Alcuni spunti attuali da The Handmaid’s Tale

Basata sul romanzo omonimo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è una serie tv del 2017 e ancora in produzione che ha saputo far parlare di sé per il futuro (non troppo futuro) distopico che ne viene affrescato, in cui una repubblica patriarcale dominata dal fondamentalismo religioso crea un sistema di controllo totale, in cui le donne sono relegate a precisi ruoli che le tengono lontane da qualsiasi forma di decisione (comunitaria e personale) ma anche di libertà.

Moglie, Marta, Zia, Nondonna, Ancella: queste sono le uniche possibilità di vita delle donne adulte nella Repubblica di Gilead, che con la forza militare si è fatta spazio dall’interno negli Stati Uniti soppiantandoli in toto. Ci sono le Mogli (e tra queste spiccano quelle dei Comandanti, l’élite del sistema); le Marta, ovvero le domestiche; le Zie, crudeli addestratrici di Ancelle, particolarmente devote alla causa e ugualmente violente; le Nondonne, peccatrici e traditrici spesso relegate in luoghi come Jezebel (bordelli) o le Colonie (dove s’incontra morte lenta e dolorosa); infine le Ancelle, quelle che, in quanto fertili o già madri, vengono rapite e utilizzate come meri “forni” per garantire la discendenza dei Comandanti. Infatti, in questo futuro distopico le armi chimiche e nucleari hanno provocato un calo drastico della natalità e le Ancelle, appositamente addestrate, vivono nelle case dei Comandanti per poter essere fecondate – nei giorni di fertilità – durante una Cerimonia (di fatto uno “stupro cerimoniale”) a cui partecipano entrambi i coniugi.

“Tu non sei qui. Tu non esisti” si ripete Difred durante queste cerimonie. Difred è la protagonista, suo è il “racconto” cui si fa riferimento nel titolo. Negli Stati Uniti il suo nome era June Osborne, editor in una casa editrice, moglie di Luke e madre di Hannah; rapita da Gilead viene addestrata come ancella e in apertura alla serie la vediamo impiegata nella casa del Comandante Fred Waterford, da qui il nome Difred: sì perché se le Ancelle non hanno più un corpo, considerato come vero e proprio mezzo di procreazione, non hanno neanche più un nome proprio. Tanto è vero che, dopo aver dato alla luce il figlio dei Waterford, June viene spostata a casa di un altro Comandante, Joseph Lawrence, dove di conseguenza diventa Dijoseph.

C’è un motivo se nel 2018, durante le manifestazioni in Irlanda per il referendum sull’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione (che vieta l’interruzione di gravidanza) alcune donne si sono vestite da ancelle (abito rosso e copricapo bianco). Il libro della Atwood è addirittura del 1985 ma ci ha chiaramente visto lungo: negli anni Venti del ventunesimo secolo la società è ancora sostanzialmente patriarcale e desiderosa di esercitare il proprio controllo sul corpo femminile. Basti vedere la clamorosa cancellazione della sentenza Roe vs. Wade negli Stati Uniti poco meno di un mese fa. Per molti e molte questo è il vero e proprio centro del romanzo e anche il messaggio (per così dire) della scrittrice. June, la nostra protagonista, è una donna forte, ingegnosa e abile che non solo soffre le pene dell’inferno per non piegarsi al regime, ma riesce anche a spingere una lunga serie di personaggi (soprattutto Ancelle) a ribellarsi altrettanto. Anche in questo la modernità ha letto alcuni echi di attualità, e mi riferisco in particolare al movimento #MeToo che sta portando le donne a denunciare sempre di più i casi di stupro. Basti ricordare a questo proposito uno dei motti della saga – soprattutto della prima stagione –, una frase in latino maccheronico scritta su un muro da un’ancella poi morta suicida: “Nolite te bastardes carborundorum” (letteralmente “Non lasciare che i bastardi ti annientino”) che può agilmente diventare mantra universale.

Altrettanto interessante è la posizione delle altre donne in questo quadro: al di là delle temibili Zie, sono le Mogli ad attirare l’attenzione in quanto docili complici del sistema. Contraltare “Moglie” di June è Serena Joy Waterford: altrettanto forte e determinata ma sullo schieramento opposto, prima di Gilead è stata uno degli architetti del sistema e autrice di un libro che auspicava il ritorno delle donne al ruolo di madri e angeli del focolare. E poco importa che nella sua Gilead non potesse neanche leggere il suo stesso libro (in Gilead la lettura è proibita al sesso femminile, pena l’amputazione di un dito). Per questo Serena Joy viene vista da molti come un simbolo di tutte quelle donne che, nel nostro mondo attuale, sono partecipi ideologiche di questa autentica repressione femminile. Una donna estremamente egoista e narcisista, di pochi scrupoli, saltuariamente ribelle – si batte per esempio in un’occasione per il diritto all’educazione delle bambine – ma puntualmente punita, resta sostanzialmente complice visto che, tra le altre cose, essendo sterile ma volendo disperatamente un figlio non mette mai in discussione tutta la questione delle Ancelle.

