremento dei disturbi del comportamento alimentare, che tra le concause può avere proprio un certo culto dell’immagine favorito dall’uso dei social.

Al secondo punto del Manifesto citato si afferma, ancora una volta pericolosamente e in linea con l’equiparazione tra reale e virtuale, che “si è ciò che si comunica”, ma nessun essere umano coincide con le sue immagini, con le sue foto, con le sue parole. Lo sapeva benissimo, del resto, un grande filosofo dell’antichità, Platone, che nelle sue opere si è sempre scagliato contro la soppressione della differenza tra corpi e immagini, tra voce e scrittura. Tutto è reale, ma non è reale allo stesso modo. E oggi immagini e social network possiedono un’intensità tale da meritare tutta la nostra attenzione.

 

Tommaso Ariemma

 

(Il seguente testo è stato pubblicato all’interno del volume Pugni chiusi. Bullismo: punti di vista, non-storie, impressioni, significati. Soluzioni? Un contributo a cambiare, per cambiare, a cura di E. A. Gensini e  L. Santoli, Edizioni Dell’Assemblea 2018)

Se volete approfondire il lavoro del professore, a questo link potete leggere l’intervista, molto interessante, realizzata dal nostro autore Giacomo Dall’Ava al professor Ariemma. Buona lettura!

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

Connessioni virtuali o incontro umano?

Il tempo iperteconologico sembra voler sostituire sempre più le relazioni umane con delle connessioni virtuali, che sono espressioni marcate del dominio dell’intelligenza artificiale sull’intelligenza umana. In un contesto che esalta e incentiva questo genere di connessioni digitali, si va via via smarrendo la vera relazione umana.

Ad uno sguardo attento, profondo e non superficiale appare chiaro che, se da un lato la tecnologia digitale permette uno scambio d’informazioni inimmaginabile sino a qualche anno fa e imprescindibile per molti aspetti relativi alla qualità della nostra esistenza, è altresì vero che pur sempre di trasmissione di informazioni si tratta e non invece di relazioni. La relazione è un rapporto umano, un incontro fatto di presenza, di carne e fiato, di sguardi, profumi, calore e passione. Al centro vi è l’incontro, che dilata gli orizzonti di senso della nostra esistenza stimolando il cambiamento, aprendoci alla creatività, all’esplosione di idee per la costruzione di futuro. Diversamente, lo scambio d’informazioni computazionali che avviene ormai ordinariamente tramite chat, videochiamate, siti d’incontri, social network e social media è pressoché privo delle peculiarità che caratterizzano la dimensione generativa del vero incontro umano, fatto di tempi, di attese, delusioni, fatiche, gioie, sogni, speranze.

L’incontro reale, inteso come fondamento esistenziale, ci è stato trasmesso da grandi uomini, maestri di vita e di pensiero, quali Socrate e Gesù di Nazareth, solo per citarne alcuni. Costoro facevano dell’incontro umano la via preferenziale per fare comunità, per ricercare la giustizia, il bene, il bello e la verità. Costoro amavano passeggiare intrattenendosi con gli altri esseri umani facendo silenzio, ascoltando, parlando, confrontandosi insieme, accettando punti di vista differenti dai propri, accogliendo pensieri, gioie e fatiche, al fine di costruire significati esistenziali profondi.

Non dimentichiamo la gioia dell’incontro reale, l’apertura all’altro come possibilità di crescita e conoscenza di se stessi, proprio attraverso l’altro. Queste sono dimensioni imprescindibili per poter superare la reificazione della relazione con l’altro operata dalle connessioni virtuali e sperare in un nuovo umanesimo dell’incontro reale. In proposito ricordiamo le profonde e sfavillanti parole scritte dal filosofo Martin Buber rispetto all’incontro umano: «Se sto di fronte a un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose […] ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce»1.

La tecnologia è sicuramente un mezzo formidabile e straordinario, ma deve restare tale, non diventare un fine sostituendosi all’insostituibile e cioè alle relazioni umane fatte di corpi, sentimenti, gesti e pensieri che s’incontrano e s’intersecano nella relazione viva e vitale fra i singoli. Le conseguenze di questo modus vivendi che si sta diffondendo massivamente sono lampanti ad uno sguardo etico, psicologico e antropologico: chiusura in se stessi, che può giungere a vere proprie sindromi che conducono all’isolamento nella stanza della propria abitazione, sino alla paura dell’altro e del mondo. È questa la sindrome, non più solo giapponese, ma ormai universale che prende il nome di hikikomori. Su questa via la vita si isterilisce, si coagula in un deserto emozionale e cognitivo spaventoso. Per arrestare questa desertificazione ontologica dell’uomo-monade, è decisivo che ciascuno rifletta, responsabilmente, sulle scelte che quotidianamente opera rispetto all’uso delle connessioni tecnologiche che rischiano di frapporsi nel cammino personale e relazionale con gli altri significativi che ci circondano, fino ad intaccare il nostro rapporto con la vita e tutta la realtà esterna.

In questo senso, difficilmente possono essere d’aiuto alcuni dei moderni professionisti della relazione d’aiuto che promettono e consentono sedute di counseling e psicoterapia tramite videochiamate e dispositivi virtuali, poiché altrettanto piegati sotto la logica imperante delle connessioni digitali. Proponendo e permettendo colloqui on-line, alcuni di questi professionisti, che dovrebbero far leva sui fondamenti della relazione umana come opportunità per il cambiamento e la cura, cadono in una contraddizione in termini. Invero, così facendo, svuotano di senso e valore quello che dovrebbe essere lo spazio e il tempo per eccellenza di ascolto, comprensione empatica e crescita personale che caratterizzano un incontro umano che voglia definirsi nutriente e generativo nel senso autentico del termine.

