La neutralità del conflitto

In questi giorni il mondo ha di nuovo volto il suo sguardo verso il Medio Oriente, verso un conflitto che ancora non ha trovato pace: quello israelo-palestinese.

Sicuramente la cosiddetta crisi della Spianata ha origini ben pregresse, ovvero non è iniziata quel fatidico giorno del 14 luglio scorso, bensì ben prima.

Il mondo, in tutto questo tempo, ha deciso di allontanarsi da quella crisi, quando forse si sentiva troppo stanco per poter trovare una via di fuga e una soluzione.

La crisi potrebbe essere identificata in quel processo di normalizzazione che porta all’abituarsi di una situazione che normale non è. La normalizzazione, infatti, può essere intesa come un processo in cui relazioni – politiche, economiche, sociali, culturali – assumono un carattere “normale” appunto.

La riflessione che voglio portare avanti coinvolge proprio il concetto di conflitto.

Quando si pensa ad esso le immagini che vengono a delinearsi nella nostra mente sono il più delle volte immagini negative: scontro, rottura, trauma, guerra, violenza. Consideriamo, pertanto, il conflitto come qualcosa da evitare. Eppure, il conflitto in sé è un qualcosa di neutrale e ciò che lo porta ad essere negativo o positivo sono i meccanismi e le forme che vengono usate per affrontarlo.

È inoltre importante tenere a mente che esso è parte inevitabile della vita sociale da un lato e della sfera individuale dall’altro. Quante volte siamo stati in conflitto con noi stessi? Non è stato forse un motivo di crescita?

Così, “prevenire i conflitti”, nel senso di non affrontarli ed evitarli, possiede connotazioni decisamente negative. Invece, se intendiamo il concetto di “prevenzione dei conflitti” come uno sviluppo di abilità, atteggiamenti e comportamenti indirizzati alla risoluzione di conflitti in modo costruttivo, la connotazione che assume è positiva. Questo significa che lo sviluppo delle capacità e strategie che consentono di affrontare il conflitto stesso e impedirgli di giungere alla sua fase critica siano estremamente utili e necessarie.

È possibile quasi individuarne una struttura, la quale si compone di tre elementi: le cause, i protagonisti e il processo.

Potremmo, infatti, attribuire alle cause di un conflitto: le ideologie e le credenze, le relazioni di potere, gli aspetti personali e i rapporti interpersonali. Gli attori in gioco il più delle volte sono minimo due. E poi arriviamo al processo che si riferisce al modo in cui si sviluppa e si porta a risoluzione.

Detto ciò, sarebbe bello avere la “ricetta” per risolvere ogni tipo di conflittualità, dal personale a quello tra Stati e organizzazioni, ma non può essere così.

Quel che conta è non eluderlo, affrontarlo è dunque il primo passo per poter arrivare ad una soluzione.

L’atteggiamento che il mondo ha assunto in questi ultimi anni nei confronti della crisi israelo-palestinese non è stata sicuramente quella di sviluppare strategie risolutive. Il togliere dall’agenda tale tematica, sostenendo l’idea che Gerusalemme non fosse un problema globale – probabilmente c’è chi lo pensa tuttora – ha fatto sì che la crisi si alimentasse. È importante ricordarsi che l’essere stanchi dei tentativi andati in fumo per la pace tra Israele e Palestina non è una giustificazione per non affrontare il conflitto, così come non rappresenterà mai una giustificazione per non prendere in esame le nostre conflittualità.

Jessica Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Lady Macbeth: ritratto di donna in interno

Magnetico e deplorevole, sensuale e raggelante: sono davvero pochi i personaggi di pura fantasia che riescono ad avere una carica dicotomica così forte come quella insita in Lady Macbeth. Una figura costruita su una serie di contrasti apparentemente inconciliabili: un amore che sfocia nell’orrore del delitto, una sottomissione che in un attimo si può trasformare in incontenibile onnipotenza. William Shakespeare le ha dato vita, lo scrittore russo Nikolaj Leskov l’ha portata nel freddo distretto di Mtsensk e infine il regista teatrale britannico William Oldroyd l’ha filmata sul grande schermo, unendo gli insegnamenti dei due maestri sopracitati.