Ma non solo questione femminile: altri spunti di riflessione stanno all’orizzonte di The Handmaid’s Tale. Merita attenzione tra le altre la lettura che ne ha fatto il famoso sociologo Slavoj Žižek, abbastanza fuori dal coro degli apprezzamenti. Ma questa è un’altra storia.

 

Giorgia Favero

 

[in copertina un fermo immagine dalla serie The Handmaid’s Tale]

la chiave di sophia 2022

La donna, la roba e altre proprietà

Quando i media occidentali decidono di mettere in cattiva luce un dittatore, un governo oppure un’ideologia, puntano tutto il loro arsenale di riflettori sui diritti umani, o meglio, su come i diritti umani in quel Paese vengano ampiamente calpestati.
Se in passato il mito del buon colonizzatore bianco – che persiste tuttora – si reggeva su quante scuole, strade e ospedali aveva costruito per elevare le popolazioni indigene alla civiltà, oggi l’occidentale plaude sé stesso per come, a differenza di altri, tratta la donna.

Attraverso i media, quindi, siamo portati a demarcare un confine oltre il quale vi è la barbarie, il medioevo1, l’ignoranza e la superstizione; come se tutte queste singole cose non ci riguardassero o facessero parte di un passato remoto, quasi biblico. Aprendo il testo sacro su cui si basano completamente, o in parte, le tre grandi religioni monoteiste si legge infatti: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Esodo: 20,17).

La donna, la moglie, è considerata parte dei beni materiali dell’uomo, magari non annoverabile propriamente tra gli oggetti, ma nella filosofia patriarcale tutto deve sottostare all’autorità del pater, cioè del maschio più anziano all’interno del nucleo famigliare. Estrapolare tutto questo da un paio di righe può sembrare azzardato, ma dove non arriva l’Antico Testamento arrivano diversi teologi e pensatori, che non solo presero alla lettera quanto scritto, ma lo rielaborarono solo per articolare i ruoli di genere, le caratteristiche che avrebbe dovuto avere la donna ideale ed il corretto rapporto che l’uomo avrebbe dovuto tenere con essa. Uno di questi fu senza dubbio Paolo di Tarso, che contribuì a delineare il ruolo della donna all’interno della famiglia e della società.

«La donna impari in silenzio, in piena sottomissione / Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva / Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di preservare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza» (Paolo di Tarso, Prima lettera a Timòteo, 2:11,13,15).

Al suo discepolo Tito lo stesso Paolo scrisse: «[insegna alle donne] a essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti» (Paolo di Tarso, Lettera a Tito, 2:5). Se è vero che si tratta pur sempre di un teologo vissuto all’alba della nostra epoca, è altrettanto vero che l’idea della donna sottomessa al marito restò sempreverde anche quattrocento anni dopo, quando Sant’Agostino d’Ippona, nelle sue Confessioni, scrisse a proposito di sua madre:

«Molte altre signore, […] portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto, e nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti. Essa deplorava invece la loro lingua, ammonendole seriamente con quella che sembrava una facezia: dal momento, diceva, in cui si erano sentite leggere il contratto matrimoniale, avrebbero dovuto considerarlo come la sanzione della propria servitù» (Sant’Agostino d’Ippona, Confessioni, IX.19).

Sorgono ora spontanee alcune domande: possiamo veramente affermare che la mentalità intrisa nelle citazioni precedenti sia scomparsa dalla società occidentale e che essa resista, sotto altri principi religiosi, in Medio Oriente tra i popoli arretratiSiamo sicuri che non esista, nel civilissimo Occidente, una non trascurabile spinta ideologica che vorrebbe ritrovare nella contemporaneità le esortazioni di Paolo di Tarso? O, ancora, che non esistano uomini capaci di concepire la propria compagna unicamente come proprietà?

Ha risposto a queste domande il regista Luigi Comencini che, tra il 1977 e il 1978, girò il documentario d’inchiesta sociale L’amore in Italia2 nel quale emerge una concezione della donna identica a quella di duemila anni prima. Ha risposto anche l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore – quello che salvaguardava l’onore di una minorenne stuprata da un adulto – dal codice penale solo all’inizio degli anni ‘80, praticamente l’altro ieri3.