In questo panorama talvolta sconfortante e massificato, è utile ripartire dall’educazione degli adulti all’uso ponderato, equilibrato e critico dei nuovi mezzi di comunicazione e connessione, affinché possano diventare esempi edificanti per le generazioni future di un ritorno a relazioni umane i cui componenti siano davvero menti e corpi, spiriti e presenze, non solamente click del mouse o tocchi sullo schermo di un tablet o di uno smartphone.

Quanto scritto non intende condannare tout court le nuove tecnologie e le importantissime opportunità ch’esse offrono, intende piuttosto invitare a riflettere criticamente circa le possibili conseguenze di un uso smodato e squilibrato di queste recenti frontiere che spesso tendono a sostituirsi a quanto di più bello e meraviglioso la vita abbia da offrirci: l’incontro autentico con l’altro da noi che si nutre e abbisogna, anche e soprattutto, della presenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. di A. M. Pastore, Edizioni San Paolo, Milano 20143, p. 64.

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I sofisti e i social network

Circa 2500 anni fa, in quel lembo di terra bagnato dal mediterraneo famoso per aver dato alla luce i padri della filosofia occidentale, si aggirava una particolare risma di intellettuali. Da molti riconosciuti come sapienti, eppure non da tutti stimati, per via delle idee che professavano e del loro rapporto tutto particolare con la ricerca e con la condivisione della conoscenza.

Erano chiamati sofisti.

Si proponevano come maestri a pagamento, e insegnavano l’arte di ragionare.
“Sofista” era un termine che stava spesso contrapposto a quello di “filosofo”: quest’ultimo infatti praticava il suo amore del sapere attraverso la ricerca della verità. Questa ricerca per i sofisti era del tutto vana. Vana dato che, a detta loro, non c’è nessuna verità da scoprire. Nessuna conoscenza certa, solo prospettive soggettive, ad ognuno la sua. Il mio parere, il tuo, il suo. Nessuno più vero degli altri. Tante verità quante sono le opinioni.

La parola, ritenuta dai filosofi il veicolo supremo del Logos, non era più riconosciuta come portatrice di un sapere affidabile e univoco. Ma non per era questo ritenuta meno potente. Anzi, al contrario: senza una verità esteriore a fare da garante alle affermazioni, l’argomentazione più forte, più convincente, era quella presentata nella maniera più persuasiva. Nelle dispute di ragionamento avrebbe avuto la meglio il discorso più seducente e ammaliante, capace di irretire la mente e il cuore degli ascoltatori.
La retorica, l’arte della parola utile alla persuasione, era quindi al centro dei loro insegnamenti. E i sofisti si proponevano come maestri insuperabili. A dispetto della logica, e con buona pace del principio di non contraddizione, affermavano che avrebbero potuto convincere una persona di una tesi, come pure del suo contrario.

Proprio nell’antica Grecia in cui il Logos aveva potuto ergersi alto e indicare la via per la storia del pensiero, dalla proiezione della sua ombra altrettanto lunga è fiorita l’anti-logica dei sofisti.

2500 anni dopo, oggi, si parla di era dell’informazione. L’informazione non è cosa nuova. Ciò che è del tutto contemporaneo e originale è la maniera travolgente e capillare con cui essa si può diffondere. E parallelamente, dare un’occasione potentissima al dilagare della dis-informazione.
Scorrendo le bacheche di Facebook, attraversando i titoli dei risultati di una ricerca fatta su Google, parrebbe che l’eredità dei sofisti sia stata raccolta, e sviluppata in nuove forme, in armonia con i tempi che corrono.
Fake news, bufale. Senza cura per logica e coerenza.
Ai tempi dei sofisti era la parola lo strumento attraverso cui esercitare il potere del convincimento, il mezzo che agiva sulle menti e di conseguenza sulle azioni, inesorabile come un veleno debilitante o come un farmaco ristoratore.
Le elaborate argomentazioni appaiono superate se si pensa alla nostra quotidianità. Più che dimostrare, basta mostrare: qualche immagine, un titolo che grida, un’etichetta risoluta. E poi è sufficiente condividere, passare ad altri l’informazione senza controllare, e sarà la diffusione di un messaggio a corroborare l’illusione della sua realtà.

“Menare per il naso come una bufala” è l’espressione che secondo la Crusca darebbe l’origine al termine “Bufala”, vale a dire farsi seguire da qualcuno trascinandolo per l’anello attaccato al naso, proprio come accade per i bovini. Cascare nell’inganno senza darsene conto.
Per quanto i sofisti rinunciassero ad una verità assoluta, conservavano ciò nonostante un’altra consapevolezza, che si può riassumere nell’espressione: “l’uomo è misura di tutte le cose”.  È uno dei loro slogan più famosi: significa che “là fuori” non c’è nessun riferimento che ci dà la garanzia e la certezza per le nostre credenze. Quello che affermiamo, dipende da noi.
Calato nella nostra quotidianità, è un po’ come dire che ognuno può essere responsabile di ciò a cui crede, e di ciò che racconta agli altri.