Il risultato finale porta il titolo di Lady Macbeth, un raffinato dramma in costume uscito nelle sale italiane lo scorso 15 giugno. Nonostante il film non manchi di alcune imperfezioni (ricordiamoci che stiamo parlando di un’opera prima), il lavoro di Oldroyd merita interesse per la sua grande capacità di costruire un personaggio femminile quantomai riuscito e appassionante. Il merito è soprattutto di una sensazionale Florence Pugh che da ragazzina timida e sottomessa inizia un percorso di trasformazione che la porterà a diventare una Lady Macbeth dilaniata da una tensione amorosa a dir poco sconvolgente. Fotografia e ambientazioni sono l’altro grande punto di forza di questa storia. Se il libro da cui il film è tratto era ambientato in Russia, la brughiera inglese si dimostra qui molto più adatta a rappresentare il simbolico conflitto interiore della protagonista, sottomessa e prigioniera all’interno delle mura domestiche, libera e passionale quando si trova a passeggiare nelle terre verdi e incontaminate del Regno Unito. Le dicotomie e le passioni di Lady Macbeth sono le stesse di un’adolescente viziata del nostro tempo, disposta a tutto pur di avere ciò che desidera ed è questa un’altra grande sorpresa del film di Oldroyd. Mentre nell’immaginario shakespeariano Lady Macbeth ci appare come una donna già matura al fianco di un marito da sostenere nella sua folle corsa all’onnipotenza, qui la protagonista è una ragazza che diventa donna solo dopo aver annientato gli uomini che la circondano. Il genere maschile esce annichilito alla fine della proiezione, ma al contrario di quanto si possa pensare Lady Macbeth non è una fastidiosa celebrazione del femminismo tout court, al contrario è un’intelligente esaltazione delle mille sfaccettature della donna in contrapposizione alla stupidità e alla pulsione fisica che caratterizza la maggior parte degli uomini.

Non male per un regista al debutto sul grande schermo. La sua ammirazione per la pittura di inizio Ottocento emerge tutta nelle riprese paesaggistiche che prendono a piene mani dai capolavori di William Turner o Caspar David Friedrich. I paesaggi simbolici di quello specifico genere pittorico diventano nel film un luogo chiave per spingere la protagonista verso il sublime, rappresentato qui da un bisogno d’amore che degenera in una spirale di violenza fisica e psicologica non facile da sostenere agli occhi di uno spettatore impreparato. Non c’è punizione o redenzione per una protagonista di tal fatta: la sfrontatezza data dalla giovane età e la sicurezza che solo il desiderio di onnipotenza possono dare, le consentono di tornare a sedersi sul divano di una casa ormai vuota come se niente fosse successo, salvo poi lasciarsi cullare dall’idea di essere diventata, a tutti gli effetti, un personaggio indimenticabile.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Perché il femminismo fa paura: la linea sottile tra oppressi ed oppressori

<p>gender equal opportunity or representation</p>

Sembra un argomento molto di moda, tra celebrità che prendono posizione, campagne contro la violenza di genere e battaglie linguistiche su termini come femminicidio o sindaca. Insomma, negli ultimi anni si parla più del solito di femminismo.

Ma se i toni del dibattito pubblico e da social sono accesi, nella conversazione privata questo rimane un argomento spinoso, sul quale per molti è difficile farsi un’opinione e prendere una posizione: questo dà il via a tutta una serie di specificazioni linguistiche (“non sono femminista, sono anti-sessista”) e concettuali (da “non tutti gli uomini sono maschilisti!” a “anche le donne compiono violenza sugli uomini!”). Specificazioni volte a chiarire che in ogni caso stiamo dalla parte dei “buoni” − dato che nessuno vuole essere considerato maschilista − ma allo stesso tempo che non ci riconosciamo come femministi/e.
Nel dubbio, o in maniera deliberata, cerchiamo una soluzione intermedia che ci permetta di stare in equilibrio tra due posizioni scomode. Dopotutto la virtù sta nel giusto mezzo, lo diceva anche Aristotele.

Eppure Aristotele sosteneva anche il principio logico del terzo escluso: ovvero, data una coppia di proposizioni logicamente opposte (detta coppia antifàtica), esse devono necessariamente avere valore di verità opposto. Nel senso che se una è vera l’altra è inevitabilmente falsa, e viceversa. Se sei qui non sei lì, se hai detto una cosa non puoi non averla detta, se sei vivo non sei morto, ecc… senza che si dia una terza possibilità intermedia.

Quando si parla di femminismo ci sentiamo costretti a scegliere tra due posizioni antagoniste ugualmente ideologiche: spesso infatti si pensa (erroneamente) che se maschilismo significa misoginia, allora femminismo significhi misandria. Quando in realtà il movimento femminista, nonostante racchiuda in sé molte scuole di pensiero diverse, a volte anche in contrasto l’una con l’altra, nella sua essenza rivendica solo l’uguaglianza tra i generi. In altre parole: diamo per scontato che il contrario di una situazione di disuguaglianza sia un’altra situazione di disuguaglianza, ma a parti invertite. Dimentichiamo quindi che in realtà il suo opposto è appunto l’uguaglianza, la parità.

Detto così sembra scontato prendere le parti di chi promuove l’uguaglianza. Eppure, l’esistenza stessa di un movimento che la persegua mette a disagio: in effetti, accade la stessa cosa per i movimenti antirazzisti o pro diritti LGBTQ. Questo perché costringono ad accettare, come premessa logica, che ci sia un’ingiustizia. E l’ingiustizia divide il mondo in oppressi ed oppressori o, come li chiamerebbe Sartre, flagelli e vittime. Chi non fa parte della minoranza discriminata, ma rimane neutrale, sceglie automaticamente la parte dell’oppressore (parafrasando Desmond Tutu, attivista sudafricano contro l’apartheid).

