Un paio di scarpe e null’altro. Una lettura di Van Gogh

Nel famoso scritto L’origine dell’opera d’arte del 1935, Martin Heidegger (1889 – 1976) afferma che il quadro di Vincent Van Gogh (1853 -1890), che rappresenta un paio di scarpe da contadino, è un’opera d’arte non perché imita perfettamente delle calzature, ma perché raffigura un attrezzo, colto in un non-funzionamento, capace di aprire un mondo. L’intero mondo del contadino che ha calzato quelle scarpe viene alla luce. Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’opera d’arte ha la capacità di dischiudere la verità sull’ente e questo scaturire della verità che in essa accade può essere colto soltanto a partire dall’opera. Non è chiaro a quale dei tanti quadri di Van Gogh in cui compaiono scarpe Heidegger si riferisca (probabilmente a Vecchie scarpe con lacci del 1886); ciò che più conta per il pensatore, di fronte all’opera d’arte, è la dimensione dell’ascolto e della meditazione e non il giudizio soggettivo che si può dare su di essa.

Nella voluminosa opera Vincent Van Gogh del 1950, il critico d’arte Meyer Schapiro (1904-1906), invece, vede nell’arte il destino personale del pittore olandese, che libera nei suoi quadri tutte le aspirazioni e le angosce contenute nel proprio io, anche se il suicidio rappresenta la chiara e definitiva testimonianza del fallimento di questo tentativo di salvezza attraverso l’arte. All’interno di questa cornice, secondo lo studioso, rientra il modo di Van Gogh di dipingere gli oggetti (come, ad esempio, il paio di scarpe). Il suo io è così attaccato alle cose da riprodurle ostinatamente più volte. Nell’interpretazione di Schapiro, l’artista dipinge oggetti, siano essi fiori, una sedia, un cappello, una pipa o delle calzature, in quanto estensioni del suo essere.

Le riflessioni del filosofo e dello storico dell’arte di fronte al quadro di Van Gogh sono alla base della disputa sorta tra i due studiosi sulla giusta interpretazione e sulla corretta attribuzione delle calzature dipinte dall’artista olandese. La contesa tra Heidegger e Schapiro ha luogo attraverso uno scambio di lettere intorno agli anni sessanta del secolo scorso. La polemica viene innescata dal secondo, che accusa il primo di aver attribuito
ingenuamente, e senza troppe precisazioni, la proprietà delle scarpe a un contadino, anche se appartengono allo stesso Van Gogh, trascurando l’importante aspetto della presenza dell’autore nella tela per adattarne il contenuto a una elucubrazione filosofica. Jacques Derrida (1930 – 2004) nel saggio La verità in pittura (1978) tenta di porre fine al problema delle scarpe di Van Gogh contese tra Heidegger e Schapiro. Il filosofo francese non condivide l’esasperato bisogno dei due contendenti di assegnare la proprietà delle scarpe e mette in luce come entrambi commettano diversi errori di interpretazione.

Un paio di scarpe e null’altro. Tuttavia…
È interessante rilevare che dal confronto serrato tra Heidegger e Schapiro emerge la capacità intrinseca di un’opera d’arte di innescare un confronto, seppure con risvolti polemici, tra diverse discipline. La celebre disputa sorta attorno al dipinto di Van Gogh riassume in modo emblematico due particolari punti di vista davanti a un’opera: da un lato un atteggiamento ermeneutico-filosofico e dall’altro un atteggiamento critico-artistico. Si tratta di due modalità diverse di accostarsi a un quadro che ognuno di noi può intraprendere, di volta in volta, senza necessariamente dover propendere in modo definitivo per l’una o per l’altra.

Quando visitiamo una mostra, attraversiamo con calma le sale, indugiando di fronte alle opere che ci colpiscono maggiormente. A volte ci poniamo davanti a una tela lasciando che dall’immagine raffigurata affiori un significato, che diventa fonte d’ispirazione per riflessioni su aspetti particolari della nostra esistenza o su concetti filosofici astratti. In altre parole, entriamo in una dimensione di ascolto, confidando che sia il quadro a parlarci. Altrimenti possiamo provare a definire il dipinto in modo più critico mettendolo in rapporto con altri dello stesso autore o con le vicende biografiche dell’artista, oppure, ancora, con l’epoca in cui è stato dipinto e, più in generale, con l’intera storia dell’arte.