Prendendo ispirazione da questo aforisma, possiamo fare un passo in più: nell’assenza di una verità evidente e immediata, possiamo scegliere. Subire passivamente l’informazione che ci capita, o diventare attivi protagonisti del nostro sapere, radicandolo il più possibile in quelle fonti che perlomeno hanno l’intenzione di evitare la superficialità o l’inganno.

La formazione scolastica ci allena ad assorbire il sapere che ci viene trasmesso. A dire di “sì” ed accogliere quello che ci raccontano i libri e i professori. È faticoso a volte, ma necessario per allargare i nostri orizzonti e dare una realtà più ampia al mondo in cui viviamo.
Ma questa capacità di abbracciare positivamente nuova conoscenza non basta più. È sempre più urgente sviluppare un’altra abitudine: quella di dire “no”. E anche: “Aspetta un attimo”. Per darsi il tempo per esercitare un sano senso del dubbio, e dare sfogo al nostro spirito critico.

Come i sofisti, essere consapevoli di quanto può essere ingannevole la trasmissione del sapere. Come i filosofi, amarlo tanto da avere la pazienza di approfondire prima di diffonderlo.

Matteo Villa

P.S.: Ci vuole gusto per smascherare un inganno, come pure per crearne uno irresistibile.
Ecco un raggiro degno di un sofista 2.0: link.

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Occidentali’s Karma: una lettura del tempo presente

L’ultima serata del festival di Sanremo ha celebrato la vittoria del brano Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani. Sin da quel momento la canzone ha cominciato ad essere trasmessa in moltissime radio, celebrata in televisione e condivisa sui social network. Il ritmo travolgente e i passi che la caratterizzano l’hanno fatta divenire un vero e proprio tormentone. Una di quelle melodie che appena ci entrano in testa a fatica ci abbandonano.

Il successo di questa canzone e dell’uso che ne viene fatto sembra esclusivamente legato alle poc’anzi citate peculiarità di ritmo, passi e melodia. Tuttavia, a colpire l’attenzione di coloro che si occupano di pensiero e di esseri umani, non sono solamente queste caratteristiche, quanto piuttosto le parole che compongono il testo. Ponendo attenzione al brano, infatti, è possibile scorgere una lettura lucida e profonda del nostro tempo. Il presente della civiltà occidentale risulta infatti caratterizzato da un vuoto di senso che cerchiamo di colmare con ogni mezzo, senza renderci conto che riempiendolo in modo vago e superficiale lo destituiamo ancor di più del proprio senso. Ne è un esempio la rincorsa superficiale alle filosofie orientali («lezioni di Nirvana, c’è il Buddha in fila indiana») che, come affermava già alla fine del secolo scorso Francesco Guccini «da noi nascondono soltanto un vuoto di pensiero». Le religioni orientali, vendute e usufruite come pillole per medicare le ferite dell’anima, estrapolate dal profondo percorso interiore che esse richiederebbero, vengono banalizzate nella loro profondità, saggezza e spiritualità.

Seguendo il brano di Gabbani, è poi possibile evidenziare un altro tratto della nostra civiltà, vale a dire la cultura di massa («la folla grida un mantra»). Ogni aspetto dell’esistenza risulta massificato, ciascuno fa ciò che fanno gli altri, desidera ciò che gli altri desiderano. Questo è il conformismo della nostra epoca che ci rende simili a degli automi monodimensionali, tesi al consumo di ogni aspetto della vita, dal corpo alla sessualità, dal cibo alla ricerca del piacere che diventa ostacolo a se stesso. Ed è proprio qui che «l’evoluzione inciampa».

Altro aspetto sociale, emergente nel testo, riguarda la diffidenza e la paura dell’altro («mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili»). La nostra cultura fa dell’altro uno scarto e non una risorsa, senza capire che la gioia di vivere si celebra proprio nell’incontro con l’altro da noi. Il prossimo, il più vicino. Una società, la nostra, che inneggia all’egocentrismo, dimenticando che l’uomo è un animale sociale e politico, che per poter vivere ha bisogno dell’altro e di tutto ciò che da questa relazione deriva: riconoscimento, attenzione, cura, partecipazione, empatia, affetto, amicizia, amore. Dimensioni che caratterizzano il fondamento ontologico dell’umano e che nessun prestigio sociale, nessuna affermazione politica o nessun tipo di denaro, possono sostituire.

Altro tratto tipico del nostro tempo è, per Gabbani, l’umanità virtuale. Oggi infatti internet e i social network sembrano sostituire i veri rapporti umani, che non possono nutrirsi di virtualità, ma che spesso vengono costretti in questa condizione dall’imperio della tecnica e della tecnologia. Diversamente dall’ideologia vigente, le autentiche relazioni umane si nutrono  di incontri, parole, chimica degli sguardi, carne e fiato. Mentre l’umanità virtuale si nutre di apparenza, non di sostanza, di avere e non di essere. Oggi infatti, ciò che la società impone come condizione esistenziale necessaria è il possesso, l’immagine stereotipata di corpi perfetti e carriere di successo, lusso, sfarzi ed eccessi. Indicatori di una “bella vita”. Ma, canta Gabbani, è proprio quando «la vita si distrae», si dirige verso l’effimero, il vuoto e l’eccesso che «cadono gli uomini». Frustrando la volontà di significato e abdicando il pensiero autonomo essi vengono meno rispetto alla propria essenza. L’uomo infatti è animato dalla volontà di cercare e trovare un senso alla propria vita e nel momento in cui si adagia al già dato, al vigente, dimentica la propria essenza e smarrisce l’orizzonte della bellezza che, già per Platone, era la strada maestra verso la verità.