Rispondono, infine, in modo del tutto cristallino: la mentalità del maschio alpha dominatore; l’ossessione per la tradizionalità dei ruoli di genere all’interno di una famiglia anch’essa tradizionale e la paura spasmodica della sua scomparsa; il Femminicidio ovvero «ogni pratica sociale violenta che attenta all’integrità, allo sviluppo psicofisico, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico» (M. Cavina, Nozze di sangue, 2011) e tutte quelle uscite infelici di uomini – e purtroppo anche donne – che in un sottile gioco di parole tendono quasi sempre a giustificare la violenza di un patriarcato duro a morire.

Difficile scardinare concezioni millenarie, difficile farlo dall’oggi al domani, ma lo è ancor di più evidentemente fare i conti con noi stessi, incapaci di riconoscere nel dramma di altre donne, in altri contesti, un difetto che appartiene certamente anche alla nostra società che di avanzato, civile o migliore di altre, per certi versi, sembra non avere proprio niente.

 

Alessandro Basso

 

NOTE:
1. Nota bene: a differenza di come viene utilizzato nel gergo comune, il Medioevo non fu un periodo buio.
2. https://www.raiplay.it/programmi/lamoreinitalia .
3. Nota bene: l’abolizione legislativa non implica quella consuetudinaria.

[Immagine di copertina proveniente da pixabay]

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Amabili resti – Alice Sebold

«Questi erano gli amabili resti, cresciuti intorno alla mia assenza, i legami, a volte esili, a volte stretti a caro prezzo, ma spesso meravigliosi, nati dopo che me n’ero andata. E cominciai a vedere le cose in un modo che mi lasciava concepire il mondo senza di me».
Susie Salmon è una ragazzina di quattordici anni con le aspirazioni e i sogni propri della sua età. Ma la sua giovane vita è destinata ad essere calpestata, straziata e recisa da un mostro, un insospettabile mostro che vive a pochi passi da casa sua, celato da una maschera di perbenismo.
Un mostro che il lettore individuerà ben presto e ben presto inizierà a disprezzare e odiare.
A raccontare la storia è la ragazzina uccisa, la voce narrante appartiene infatti alla stessa Susie che ci parlerà da un ‘Cielo’ tutto suo. Si tratta quindi di una prospettiva insolita che smarrisce e conforta allo stesso tempo. Dall’alto, Susie, osserva la vita continuare senza di lei, partecipa al dolore della sua famiglia e assiste agli strazianti momenti successivi alla sua scomparsa. Ma la sua attenzione non si focalizza solo sui suoi familiari distrutti dal dolore. Susie osserva anche il suo assassino, la freddezza delle sue simulazioni, la ripugnanza celata dietro ai suoi intenti, sostenendo a distanza l’intuito del padre che forse ha percepito prima degli altri un retroscena poco chiaro dietro quell’uomo apparentemente educato e tranquillo.
Amabili resti è un libro che non lascia indifferenti, impossibile trattenere le lacrime e non avvertire una morsa allo stomaco durante la narrazione. È un libro che scuote, destabilizza, ferisce. Un effetto per me amplificato dall’essere genitore, dall’essere madre di una bambina che mi auguro di saper proteggere da un mondo che sa essere spietato ben oltre l’umana immaginazione.
«Dentro la palla di neve sulla scrivania di mio padre c’era un pinguino con una sciarpa a righe bianche e rosse. Quando ero piccola papà mi metteva seduta sulle sue ginocchia e prendeva in mano la palla di neve. La capovolgeva perché la neve si raccogliesse tutta in cima, poi con un colpo secco la ribaltava. E insieme guardavamo la neve che fioccava leggera intorno al pinguino. Il pinguino è tutto solo, pensavo, e mi angustiavo per lui.
Lo dicevo a papà e lui rispondeva: “Non ti preoccupare, Susie, sta da re. È prigioniero di un mondo perfetto”».
 