È forse questo uno dei caratteri essenziali dell’opera d’arte, ossia quello di aprirsi liberamente allo sguardo degli spettatori. Un quadro ha la facoltà di generare molteplici rimandi, di volta in volta differenti a seconda del punto di vista da cui si vuole guardare il suo contenuto, diventando lo sfondo su cui stabilire un dialogo culturale vivo e fecondo. Un paio di scarpe dipinte, nel loro semplice mostrarsi all’interno di una cornice, si rende disponibile alle varie interpretazioni di chi osserva, aprendo dei mondi e generando confronti e riflessioni.

 

Umberto Anesi

 

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Scarpe, pipe, sedie: riflessioni artistiche sugli oggetti comuni

Lo sguardo dell’artista è un po’ come quello del filosofo: si posa rapito su tutto ciò che lo circonda nella sua quotidianità: persone, natura e anche oggetti. Anche questi infatti sono capaci di generare delle domande, o addirittura provano a rispondervi: ogni piccola cosa ha la sua ragion d’essere all’occhio dell’artista.

Tutto ebbe inizio con la natura morta, ovvero la rappresentazione di composizioni di oggetti inanimati, che con l’inizio del XVII secolo diventa vero e proprio genere autonomo. Da Caravaggio e i grandi maestri olandesi fino ai postimpressionisti come Cézanne e poi avanti fino alle avanguardie storiche in cui su tutti il maestro Giorgio Morandi, che si è applicato con dedizione a bicchieri, brocche, bottiglie e scatolette regalandoci infinite combinazioni di dignitosissimi oggetti inanimati. Un pittore poco capito, Giorgio Morandi (1890-1964), che per gran parte della sua vita artistica ha usato con estrema meticolosità questi oggetti comuni per una sua ricerca quasi puramente estetica su plasticità, rapporto tra volumi, colore, luce.

Facciamo però un passo indietro a riaprire la parentesi postimpressionista. Se nelle nature morte di Morandi si legge tutta la sua segretezza, il suo zelo e la sua attenta riflessione, molto ci dice del suo autore anche il famoso quadro Un paio di scarpe di Vincent Van Gogh (1886). “Famoso” perché oggetto di una querelle filosofica che ha attraversato decenni, partita dall’analisi di Martin Heidegger, continuata da Karl Jaspers e terminata (forse) con la controbattuta di Jacques Derrida scomodando infine un altro Jacques, ovvero Lacan. Ma perché proprio le scarpe? Un artista come Van Gogh che di autoritratti ne ha fatti a iosa, ci mostra invece tutto sé stesso in un paio di scarpe, più volte rappresentate. Delle scarpe brutte, consunte, logore, abbandonate, dimenticate. Scarpe che però non sono solo quello che dichiarano d’essere. Forse nemmeno lo stesso Van Gogh se ne rese conto, per quanto lui stesso affermava di dover «poter esprimere attraverso la pittura quello che ho nella mente e il cuore».

scarpe-van-gogh_la-chiave-di-sophia

Van Gogh

Proseguendo nella storia dell’arte, un pittore che invece si nasconde consapevolmente nelle sue opere è René Magritte. Il suo scopo, dichiarato anche nel suo stile iper-realistico, è di scomparire per lasciare l’interpretazione all’osservatore. I suoi soggetti, rappresentati come se fossero reali, sono invece assurdi e sfidano gli automatismi della mente, abbandonando chi guarda a darsi una propria risposta. Così facendo i suoi oggetti (trombe in fiamme, sonagli fluttuanti e giganti bicchieri che siano) sono proprio quello che dichiarano d’essere; sono invece i rapporti tra di essi a spalancare infiniti mondi possibili. La chiave di lettura di tutto questo ce la offre Magritte su un piatto d’argento, o meglio su un quadro che non a caso s’intitola Il tradimento delle immagini (1928-29). Si tratta dell’opera famosissima di una pipa accompagnata dalla scritta che nega che quella pipa sia una pipa. Il senso, come è noto, è che il disegno di una pipa e una pipa “in carne ed ossa” non sono la stessa cosa, e che il disegno di una pipa non rappresenta l’universalità di tutte le pipe esistenti. Chiaro, no? Un’intera e complessa visione del mondo racchiusa in una tela che “la saprei fare anche io”; però Magritte è stato un artista immenso e io copiandolo non potrei mai esserlo.