Già nel 1486, Pico della Mirandola nell’Oratio de hominis dignitate, affermava che all’uomo viene data la più grande delle libertà, quella di scegliere se vivere un’esistenza alla stregua delle bestie o se elevarsi a dimensioni superiori. L’uomo può scegliere se orientarsi verso la “bella vita”, fatta di istinti, superficialità, effimero, vuoti colmati con banalità e apparenza oppure orientarsi verso una vita bella condotta all’insegna dell’insaziabile ricerca dell’infinito e della bellezza celati nell’essenzialità di ogni minuscolo, ma preziosissimo, aspetto dell’esistenza.

La cultura e il pensiero sono i vettori per cambiare lo sguardo su noi stessi e sul mondo, per penetrare il mistero della nostra esistenza, per guardarlo con gli occhi della meraviglia che ci invita alla riflessione e all’adesione ai veri valori che possono dare senso alla vita. Infine l’educazione estetica, l’educazione alla bellezza, che come affermava Schiller «dovrebbe poter presentarsi come una necessaria condizione dell’umanità». Solo la bellezza infatti permette di elevarsi al di sopra del vuoto dello status quo, che il testo del cantautore toscano ha tragicamente evidenziato.

«La scimmia si rialza» conclude con fiducia Gabbani. È nelle possibilità dell’uomo infatti riemergere dalle ceneri che egli stesso ha creato, ma questo dipende dalle scelte che ogni singolo compie quotidianamente. L’uomo può elevarsi, oppure continuare a vivere come una “scimmia nuda”, un animale (poco) evoluto. A coloro che non si elevano, che rinunciano ad essere uomini, che si compiacciono di essere semplicemente scimmie nude o bipedi implumi, Schiller ricorda: «colui che non osa elevarsi al di sopra della realtà non conquisterà mai la verità».

 

Alessandro Tonon

 

[immagine tratta dal video musicale]

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Il costo psico-sociale del progresso tecnologico

Questa riflessione nasce dopo la visione delle prime puntate di Black Mirror, una serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol che vi consiglio di guardare se siete pronti a mettere in discussione tutto il mondo che vi circonda.
Il filo conduttore di ogni episodio sembra riguardare il progresso tecnologico, la dipendenza da esso e i danni collaterali provocati alla razza umana. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un’idea paradossale ha in qualche modo destabilizzato la società e i sentimenti umani. In altre parole, parliamo di una serie-tv che mostra una visione futura della società umana basata sugli attuali trend tecnologici di socializzazione virtuale, interazione, connessione costante e gamification.

Ciò che emerge è uno scenario a dir poco devastante e stupefacente che tratteggia l’assuefazione che il progresso tecnologico sta prospettando per il futuro. Provate a pensare ad una realtà in cui verranno impiantati micro-schermi nella retina (Z-Eyes) con cui bloccare (oscurandone la visione come nei social) persone reali che vi stanno antipatiche, controllare e ricontrollare fino allo sfinimento il vostro passato alla ricerca di errori, dettagli insignificanti, ricordi struggenti e momenti intimi che dovrebbero restare irripetibili.
Pensate ad un futuro che vedrà un’integrazione completa tra la vita reale e la vita virtuale e i social, talmente tanto riuscita da dare vita a figure professionali che cureranno il vostro punteggio, i vostri follower, le vostre relazioni interpersonali in streaming grazie a chip inseriti sottopelle che registreranno tutto come una regia occulta.
Una delle prospettive più sconvolgenti che viene mostrata vede addirittura la commercializzazione di un macabro software che permette di parlare con un defunto grazie alla realtà aumentata ed alla eredità social cristallizzata sul web di tutti noi.
Guardando questa serie ho pensato che tutto ciò, sebbene assolutamente assurdo, è del tutto credibile e possibile perché alcune cose che sono diventate di uso comune oggi sarebbero state impensabili ed assurdamente inutili anni fa.

Tutto è possibile ed estremamente più vicino di quanto si pensi (Google Glass): non ci vorrà tanto, ma quale sarà il costo psicologico e sociale del progresso tecnologico? A cosa stiamo rinunciando, a cosa rinunceremo, quali danni stiamo arrecando ai nostri processi cognitivi e relazionali abusando in questo modo del virtuale a scapito del reale?
Perché il pericolo esiste: è bene che questo si sappia e che non venga sminuito. Ci troviamo di fronte ad un’evoluzione che oggi è più che esponenziale, che corre e si rincorre come nella storia non è mai avvenuto.
Da tempo sociologi e psicologi cercano di avvertirci, parlano per esempio dei quasi mitologici Hikikomori, poveri adolescenti che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, che passano la loro vita in una camera, credendo di giocare attraverso una consolle, di fare sport attraverso un avatar virtuale e di socializzare attraverso Facebook. E non sto parlando di una puntata di Black Mirror.