Quindi, ammettere l’esistenza della discriminazione sessista non è facile o indolore. Non lo è né per gli uomini, perché li fa sentire sotto accusa, né per le donne perché le fa sentire vittime impotenti, o peggio, colpevoli di non ribellarsi: non a caso “Non ho bisogno del femminismo perché non sono una vittima” era uno tra gli slogan più ricorrenti della campagna online #WomenAgainstFeminism di qualche anno fa.

Davanti a questa prospettiva è più facile negare, sminuire o ridimensionare il problema. Ma non c’è soluzione intermedia che possiamo scegliere: è il principio del terzo escluso.

Di fronte al sopruso, la discriminazione, l’ingiustizia, l’essere umano è chiamato a compiere una scelta etica, un dilemma continuamente affrontato in secoli di storia. Ma dietro ad un problema complesso, c’è innanzi tutto un gesto apparentemente semplice: ammetterne l’esistenza è il primo passo, forse il più coraggioso.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Un 8 marzo verso nuove mete possibili

Oggi è l’8 marzo, una data che come ogni anno arriva puntuale e che segna una di quelle ricorrenze che portano con sé un significato che con il passare del tempo è necessario non dimenticare, affinché ne sia preservata l’autenticità.

Quest’anno la giornata internazionale delle donne ha qualcosa di diverso, un sapore nuovo che non si può ignorare, dal momento che ci obbliga a confrontarci con il nostro passato per vedere un futuro possibile, fatto di cambiamenti, uomini e donne finalmente insieme. Il vero protagonista di questo 8 marzo sarà la necessità di riflettere su cosa significhi essere donna oggi nei luoghi e negli spazi del quotidiano: sul lavoro, dentro le mura di casa e all’interno della rappresentanza politica.

Il ‘femminismo’, parola che spaventa ancora e che suscita spesso accese polemiche, sembra portare con sé un’inevitabile tonalità negativa, tant’è che è facile sentirlo utilizzare da amici o conoscenti con tono dispregiativo. Spesso mi sono domandata perché e ho tentato di comprendere la posizione di chi vede in questa parola qualcosa di anacronistico, spesso trovando nei miei interlocutori solo un nuovo pretesto per riproporre una realtà puramente stereotipata.

Bisogna essere consapevoli che come ogni ‘ismo’, anche questo livella, riduce e appiattisce, definendo una categoria sotto la quale rientrano correnti di pensiero, atteggiamenti e visioni del mondo che non potrebbero essere più distanti uno dall’altra. Ecco perché è più utile parlare di ‘femminismi’, per poter evidenziare la non univocità di correnti che con il loro attivismo, lo si voglia o meno, hanno determinato il destino di noi tutti.

Una moltitudine di idee e pensieri, al cui interno, tuttavia, è possibile rintracciare un aspetto comune e ancora oggi attuale, ovvero la necessità di definire e ripensare la posizione della donna all’interno della società, della politica e della sfera privata.

Un presente, quello che viviamo, che viene spesso dato per scontato, ma che invece è frutto di anni di lotte e conquiste civili, dal suffragio universale ottenuto nel nostro paese nel 1945, alla legge sull’interruzione volontaria di gravidanza conquistata solo nel 1978. Conquiste a cui si è giunti faticosamente, un percorso che non può essere messo semplicemente tra parentesi come ‘passato’, dal momento che tutto può essere rimesso costantemente in discussione ed è solo dal passato che si può comprendere quanta strada si può e si deve ancora percorrere insieme.

Se si pensa che l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini fu sancita dalla costituzione nel 1948, ma che bisogna attendere il 1975 per la riforma radicale del codice civile che prevedeva il principio della supremazia del capo famiglia e che ha permesso l’affermazione del principio costituzionale dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, si comprende l’impegno che nel tempo ha portato le donne a rendere effettiva sul piano sociale una conquista ottenuta a livello giuridico.

L’8 marzo 2017 ci sarà una mobilitazione generale e uno sciopero globale produttivo e riproduttivo delle donne. Dall’Argentina, alla Polonia e agli Stati Uniti, la mobilitazione delle donne è trasversale e coinvolge più di 40 Paesi. Una necessità nata dal confronto e dal dialogo scaturito da diverse assemblee cittadine e che nel nostro paese da Bologna a Roma coinvolge numerose realtà. La rete di Nonunadimeno, che riprende l’azione di protesta argentina Niunamenos contro la violenza di genere, è il frutto di un percorso iniziato il 26 novembre scorso con una grande manifestazione a Roma e una prima assemblea all’università La Sapienza. Otto i tavoli tematici su cui si è discusso il 4 e 5 febbraio scorso a Bologna, che pongono l’accento su numerosi punti, tra cui l’importanza di riaffermare il ruolo dei centri antiviolenza come spazi di donne per le donne, che nella loro specificità non possono essere parificati a qualunque altro servizio di assistenza e la necessità di  potenziare politiche sociali, per la cui mancanza spesso  le donne sono costrette al loro lavoro di cura.