L’arte dunque, il regno delle immagini, si apre anche alla parola. Il trionfo di tutto questo lo abbiamo avuto con l’arte concettuale, ovvero quando l’arte ha deciso di liberarsi dell’estetica e mettere sotto gli occhi un ragionamento nudo e crudo. Non a caso, uno dei suoi padri costituenti fu Joseph Kosuth, avido lettore e grande estimatore di Ludwig Wittgenstein. Opera emblematica in questo senso è Una e tre sedie (1965) e anch’essa riflette sul rapporto tra oggetto, immagine e parola. Attraverso una installazione che vede la presenza di una sedia, la sua riproduzione fotografica e la sua definizione da vocabolario, Kosuth cerca una risposta alla domanda “che cos’è una sedia?”. Proprio la domanda, insieme all’esecuzione e l’oggetto finale (che l’artista non a caso chiama talvolta residuo) è arte.

kosuth_oneandthreechairs

Joseph Kosuth

Seguendo il filo, è evidente che in questa riflessione sugli oggetti nell’arte si è volutamente tralasciato un gigante, ovvero Marcel Duchamp con il suo ready-made; senza però dimenticare che, senza questa fortissima e geniale dichiarazione artistica, l’universo dell’arte sarebbe probabilmente molto diverso. Ma saremmo molto diversi anche noi osservatori, ormai giustamente abituati a un’arte che non deve soltanto stimolare i nostri sensi, ma anche porci delle impreviste domande.

 

Giorgia Favero

 

[Fonti immagini: artspecialday.it (Magritte, immagine di copertina), Wikipedia (Van Gogh e Kosuth)]

la chiave di sophia 2022

La notte dell’anima fra inquietudini e speranza

Conoscere l’uomo e dunque conoscere se stessi implica penetrare i meandri dell’anima, attraversare le salite impervie e le pendenti discese della propria intimità più profonda. Quante volte nel corso della nostra vita ci troviamo immersi nel flusso impetuoso di emozioni e pensieri che come una corrente carsica solca le pareti più profonde della nostra anima? Quante volte questo fluire di pensieri ed emozioni ci fa sprofondare nella notte oscura dell’anima? Un buio al quale, più o meno consapevolmente, ci conduciamo o siamo condotti da contingenze esterne. Da un lato, una condizione di spaesamento intellettuale, che può portarci a sperimentare il vuoto, il nulla dell’esistenza. Dall’altro, uno smarrimento emotivo, che può condurci ad una profonda sofferenza psicologica e spirituale, nei misteri oscuri della tristezza, dell’angoscia e della disperazione.

Accogliere queste pause dell’anima significa accettare la propria finitudine, la propria umana miseria, la propria infinita piccolezza. Convivere momentaneamente con l’inquietudine del pensiero e delle emozioni che spesso si avviluppano in una inspiegabile e angosciante morsa, tuttavia significa riconoscere che la nostra anima non è immobile, ma che essa è in divenire, che il dinamismo che la caratterizza non si è arrestato, ma sta attraversando le faticose paludi dell’esistenza. In questo senso è possibile riconoscere il travaglio dell’anima, la sofferenza psicologica e spirituale dentro la storia del singolo, espressione dell’umanità.

Conoscere se stessi richiede di prendere coscienza della notte oscura dell’anima, di quel vuoto spaesante e talora disturbante, che sembra difficile colmare. È questa la condizione esistenziale che hanno sperimentato i più grandi maestri del pensiero e dello spirito, che sarebbe onesto definire maestri di vita. Pensiamo alla profonda conoscenza dell’animo umano di Socrate, all’esercizio interiore di Seneca e Montaigne, alle inquietudini del cuore di Agostino d’Ippona, al travaglio interiore di Giovanni della Croce, allo strazio esistenziale di Pascal, Leopardi e Kierkegaard, al buio dell’anima conosciuto da Simone Weil e Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. Costoro hanno attraversato la notte oscura dell’anima, ne hanno sperimentato l’abisso e, più di qualsivoglia manuale di psicologia, possono testimoniare ancor oggi, attraverso i loro scritti sgorgati dalla sera della vita, il cammino tortuoso e sfavillante dell’anima alla ricerca di se stessa e del proprio senso.