I danni di questo progresso sono solo minimamente immaginabili perché i risultati potremo osservarli realmente solo tra qualche generazione.
Il compianto Bauman asseriva: «Il vantaggio della rete è la possibilità di una comunicazione istantanea, ma questa possibilità ha delle conseguenze, degli svantaggi non calcolati. I social media spesso sono una via di fuga dai problemi del nostro mondo off-line, una dimensione in cui ci rifugiamo per non affrontare le difficoltà della nostra vita reale»1.
Ovviamente sarei ipocrita a dire che il progresso tecnologico, i social, il web non hanno migliorato il nostro tenore di vita. Sarei falso se volessi proporre un arretramento: grazie al web questo mio articolo raggiungerà centinaia di persone; qual è però il costo di questa di questa amplificazione? Centinaia di persone passano le giornate a confrontarsi non più fisicamente, attraverso il dibattito, ma sterilmente attraverso la tastiera: via la faccia, le anime, il pathos, via il confronto reale.
Grazie ai social network si entra in contatto con persone ormai lontane, ci si ritrova, ma in realtà la discussione si allontana fisicamente, credendo di interagire, di socializzare. A fine serata provate a fermarvi, provate a pensare a quanto hanno vibrato le vostre corde vocali, quanta aria fresca è entrata nei vostri polmoni, provate a pensare, se non ci fosse stato WhatsApp sareste usciti per parlare con quegli stessi amici? Ritenete una comodità restare in casa mentre chiacchierate della vostra giornata super-piena di lavoro? Sarà un vantaggio poter riguardare il passato coscienti di non poterlo comunque cambiare? Come vi sentireste se al centro delle recensioni non ci fossero più solo ristoranti (dietro cui ci sono comunque persone) ma voi, il vostro carattere? È un’app così assurda da immaginare?

L’obiettivo non è regredire: non si vuole perdere nulla. Io credo che l’umanità debba pensare al suo futuro proprio agendo sulla concezione di esso, calibrando attentamente la nostra concezione di progresso tecnologico, di futuro. Abbiamo bisogno di rallentare, capire che uno smartphone, l’uso indiscriminato di Facebook, potrà regalare ai nostri figli un magnifico mondo inesistente, una vita soffusa, un’economia sterile, una civiltà che non è, già ora, più interessata al bello, all’arte, alla cultura.
Credo sia necessario individuare una capacità di sviluppo tecnologico sostenibile che ci consenta di migliorare la nostra vita quel tanto che basta per non creare una perdita futura dal punto di vista sociale e lavorativo, poiché anche questo è un altro punto sensibile da trattare come si deve.
Il progresso e l’innovazione sono il motore dell’economia industriale, la scintilla che ha portato all’economia del benessere negli anni passati: oggi siamo oltre 7 miliardi di persone su questa Terra, la smaterializzazione dei lavori, la dismissione dell’uomo-operaio, dell’uomo-lavoratore a fronte dell’online distruggerà posti di lavoro e annienterà vite umane. L’economia e il lavoro si adegueranno certamente: siamo sicuri che la crescita e lo sviluppo debbano seguire una via tanto sregolata? Siamo sicuri che non sia più giusto seguire il vivere bene piuttosto che il vivere meglio?

Flavio Albano

Flavio R. Albano è docente a contratto di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2006 collabora con aziende di servizi turistici di tutta Italia nella selezione, formazione e gestione delle risorse umane. Ad oggi ha all’attivo diverse ricerche scientifiche, pubblicazioni e partecipazioni a conferenze internazionali, collabora con diversi enti pubblici e privati sullo sviluppo di analisi di marketing territoriale. Nel 2014 ha pubblicato il libro “Turismo & Management d’impresa” subito adottato all’Università della Basilicata. Nel tempo libero scrive romanzi di narrativa, dipinge, suona la batteria e recitare resta la sua più grande passione.

NOTE:
1. Z. Bauman, La vita tra reale e virtuale, Egea, Milano 2014.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, è un fermo immagine di una puntata di Black Mirror]

Verità e informazione: il fenomeno del Clickbaiting

<p>Abstract background on risk business concept, metaphor to small fish being in danger among many hooks.</p>

C’è una questione che negli ultimi tempi ha invaso prepotentemente le nostre vite virtuali e non.
Sta aumentando esponenzialmente la circolazione di notizie false. Non sto parlando di frasi o testi ambigui, di letture palesemente di parte volte ad ingannare il lettore per il tornaconto di chi scrive o di chi commissiona l’autore del testo, ma di vere e proprie notizie INVENTATE.

Prima parola chiave: Clickbait o Clickbaiting. Si tratta di un contenuto web il cui unico scopo è quello di attrarre l’attenzione del lettore in modo che ci clicchi sopra. Con ciò aumenterà il numero di visite per quella determinata pagina che vedrà accrescere i suoi introiti dovuti alle inserzioni pubblicitarie. Grande veicolo di diffusione sono i social network, nei quali spesso le “persone” non danno molta importanza al contenuto – anzi: spesso proprio il testo non viene letto ma ci si sofferma solamente sul titolo – poiché l’unica cosa che ha veramente importanza è se quel determinato titolo condivide il mio stato emozionale nei confronti di un problema o di una situazione.
Esistono siti che lottano contro questo fenomeno: quelli di debunking, che cercano appunto di smentire le notizie false che si possono trovare in rete. Ma – diciamocelo francamente – chi e quante volte va a controllare una notizia prima di condividerla? Dà molta più soddisfazione scrivere uno stato indignato – come minimo – contro un qualsiasi bersaglio attaccandolo per una certa notizia, anche se questa sia falsa.
Anzi, molto spesso nel caso in cui vengano smascherati, questi individui hanno anche il coraggio di continuare imperterriti la loro battaglia campale contro «l’informazione ufficiale e quindi falsa», sostenendo le proprie tesi dall’alto di posizioni espresse da siti autorevoli come “piovegovernoladro” o “grandecocomero” (e non sono nomi inventati).
La cosa triste è che ultimamente sembra che anche i media tradizionali stiano iniziando a seguire questa tendenza per riuscire a sopravvivere nello spietato mondo dell’informazione virtuale. Certo, non sono ancora arrivati a pubblicare notizie inventate di sana pianta, per ora si limitano a gonfiare i titoli, diffondere contenuti che spetterebbero a quotidiani di gossip o riviste di animali domestici e scrivere gli stati con quel metodo di utilizzo della punteggiatura e del BlockMaiusc che ci ricorda un’abile manovratore di ruspe che tutti conosciamo.
La cosa divertente – invece – è che spesso certi siti erano nati come pubblicanti bufale di una inconsistenza reale palese che suscitassero l’ilarità del mondo virtuale e – chissà – forse anche per prendere in giro i siti che di questa idea malata fanno il proprio scopo di esistenza nella rete. Ma il lavaggio di cervello a cui siamo sottoposti tramite internet, ormai, ha portato certi personaggi a condividere pure quelle notizie, e di indignarsi anche per il loro contenuto!