Un’esigenza nata dal confronto e dal dialogo di gruppi di donne,  attraverso lo scambio reciproco di esperienze di vita e di idee, un insieme di punti generati dall’interrogativo fondamentale che muove questo 8 marzo, ovvero in che modo si esprime e si manifesta la violenza di genere e sopratutto quali le azioni concrete da promuovere per arginarla, affinché non rimanga l’ennesimo monito dissolto nel vuoto. Una violenza che si declina e prende vita in forme sempre mutevoli. Riaffermando la necessità della piena applicazione (ancora troppo lontana dalla realtà) della Convenzione di Istanbul, si getta luce sulle molteplici forme che assume oggi la violenza, dalla violenza psicologica a quella sul lavoro, per arrivare alle nuove forme di violenza veicolate attraverso il web e i social media.

Alla luce della recente condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per la poca tempestività con cui ha protetto una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito e di fronte alla dichiarazioni sconvolgenti di qualche giorno fa dell’eurodeputato polacco Janusz Kowin-Mikke sulla presunta debolezza e inferiorità femminile, il nostro tempo sembra scivolare nel passato e tutto sembra essere costantemente rimesso in discussione.

Davanti alla volontà di controllo del corpo delle donne, che si presenta ogni giorno in una veste sempre nuova, le donne di Nonunadimeno scendono in piazza, perché “Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo”.

Come sottolinea la filosofa Michela Marzano, non dimentichiamoci cosa significa veramente lottare di fianco alle donne, per le donne:

«Essere dalla parte delle donne non significa sognare un mondo in cui i rapporti di dominio possano finalmente capovolgersi per far subire all’uomo ciò che la donna ha subito per secoli. Essere dalla parte delle donne vuol dire lottare per costruire una società egualitaria, in cui essere uomo o donna sia «indifferente», non abbia alcuna rilevanza. Non perché essere uomo o donna sia la stessa cosa, ma perché sia gli uomini sia le donne sono esseri umani che condividono il meglio e il peggio della condizione umana. L’obiettivo della donna non è quello di dominare l’uomo, dopo essere stata dominata per secoli, ma di lottare perché si esca progressivamente da questa logica di dominio, senza dimenticare che, nonostante tutto, l’essere umano è (e resterà sempre) profondamente ambivalente»1.

L’unica posizione possibile è allora stare dalla parte delle donne, senza dimenticare la necessità di tracciare insieme un percorso condiviso, che non generi un discorso autoreferenziale, ma che permetta di oltrepassare qualsiasi logica di dominio, andando oltre ogni sterile opposizione tra uomo e donna.

Buon otto marzo a tutte.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. Michela Marzano, Sii bella e stai zitta, p. 138.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Educare all’amore. Per fare di ogni giorno un 25 novembre

“Quando sarò grande, finirò in ospedale perché mio marito mi picchia”.

Sono le parole finali di uno spot della Rai che sta facendo molto discutere sui social.
Sono le parole pronunciate da una bimba. Parole concluse con un gelido silenzio. Mentre gli altri bambini riempiono quel “Quando sarò grande…” con le loro aspirazioni e i loro desideri. Parole definite da un futuro già scritto. Un futuro passivo. Un futuro da sottomesse.
Sbigottita, mi sono chiesta il perché. Perché strumentalizzare dei bambini, la loro tenerezza e la loro innocenza. Perché utilizzare le parole pronunciate da una bambina, delle parole peraltro crude e forti, per diffondere la sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
Mi chiedo, dunque, se sia necessario spingersi a tanto. E a ripetermi se, in fondo, comprendiamo davvero il valore e l’importanza di ciò di cui stiamo parlando.
È innegabile. Il bambino suscita la commozione. Un bambino è vulnerabile, fragile. Impotente rispetto ad una realtà forte e spregiudicata come la nostra.
Ma esattamente per queste ragioni, perché renderlo attore di uno spot così forte?
Una cosa, infatti, è crescere i bambini con una certa consapevolezza ed educazione. Formarli, quindi, secondo il valore del rispetto e dell’altrui riconoscimento. Renderli un poco alla volta partecipi di una realtà che può cambiare. Che deve cambiare. Accompagnandoli nella crescita attraverso un amore profondo che non è violenza. Ben altro è, invece, presentare uno spot di sensibilizzazione contro la violenza, facendo calare questa creatura nel ruolo di una donna che, nel suo futuro, si vede in ospedale perché picchiata dal proprio marito.
Oggi, purtroppo, funziona così. Lo dico con amarezza, e con una stretta al cuore. Oggi tutto deve essere ridotto a merce per attirare l’attenzione dello spettatore. Perfino la violenza. Quella violenza che, detta attraverso le parole di una bambina, fa rabbrividire.