original
 
Per alcuni lunghissimi istanti, quelli in cui Susie racconta della violenza subita, ho pensato di non farcela, di non riuscire a proseguire nella lettura. Il suo dolore è diventato il mio, l’orrore salendo dallo stomaco alla gola mi si è appiccicato addosso come una seconda pelle.
Eppure temi come la violenza, la morte precoce, il dolore per la perdita, vengono trattati con un tocco delicato, proprio perché filtrati dallo sguardo limpido e innocente di Susie.
Ed è sempre la piccola Susie ad impedire che il lettore venga inghiottito dalla rabbia e dal dolore, offrendogli qualcosa a cui aggrapparsi, offrendogli la speranza: l’amore è eterno ed è l’unico legame che non può essere spezzato.
Un’ancora di salvezza, ecco cosa offre l’autrice al lettore, quasi come se si sentisse in dovere di non caricarci di un fardello troppo pesante. Un’attenzione che accomuna molte persone che hanno subito violenza, e nella quale è forse possibile riconoscere il vissuto autobiografico dell’autrice.
La scrittura, semplice e lieve, rispecchia l’intento di mantenere dei toni dolci, tenui, senza permettere all’oscurità di prendere il sopravvento.
Struggenti le descrizioni dei familiari, dei genitori e dei fratelli di Susie, del modo di ognuno di reagire alla perdita. Queste, insieme ai flashback che la protagonista inserisce nel racconto, ci regalano uno spaccato di vita di una famiglia americana degli anni 70, una famiglia felice che vive in Pennsylvania quando la provincia americana è considerata un luogo sicuro, sereno, dove si respira ottimismo e positività.
Un libro toccante, con una protagonista che si impadronirà di un pezzetto del vostro cuore.
 

Stefania Mangiardi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Un orco in famiglia

Nel Marzo 2014 l’Agenzia Europea per i diritti fondamentali pubblica alcuni dati significativi riguardanti la violenza sulle donne.

In generale, il trentatré percento delle donne europee ha subìto violenza (sessuale, psicologica o fisica) almeno una volta nella vita.

Numericamente parlando, ciò vuol dire che una donna su tre ha subìto violenza nella propria vita.

Proviamo solo per un momento ad immaginare di passeggiare tra le vie delle nostre città ed a pensare che i volti di donne apparentemente felici, serene, senza preoccupazioni non siano altro che una maschera dietro alla quale si nasconde una sofferenza che non si può descrivere a parole. Sofferenza dovuta ad una violenza inflitta, nella maggior parte dei casi, da parte dei partner i quali dovrebbero essere le prime persone a donare affetto incondizionatamente senza pretendere nulla in cambio.

La situazione in Italia non è migliore rispetto al resto d’Europa; i dati italiani riportano numeri agghiaccianti: il ventisette percento delle donne dopo il quindicesimo anno di età e l’undici percento delle ragazzine prima dei quindici anni ha subìto violenze; su questo utlimo dato, in particolare, vorrei richiamare la vostra attenzione.

Ventuno milioni di donne europee ha subìto violenza in età inferiore ai quindici anni. Altro shock: in più della metà dei casi la violenza deriva da parenti e familiari.

“I genitori? Praticamente erano all’oscuro di tutto. Il padre sicuramente, mentre la madre, se pure possa aver intuito vagamente qualcosa, probabilmente ha preferito fare finta di nulla per non turbare l’equilibrio familiare“. Questo è quanto dichiara la Procura riguardo ad un caso di violenza a Piacenza.

La ragazzina vittima della violenza da parte dello zio aveva solo 12 anni. Il fratello di lei, dopo aver scoperto l’accaduto, ricattò la piccola costringendola con la forza a concedersi anche a lui dopo averla minacciata.

Facendo una piccola ricerca in internet, purtroppo, di casi come quello appena citato se ne trovano molti. Ma la vera domanda è: quante altre situazioni di questo genere sono presenti all’interno delle mura di casa nel nostro Paese? Quante storie di abusi e violenze si celano dietro ad un portone di casa?

Il silenzio può essere motivato da molti fattori: dalla minaccia, il poco coraggio, la vergogna, la paura. Proprio per questo è arrivato il momento di dare voce alle donne di qualsiasi età, religione, colore della pelle e nazionalità per denunciare ogni tipo di violenza.

“Casa è amore, non paura”, come ha scritto la mia collega Nicole due settimane fa, e dovrebbe essere così in qualsiasi posto del mondo.

Noi donne siamo state per troppo tempo in una posizione di sottomissione che ci costringeva a cadere nel vuoto senza poter urlare. Il silenzio tanto odiato e temuto alla fine restava l’unico vero conforto che ci rimaneva, ci abbracciava e non ci lasciava mai sole; da condizione di vita imposta si trasformava, quasi, in amico fidato su cui fare affidamento, la cui dipendenza era una stato cui era impossibile fuggire.

IO DICO BASTA!!!

Non possiamo chiuderci in una gabbia con il silenzio a farci da sbarre, non possiamo vivere aspettando la nostra ora di aria. Non si può vivere di immaginazione!

Vivere la vita in bilico ci porterà prima o poi a precipitare in un baratro senza fine, saltate!! Lo dovete ai vostri figli, alle vere persone che vi vogliono bene, ma soprattutto a voi stesse!

Qualsiasi donna merita una vita ricca di emozioni, felicità e soprattutto rispetto.

IO DICO BASTA…E TU?

Katia Maistro

[immagini tratte da Google Immagini]