E siamo arrivati alla seconda parola chiave: l’alienazione virtuale.
Prendo come esempio le elezioni presidenziali americane. Premetto fin da subito che non voglio giudicare i candidati o le loro idee, ma semplicemente indagare i metodi con cui si è svolta.
Prima di tutto la partecipazione. Internet permette di connettere un sacco di persone che non si conoscono e che nella vita reale non si sarebbero potute quasi mai conoscere. Tante belle parole e tante potenzialità, non c’è dubbio. Durante la corsa per la White House sembrava che tutto il mondo fosse collegato e partecipe di quel momento. Fin qui, forse, nulla di male si potrebbe dire. Il punto è che tutte queste persone collegate davano il proprio giudizio. I non americani hanno giudicato un fatto americano basandosi su ciò che avevano a disposizione, e cioè le notizie presenti su internet, in larga scala Facebook e Twitter, due dei terreni più fertili per la nascita di notizie se non false almeno fuorvianti. Il problema ulteriore è che anche chi aveva in casa le elezioni è stato letteralmente bombardato da questo tipo di informazione. Aggiungiamoci poi le notizie false diffuse dai candidati stessi (in maggioranza da quello repubblicano, e non è un giudizio ma un fatto dimostrato) ed otteniamo un minestrone dal gusto decisamente ambiguo.
Certo, ci sono stati i comizi, ci sono stati i confronti televisivi, ci sono stati gli appelli, ma nella quotidianità dove si pescavano le notizie? Queste sono state le elezioni più “social” della storia, e sebbene ciò abbia contribuito positivamente alla visibilità non sono sicuro che il passaggio da dibattito reale a dibattito virtuale sia privo di conseguenze negative. Negative non per un partito o per l’altro, ma per la politica stessa e soprattutto per chi la determina, cioè – almeno in teoria – gli elettori.
Non è una novità che in qualsiasi campagna elettorale si cerchi di accaparrarsi voti tramite la diffusione di notizie non del tutto vere: non sto dicendo questo; sto cercando di mettere alla luce un presentimento che da qualche tempo mi tormenta. Ci sono troppe notizie false e pochi mezzi, o forse poca volontà, per stanarle e contraddirle: cosa dobbiamo attenderci nel futuro?

Il filosofo tedesco K. Popper aveva proposto una patente per poter apparire nei programmi televisivi, perché si era reso conto di come questo strumento di informazione di massa potesse condizionare la vita dell’uomo. Ora con internet il discorso è elevato all’ennesima potenza – basti pensare al deep web. Proporre una patente per utilizzare internet o per potervi inserire notizie, però, è ormai un’idea ridicola, andava pensato come condizione di internet stesso; però una soluzione a questo fenomeno deve essere trovata.
Facebook ha cominciato a muoversi per ridurre il clickbait, modificando l’algoritmo della sezione notizie. Il problema, però, non sta secondo me nel clickbaiting, che potremmo chiamare “soft” (del tipo: «Quando ha guardato sotto il cuscino del divano e ha visto QUESTO…è stato uno SHOCK!»); ma in quello che mira a cambiare le idee delle persone, o quantomeno a contaminarle. gli algoritmi qui hanno poco a che fare, bisogna lavorare sull’educazione all’utilizzo di questo strumento dalle mille potenzialità, perché tra i tanti pericoli di internet questo è uno che secondo me influenzerà enormemente il futuro prossimo.
Abbiamo di fronte l’Everest e siamo attrezzati per una passeggiata al parco.

Massimilaino Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]

Sparatutto e GTA, nuove frontiere del terrorismo

<p>The truck which slammed into revelers late Thursday, July 14, is seen near the site of an attack in the French resort city of Nice, southern France, Friday, July 15, 2016.  France has been stunned again as a large white truck mowed through a crowd of revelers gathered for a Bastille Day fireworks display in the Riviera city of Nice. (AP Photo/Luca Bruno)</p>

Ricordo bene l’arrivo del Natale quando si era ragazzi. Ricordo bene quel senso di eccitazione che ruotava attorno all’attesa dei regali, che per i più fortunati significava un gioco nuovo per la Play Station. Ma in un modo o nell’altro quel gioco sarebbe arrivato tra le mani di ognuno di noi, a casa di un amico o magicamente scaricato dal web. Andava di moda GTA, in una delle tante versioni passate alla storia. Un gioco a dir poco irriverente e per questo spopolava: si trattava di fare tutto quello che nella realtà le leggi e il senso etico ci impediscono. Possiamo sparare a tutti, investire persone in auto, andare a puttane in pieno giorno e picchiare, picchiare a sangue chiunque si metta in mezzo tra noi e la nostra onnipotenza.