Oggi, 25 novembre 2016, è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
È una giornata in cui ci sentiamo tutti un po’ più in dovere di ricordare le 116 donne che dall’inizio dell’anno sono morte in Italia a causa di un non-amore. Ogni donna, che questo non-amore lo vive tutti i giorni inghiottita nel silenzio, rannicchiata in un angolo. Ogni donna che ha perso la vita l’anno scorso. Quello precedente. E quello precedente ancora. In Italia e nel resto del mondo. È un giorno in cui il dovere di ricordare dovrebbe diventare un bisogno, una necessità. La necessità di riflettere sulla differenza sostanziale tra amore e violenza. Perché l’amore, quello vero, non potrà mai trovare la sua forma di espressione in un lago di sangue e in delle ferite.
Oggi 25 novembre 2016 deve essere il giorno dell’amore. Di quell’amore impastato della differenza e del suo riconoscimento. Un amore fatto di libertà, di carezze e di sguardi.
Abbiamo bisogno, oggi, di proclamare la vita. Proclamare la vita, per proteggere ciascuna donna che, di questa vita, viene privata.
Lottiamo per ciascuna. Lottiamo per noi. Lottiamo per le donne. Lottiamo per l’amore.

Sara Roggi

NOTE:
Cliccare qui per vedere lo spot RAI in questione dalla pagina Facebook di RaiPlay.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Amabili resti – Alice Sebold

«Questi erano gli amabili resti, cresciuti intorno alla mia assenza, i legami, a volte esili, a volte stretti a caro prezzo, ma spesso meravigliosi, nati dopo che me n’ero andata. E cominciai a vedere le cose in un modo che mi lasciava concepire il mondo senza di me».
Susie Salmon è una ragazzina di quattordici anni con le aspirazioni e i sogni propri della sua età. Ma la sua giovane vita è destinata ad essere calpestata, straziata e recisa da un mostro, un insospettabile mostro che vive a pochi passi da casa sua, celato da una maschera di perbenismo.
Un mostro che il lettore individuerà ben presto e ben presto inizierà a disprezzare e odiare.
A raccontare la storia è la ragazzina uccisa, la voce narrante appartiene infatti alla stessa Susie che ci parlerà da un ‘Cielo’ tutto suo. Si tratta quindi di una prospettiva insolita che smarrisce e conforta allo stesso tempo. Dall’alto, Susie, osserva la vita continuare senza di lei, partecipa al dolore della sua famiglia e assiste agli strazianti momenti successivi alla sua scomparsa. Ma la sua attenzione non si focalizza solo sui suoi familiari distrutti dal dolore. Susie osserva anche il suo assassino, la freddezza delle sue simulazioni, la ripugnanza celata dietro ai suoi intenti, sostenendo a distanza l’intuito del padre che forse ha percepito prima degli altri un retroscena poco chiaro dietro quell’uomo apparentemente educato e tranquillo.
Amabili resti è un libro che non lascia indifferenti, impossibile trattenere le lacrime e non avvertire una morsa allo stomaco durante la narrazione. È un libro che scuote, destabilizza, ferisce. Un effetto per me amplificato dall’essere genitore, dall’essere madre di una bambina che mi auguro di saper proteggere da un mondo che sa essere spietato ben oltre l’umana immaginazione.
«Dentro la palla di neve sulla scrivania di mio padre c’era un pinguino con una sciarpa a righe bianche e rosse. Quando ero piccola papà mi metteva seduta sulle sue ginocchia e prendeva in mano la palla di neve. La capovolgeva perché la neve si raccogliesse tutta in cima, poi con un colpo secco la ribaltava. E insieme guardavamo la neve che fioccava leggera intorno al pinguino. Il pinguino è tutto solo, pensavo, e mi angustiavo per lui.
Lo dicevo a papà e lui rispondeva: “Non ti preoccupare, Susie, sta da re. È prigioniero di un mondo perfetto”».
 
original
 
Per alcuni lunghissimi istanti, quelli in cui Susie racconta della violenza subita, ho pensato di non farcela, di non riuscire a proseguire nella lettura. Il suo dolore è diventato il mio, l’orrore salendo dallo stomaco alla gola mi si è appiccicato addosso come una seconda pelle.
Eppure temi come la violenza, la morte precoce, il dolore per la perdita, vengono trattati con un tocco delicato, proprio perché filtrati dallo sguardo limpido e innocente di Susie.
Ed è sempre la piccola Susie ad impedire che il lettore venga inghiottito dalla rabbia e dal dolore, offrendogli qualcosa a cui aggrapparsi, offrendogli la speranza: l’amore è eterno ed è l’unico legame che non può essere spezzato.
Un’ancora di salvezza, ecco cosa offre l’autrice al lettore, quasi come se si sentisse in dovere di non caricarci di un fardello troppo pesante. Un’attenzione che accomuna molte persone che hanno subito violenza, e nella quale è forse possibile riconoscere il vissuto autobiografico dell’autrice.
La scrittura, semplice e lieve, rispecchia l’intento di mantenere dei toni dolci, tenui, senza permettere all’oscurità di prendere il sopravvento.
Struggenti le descrizioni dei familiari, dei genitori e dei fratelli di Susie, del modo di ognuno di reagire alla perdita. Queste, insieme ai flashback che la protagonista inserisce nel racconto, ci regalano uno spaccato di vita di una famiglia americana degli anni 70, una famiglia felice che vive in Pennsylvania quando la provincia americana è considerata un luogo sicuro, sereno, dove si respira ottimismo e positività.
Un libro toccante, con una protagonista che si impadronirà di un pezzetto del vostro cuore.
 