Non scandalizzatevi! È solo un gioco!”, ripete ogni ragazzo come un mantra, mentre la mamma lo guarda preoccupata, sperando che almeno i compiti per il giorno dopo siano stati fatti.

Nel frattempo il mondo è stato messo a ferro e fuoco da notizie di cronaca nera e di terrorismo, di stragi e di tutto quello che quotidianamente ci fa storcere il naso, quanto più accade vicino ai nostri confini. Il nostro radar del disgusto e del ribrezzo sociale si attiva ogni giorno accendendo il telegiornale, eppure c’è un altro meccanismo che ormai è costantemente attivo in quasi ognuno di noi.

La disinibizione.

Siamo disinibiti di fronte alla violenza, dopo esserci allenati per anni con un joystick in mano; non ci sembra in fondo così strano se qualcuno spara all’impazzata e senza un motivo per strada.
Sì sì, ci scandalizziamo per quei cinque minuti dopo aver sentito la notizia, ma l’informazione in entrata rientra comunque in una gamma di possibilità (cioè di azioni fattibili, possibili) anche perché le abbiamo già esperite virtualmente. È solo un gioco, quello di GTA, certo, ma ci introduce in un climax sinaptico che rafforza nella nostra testa certe connessioni. Strada? Camion? Sì, se scaviamo tra le possibili azioni combinando questi due elementi, ci troviamo anche quella di stendere passanti e polizia, roba da una sola stella tra l’altro (per gli intenditori).

Gli scopi del gioco sono sicuramente quelli di far divertire e sfogare anche con ciò che abitualmente non possiamo fare. Il gioco virtuale potenzia nell’immaginazione le nostre possibilità e ci regala qualche ora di gloria incontrastata. L’effetto però non si ferma qui, il potenziamento a lungo termine dei neuroni (LTP) non guarda in faccia alla morale e rafforza nel nostro bagaglio esperienziale anche l’intera gamma di azioni che abbiamo compiuto giocando. Virtuali o tangibili il cervello le ha esperite, ci siamo macchiati di un peccato da poco, apparentemente, ma che non si può lavare con l’oblio o con una risata.

Scappando dalla polizia o tirando sotto i passanti il nostro cervello ha messo in atto quel meccanismo tanto straordinario quanto delicato della plasticità del sistema nervoso. Addestrando i collegamenti sinaptici che riguardano un determinato comportamento, le connessioni tra i neuroni e il verificarsi di certe condizioni si intensificano, modificando permanentemente la nostra struttura. Il cervello non è elastico, non ritorna allo stato di quiete iniziale dopo aver passato il pomeriggio a sparare e investire persone (virtuali), anzi si modifica e rimane marcato.

Se infatti diamo un I-phone in mano ad un indigeno, non lo userà certo per cercare Pokemon, al massimo proverà a spaccare noccioline, perché nel suo ventaglio di azioni concepibili con un oggetto di quella consistenza, si dipana solo qualche simile possibilità. Per noi, invece, il camion era sempre stato un mezzo di trasporto: me lo ricordo quando ci giocavo da piccolo, per non aver  ricevuto in regalo GTA. Il mio cervello non aveva ancora vagliato una possibilità diversa perché il mio avere-a-che-fare (l’Umgang heideggeriano) con quell’oggetto si nutriva di altre finalità.

Ormai invece siamo immersi in una quotidiana violenza con ogni oggetto che ci capiti tra le mani, vediamo obiettivi da sterminare ad ogni difficoltà o fastidio. Non diventeremo tutti assassini, certo, ma abbiamo inserito nel nostro mondo del possibile anche atrocità che ora iniziano a presentarsi sempre più frequenti.

Non sono azioni isolate di persone disturbate, ma alcuni tra gli esiti e le conseguenze della cultura della violenza, che addestra miliardi di neuroni a disinibirsi di fronte alla brutalità e a uccidere non più per fame, non più per protezione di un confine, ma per un’idea, per uno sfizio che ci si voleva togliere, o per passare un pomeriggio di svago al centro commerciale…

Giacomo Dall’Ava

Il ‘Mi piace’ come nuova valuta

Qualche giorno fa mi trovavo a lezione di storia della filosofia, in aula Padoan a San Sebastiano, a Venezia. L’aula ha una capienza di circa ottanta persone e per tale corso sopraccitato il risultato è sempre un tutto esaurito. Proprio in mezzo a tutte quelle persone, in gran parte sconosciute, mi sono domandato con che criterio sviluppiamo dei giudizi nei confronti di ciò che circonda, oggetti e soggetti che siano. Non fraintendetemi, il motivo di tale domanda non trova ragione nella lezione incentrata su Kant a cui stavo assistendo, anche se egli di giudizi ne aveva formulati giusto un paio, se non un’intera opera. Questo spontaneo pensiero è nato in me dopo aver osservato un po’ di quei volti che mi accerchiavano, che mi osservavano a loro volta. Quando guardi una persona e il suo sguardo incontra il tuo si stabilisce un contatto, un dialogo muto e privo del linguaggio tradizionale a cui siamo abituati. In quel determinato istante si parla simultaneamente, si formulano dei pensieri relativi alla propria visione, arrivando a formulare un resoconto di questo nostro vedere. Dettagli e azioni spesso ci attirano, catturano la nostra attenzione e di conseguenza non riusciamo a guardare all’intero ma solo al particolare.

Ecco se pensiamo a questo breve lasso di tempo che coinvolge uno scambio di sguardi è innegabile che un’idea, un giudizio appunto sia nato, sia in uno che nell’altro individuo. Tale giudizio, come conclusione della nostra osservazione, non potrà che essere a priori come direbbe Kant, ossia un giudizio che precede la nostra esperienza. In quest’ambito lo ritengo assolutamente incompleto, se non di natura fuorviante, tanto da farci presupporre ciò che dovremmo e potremmo solo ipotizzare. Il problema, appunto, risiede proprio in questa nostra posizione, ossia l’assunzione di questa nostra opinione come verità. Dopo questo processo pensiamo di aver già conosciuto il conoscibile di un determinato soggetto o oggetto, escludendo altre caratteristiche possibili, escludendo ogni altra possibilità d’essere. L’apparenza dunque in questi semplici scambi quotidiani fa da sovrana e pare essere la struttura su cui costruire al meglio noi stessi. “L’abito non fa il monaco” si continua a predicare, eppure la mentalità che sta prevalendo oggigiorno è un apparire, vestito di ogni possibile qualità positiva quanto desiderabile, adornato di lustrini e paillettes che ne distorcono la vera forma. È un travestimento, una maschera che ci alletta e che vorremmo tanto indossare per essere, magari anche solo per un attimo, ciò che vorremmo essere. Nessuno è contento, tutti vogliono essere qualcos’altro, stravolgere se stessi per assomigliare a quelli che dal nostro punto di vista sono modelli di vita. Sono solo parole e discorsi fatti e rifatti, ne sono consapevole, ma ora più che mai siamo inconsciamente immersi in tale sistema, sistema che rinneghiamo ma dal quale non riusciamo effettivamente ad uscire. Ne sparliamo, lo accusiamo ma poi ci accovacciamo in esso quasi come segno di sottomissione, rimasti assuefatti dalla (non) realtà che esso può fornirci, dove tutti sono ciò che vogliono e lo decidono forti di un’apparente libertà.

Può sembrarvi la classica descrizione dei social network e di internet che ormai hanno preso il sopravvento sulla nostra volontà. Ebbene lo è, ma solo in parte, poiché il mio appello, la mia voce anch’essa interna a questo sistema dev’essere una testimonianza, poche semplici parole che convincano di come sia tutto corrotto ma allo stesso tempo celato e proposto in modo innocuo, quasi come una mano invisibile che ci manipola. È forse un agente esterno che opera sul mondo e su di noi? Siamo forse vittima di qualcuno al di sopra delle nostre persone? Di qualcuno siamo vittima, ma quel qualcuno siamo noi stessi, ci siamo schiavizzati da soli, creando qualcosa di immensamente grande che non riusciamo quasi a controllare. Volevamo fare la più grande scoperta della storia e ci siamo riusciti, creando un mondo alternativo, un mondo virtuale da poter elevare a realtà, sottomettendo quella che dovrebbe essere l’unica e vera realtà, quella che viviamo tutti i giorni. Non possono essercene due e, per quanto possiamo essere insoddisfatti e delusi da quel che ci è stato offerto, non lo possiamo negare e distruggere, non possiamo ripartire da zero in altro loco dimenticando da dove veniamo e dove noi realmente sussistiamo. L’altro mondo da noi creato, quel mondo virtuale apparentemente perfetto e abitabile in modo lieto da ognuno di noi, da ogni singolo essere umano esistente non può reggere il confronto per quanto sia efficace dal punto di vista dell’imitazione. È un buon mimo, che sa ripetere ogni mossa, come la nostra controparte allo specchio, ci fa credere che può darci tutte le cose di cui abbiamo (forse) bisogno. Ha i suoi metodi di valorizzazione, ha i suoi strumenti, addirittura la sua valuta per giudicare ciò che sta al suo interno e far vivere le persone di quella moneta, farle vivere PER quella moneta.

Il mio è un discorso molto astratto, parole che si sprecano nell’inconsistenza del virtuale, pertanto vorrei farvi pensare a quale può essere la strumento di questo mondo astratto, ciò che riesce ad assuefarci ad esso. Sarà sicuramente anch’esso immateriale, una moneta non sostanziale ma puramente inafferrabile. Pensateci. Ormai la usate ogni giorno, inconsciamente, non sapendo quanto valore ha ormai nel mondo che ci siamo creati, lo vedete come un semplice gesto, un dire qualcosa, un vostro esprimervi che non è poi così significativo. Si tratta di quel “mi piace” che ogni giorno ci dona importanza o la dona a qualcun altro, elevandolo a qualcosa, facendolo sembrare importante, dandogli forza.

È importante purtroppo, è importante perché noi gli abbiamo dato importanza e in poco tempo è diventato il nostro metro di misura, la nostra moneta, il valore delle cose e addirittura delle persone che ci circondano. Un valore numerico che ha superato l’impatto che ha avuto il valore numerico precedente dato dai soldi cartacei e dalla monete concrete, poiché è ahimè molto più semplice, molto più facile da utilizzare e alla portata di tutti, intellettuali e stolti che siano. Ma non date ascolto a me. Io di media ho solo 10 mi piace.

Alvise Gasparini