Stefania Mangiardi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Hic sunt leones: l’immunità nei social

Nel 2016 gli italiani che adoperano quotidianamente i social network sono circa 21 milioni ovvero il 35% dell’intera popolazione del Bel Paese, un dato non indifferente se consideriamo di come nell’autunno di otto anni fa si aggirava attorno al milione di utenti. Un boom che ha portato a considerare la piattaforma più usata: Facebook, come una sorta di nuova piazza, capace di far interagire tra loro persone non solo di tutta Italia, ma anche di tutto il mondo. Si tratta di un’ulteriore evoluzione della comunicazione di massa?

Guardando brevemente la storia della stessa possiamo rispondere tranquillamente che sì, i social network hanno sintetizzato le passate esperienze della radio e della televisione; dalla prima hanno ereditato l’interazione – sebbene la maggior parte degli apparecchi potesse solo ricevere, non di rado si potevano incontrare appassionati smanettoni capaci di costruirsi la propria stazione radio in grado anche di trasmettere e quindi di comunicare: da metà anni ’70 si assiste infatti alla diffusione delle “radio libere” – dalla seconda invece hanno ereditato la componente video.

Esistono dei benefici, degli aspetti positivi nell’uso di questi veri e propri strumenti, specialmente in ambito mediatico o della conoscenza, eppure sotto la superficie esiste un intricato labirinto oscuro capace di mostrare la parte più recondita – e forse più sincera – delle persone. Quello che si percepisce è un grosso divario tra ciò che si potrebbe e ciò che invece si fa con l’internet del XXI secolo; ognuno di noi per esempio potrebbe incrementare la propria capacità di critica, di analisi e di confronto, nel concreto invece si assiste ad un fenomeno diametralmente opposto: più aumentano i presupposti del progresso sociale, più le persone costruiscono un muro di ottusità oltre il quale si estendono diversi ettari di occasioni perdute.

Così i pensieri espressi si omologano al pensiero-matrice della personalità legata al mondo della politica, o dell’opinionismo spiccio, oppure del mondo fittizio della “bufala”; il risultato sono centinaia e centinaia di frasi ripetute all’infinito prive di fondamenti concreti, orfane di fonti o addirittura inserite a caso nei più svariati contesti.

Come se non bastasse, a questa babele informatica si aggiunge il fattore cattiveria.

La “cyber diffamazione” amplifica l’antica derisione all’ennesima potenza: se in passato il proprio raggio di socializzazione era limitato ad ambienti locali e quindi per ricostruire la propria reputazione, messa in pericolo da qualche buontempone, bastava semplicemente cambiare quartiere o frequentazioni, oggi la propria vita privata è esposta a rischi ben più profondi poiché il raggio di socializzazione si è prolungato a dismisura raggiungendo un numero considerevole di persone con la conseguenza evidente che i rimedi del passato risultano totalmente inefficaci. I risultati sono tristemente noti: suicidi per cyber bullismo o traumi riconducibili ad esso e ripercussioni sulla salute psicologica della vittima.

Oltre all’accanimento contro una persona specifica assistiamo sempre di più alla violenza espressa, sempre attraverso frasi di cattivo gusto, nei confronti di comunità straniere – senza risparmiare i bambini – o nei confronti di determinate categorie di persone perché non annoverabili nella “normalità”.

Sebbene venga spontaneo chiedersi se gioire della morte di qualcuno o auspicare gratuitamente stragi efferate sia il metro di giudizio della normalità, è interessante il diverso atteggiamento che gli stessi individui utilizzano nei social network e nella realtà del quotidiano. Siamo tutti affetti da una sorta di bipolarismo confuso? Più probabilmente è la diretta conseguenza del nostro snobbare le parole.

Esse infatti, come dice un antico proverbio, feriscono più della spada, ma dato che non hanno la forma di un’arma e non sono consistenti tanto quanto un’arma, vengono il più delle volte sottovalutate, non tanto da chi le legge, ma da chi le pronuncia. Lasciano segni interiori, quindi invisibili ai più, ed il confine tra invisibile ed inesistente è così labile che spesso e volentieri lo si varca senza preoccuparsi troppo.

Negli ultimi anni in particolare è proprio la piattaforma Facebook ad averci regalato punti davvero bassi per quel che concerne la qualità del dialogo tra utenti. Si è via via trasformato in un’arena dove ci sono i leoni, quelli da tastiera ovviamente, convinti di vivere in un mondo ultraterreno, dove le conseguenze – in particolare quelle penali – sono incorporee, e forse non hanno nemmeno tutti i torti.

Tirando le dovute somme la domanda si pone un dubbio fondamentale. Ripartendo dai dati forniti all’inizio, proprio perché ormai il 35% degli italiani usa i social network, proprio perché le conseguenze dell’errato uso degli stessi provocano danni spesso irreversibili alle persone, quando verrà il momento di regolamentare, anche attraverso sanzioni più concrete, il comportamento degli utenti? Quando verrà finalmente il momento in cui tutti i fruitori della rete dovranno, per legge, prendersi la responsabilità di ciò che dicono pubblicamente?

Non resta che aspettare, speriamo non troppo, ulteriori sviluppi e approfondimenti sul tema.

Alessandro Basso

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La “Consolazione alla madre Elvia” di Lucio Anneo Seneca

Hai appena fatto rientro a casa, il corpo stanco implora riposo ma hai solo il tempo di una doccia – che sia veloce! –, poi rivestirti e uscire di nuovo. Vorresti scegliere tra uno dei due lavori che fai ma, ahinoi, è un lusso che ancora non puoi permetterti. Ancora: non sai bene perché ti resta questa briciola di speranza, deposta sul fondo del cuore; o di quel residuo di cuore che riesci a percepire, pressato da un dolore a cui non riesci a dar senso. Sai solamente che la solitudine che ti è stata affidata dalla sorte, che ha reciso ad uno ad uno i tuoi più cari legami, non te la meritavi. Una caldaia più efficiente, che non ti costringa a docce ghiacciate una volta ogni due giorni: questa la meriteresti. Ma basta chiacchiere: devi andare a lavorare.

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Un improvviso bruciore al volto ti sveglia nel cuore della notte, come se t’avessero appena toccato lo zigomo con una carezza arroventata. Ti svegli, sei perplessa ma quando ti trovi di fronte allo specchio, capisci: ti sei rigirata nel sonno ed hai poggiato il viso sul braccio. Sei una stupida, ti dici: o forse non sei tu a dirlo, ma una voce che, ormai, s’è insinuata nella tua mente. Insinuata? Presupporrebbe un lavoro certosino e delicato; niente di tutto ciò: s’è fatta spazio a suon di pugni e schiaffi e insulti. Non sai bene quale sia stato il colpo che ha fatto breccia nella tua intimità: forse l’ultimo, forse il primo. Ma che importa? In fondo, a chi importa?

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È inutile piangere: è ormai il tuo mantra e ne sei convinto davvero. Ma hai tra le mani il suo ultimo disegno, guardi come un sacramento quelle linee colorate, la sua grafia ancora incerta: Io-mamma-papà. Niente spazi, solo due trattini che sembrano abbracci: e di spazio, tra te e loro, ora ne avverti fin troppo. In alcuni punti il colore è appena sbavato, forse ci hai pianto sopra. Chiudi gli occhi: hai quasi paura di rovinarlo, quel disegno, guardandolo così tanto. Ma è l’ultima cosa che ti resta, in una casa senza vita. Oppure piena di una vita che non vuoi più, perché ogni ragione per volerla – così ti pare – sono morte tra lamiere roventi, poi deposte sotto una terra pesante e scura. Ed è come se quella terra ti cadesse addosso lentamente, una manciata al giorno: e stai morendo un po’ alla volta.

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La vita umana è attraversata da esperienze diverse e variamente significative: tra le più forti, v’è certamente il dolore. Non il dolore melenso dei film di terza serie, dei romanzetti scritti da chissà chi; nessuna esagerazione vagamente pittoresca: si tratta del dolore misero, minimo, sordo che tutti gli esseri umani sperimentano, ciascuno in maniera differente. O forse tutti in maniera identica: a ben vedere, la prima cosa che il dolore sembra intaccare è il senso di comunanza con le altre persone. Chi patisce corre il rischio di percepire una solitudine radicale, inspiegabilmente efficace; di sentirsi isolato da tutti, incomprensibile a chiunque, di percepire una scollatura da una realtà di cui non ci si sente più parte.

Eppure, c’è almeno una ragione per cui nessuno può mai dirsi solo, una ragione per cui il legame che tiene insieme l’umanità non può essere reciso, mai: non importa con quanta forza veniamo abitati dal dolore, la frequenza con cui esso bussa alla nostra porta, l’incisività con cui scrive sulla nostra persona. È una ragione di cui, chiunque abbia sofferto, in fondo è in cerca e, forse, ha nell’esperienza del patimento una condizione necessaria per essere scoperta. In virtù di ciò, è possibile continuare a vivere, anche dinanzi ai dolori più pervasivi.

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Quale sia questa ragione, può insegnarlo una voce dei tempi passati, voce di uomo prima che di filosofo; la voce di uno che fu condannato all’esilio, lontano da tutti i suoi affetti, perché coinvolto in affari di palazzo, affari di potenti. È la voce di Lucio Anneo Seneca (Cordoba, 4 a.C. ca- Roma, 65 d.C.), costretto all’esilio nel 41 da Claudio che, in quell’anno, aveva succeduto Caligola – quest’ultimo liquidato da una congiura – al soglio dell’Impero romano. Nel 65, poi, fu invitato da Nerone, nei suoi primi anni da imperatore, a porre fine ai suoi giorni: era scomodo, fastidioso, lui e quel suo interesse per l’umanità. Lungo tutto l’arco della sua vita, Seneca dedicò all’essere umano e ai suoi patimenti larga parte della sua opera di filosofo e scrittore, cercando di scandagliare la profondità dell’animo umano e, possibilmente, di trovare un rimedio autentico, definitivo, a quel dolore e a quei patimenti che non solo scorgeva nel cuore altrui, ma anche viveva, in prima persona. Negli anni del suo esilio in Corsica, scrisse – tra le altre – un’opera particolarmente significativa a tal proposito: la Consolatio ad Helviam Matrem (Consolazione alla madre Elvia), in cui si cimenta nella consolazione della madre, affranta per l’ingiusto destino che s’è abbattuto sul figlio.

Quest’opera non è una orazione ex cathedra sull’inutilità del dolore, non si compone delle parole che bisogna dire dinnanzi ad una persona sofferente: niente parole di circostanza, nessun patetismo. Sono parole pronunciate da un essere umano tra altri esseri umani, radicalmente legato all’umanità e, con essa, non solo alla sua parte migliore: ovvero a quel quid nascosto nel profondo di ciascuno, quel sommo bene che non può essere né dato né tolto; ma anche ai difetti e alle debolezze che ogni essere umano manifesta, almeno una volta nella propria vita: egoismo, brama di potere. Seneca è un essere umano di carne ed ossa – potrebbero esisterne di diversi? – e la sua filosofia è inscritta nelle condizioni di tutta l’umanità, si rivolge ai problemi quotidiani che ciascuno deve, talvolta tragicamente, affrontare: ristrettezze, violenza, morte dei propri cari.

Ecco, dunque, perché dovremmo ritagliarci un po’ di tempo per accostarci alle parole di Seneca, a quelle con cui compone la consolazione a sua madre Elvia; ecco perché dovremmo farci il regalo di ricordarci che, in fondo, patiamo tutti gli stessi dolori e abbiamo tutti qualcosa per cui vale la pena consolarci, continuare a vivere.

Emanuele Lepore

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Turchia: un golpe fallito e il fallimento dei diritti

In Turchia, la notte di violenza tra il 15 e il 16 luglio ha visto fallire il tentativo di un golpe. Il premier turco ha costantemente manifestato forti timori di un possibile colpo di stato contro di lui: profeta o abile architetto?
Se questo rimane un interrogativo, quel che è certo è che di fatto il colpo di stato fallito ha reso Erdoğan ancora più forte.
Sarebbero circa 15.000 le persone arrestate; oltre 45.000 le persone sospese o rimosse dall’incarico; 20 siti web sono stati bloccati e sono stati 89 i mandati di cattura nei confronti dei giornalisti1.

Alla domanda del presidente turco “L’occidente è dalla parte della democrazia o dalla parte del golpe?”, mi pare opportuno rispondere che un colpo di stato è qualcosa di essenzialmente illiberale. La Turchia non deroga la norma.
Nel migliore scenario possibile avrebbe portato ad un diverso tipo di autoritarismo; nel peggiore avrebbe scaturito una guerra civile.
Eppure il fallimento del golpe non ha coinciso con la vittoria della democrazia, anzi.
Se intendiamo la democrazia non solo come espressione della libertà, ma anche approfondimento della dignità umana nel suo pieno significato, la democrazia ha fallito.
Erdoğan non si è fermato alle purghe. Il 21 luglio è entrato in vigore lo stato di emergenza. Il governo turco ha deciso di non applicare, in via temporanea, la Convenzione europea per i diritti umani. L’articolo 15 della Carta prevede la possibilità di sospensione della stessa «per motivi di pubblica sicurezza o di minaccia alla nazione», tuttavia, alcuni diritti non possono e non devono essere limitati.
Ad esempio, l’articolo 5 della suddetta recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». La pratica della tortura si prefigge lo scopo di annientare la personalità della vittima e negare la dignità della persona. Il divieto assoluto della tortura o qualsiasi altro trattamento inumano o degradante non tollera alcuna eccezione. Il governo turco si è reso protagonista di episodi di tortura e violenza nei confronti delle persone ree di essere state coinvolte con il tentato golpe.

Dobbiamo considerare Erdoğan come il Billy Budd di Melville? È davvero accettabile l’idea secondo la quale, in talune circostanze, la violenza sia l’unico modo di rimettere a posto la bilancia della giustizia?

È una sfida tra violenze? In uno scenario di violenza contro violenza, la superiorità del governo è sempre stata assoluta; tuttavia, tale superiorità dura soltanto fino a quando la struttura di potere del governo è intatta, cioè finché si obbedisce agli ordini o le forze di polizia sono preparate a far uso delle loro armi. Quando non è più così la situazione cambia totalmente.

È venuta a crearsi una realtà nella quale la violenza appare come l’ultima risorsa per mantenere inalterata la struttura di potere contro i singoli sfidanti, sembra in effetti che «la violenza sia un prerequisito del potere e il potere nient’altro che una facciata, il guanto di velluto che o nasconde il pugno di ferro oppure si rivela come appartenente a una tigre di carta»2.

Jessica Genova

NOTE:
1. www.amnestyinternational.it
2. Hannah Arendt, Sulla violenza

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