Coloro i quali abbiano sperimentato le notti senza stelle dell’anima, si sono al contempo resi consapevoli che è proprio il vuoto, il nulla, la via verso il tutto, verso la pienezza. Solo la mancanza infatti induce l’incessante ricerca personale. Non a caso la parola desiderio (dal latino de-sidera) significa assenza delle stelle, brama d’infinito. L’uomo disposto a scendere nell’abisso della propria interiorità è l’uomo disponibile ad oscillare fra il nulla e il tutto, poiché consapevole che l’uno è foriero dell’altro. La contemplazione profonda non s’arresta dunque allo smarrimento interiore, ma riesce a scorgere, proprio nell’acme del travaglio, la luce della speranza che dà significato a pensieri ed emozioni trasfigurandoli positivamente. Cogliere anche solo i riflessi delle stelle nel torrente impetuoso dell’angoscia e della disperazione, implica la fiducia che le doglie del parto siano generatrici della vita e consente di intravedere che il dolore può essere fertile humus per ogni gesto creativo, per ogni atto d’amore e di vita. In questo senso, come non pensare all’inquietudine psicologica e spirituale di Vincent Van Gogh, dalla quale sono affiorate alcune fra le pennellate più intense, struggenti, appassionate e coinvolgenti della storia dell’arte. Come non ricordare la travagliata esistenza di Alda Merini, dalla cui sofferenza interiore sono sgorgate con slancio creativo poesie traboccanti di vita, amore e bellezza.

È questo l’approdo spirituale di ogni essere umano che vive secondo saggezza e che, avendo conosciuto il vuoto interiore e non smettendo di camminare per le praterie della propria anima, non si stacca dal mondo, ma ne prende attivamente parte per far sì che il suo viaggio interiore diventi generativo anche per tutto quanto è altro da lui. Per questo, è importante riconoscere il lavorio dell’anima anche quando calano le ombre della notte nella nostra esistenza, quando tutto sembra precipitare e perdersi in un abisso senza fondo. Quando ogni significato sembra svanire in un nichilismo distruttivo, è lì che possiamo cogliere espressioni veramente umane. L’inquietudine va dunque riconosciuta, accolta e rispettata in noi e in chi ci sta dinanzi come cifra dell’esistere, come punto di partenza ma non come approdo finale. Le trepidazioni dell’anima ci attraversano e ci trasformano positivamente se cogliamo in noi e negli altri barlumi di speranza che possono emergere anche nelle esistenze più disperate e angosciate. È importante spalancare le porte alla speranza che fa capolino proprio nelle notti oscure della vita. Essa è l’espressione della libertà ultima dello spirito, che conduce l’uomo a trascendere l’immediatezza del presente proiettandosi verso il futuro. Educhiamoci dunque ad ascoltare voci e silenzi dell’anima, a coglierne ombre e luci, a scorgere la speranza anche nelle lacrime, nel grido doloroso o talvolta strozzato dell’angoscia esistenziale che lacera l’interiorità. Educhiamoci a comprendere i moti profondi dell’anima che oscillano fra il dicibile e l’indicibile, fra il visibile e l’invisibile. Proprio accogliendo in noi e nell’altro questa tensione dialettica, fra ciò che può essere detto e l’inesprimibile, è possibile intravedere la speranza, che si riverbera luminosa come la luna sul mare della notte. Anche nelle tenebre dell’anima non cessiamo di coltivare in noi la speranza poiché, come affermava il filosofo tedesco Walter Benjamin: “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. La speranza è infatti garanzia di possibilità per lo spirito affinché si determini la libertà del singolo e la sua responsabilità, per il presente e per il futuro, nel tempo della vita e della storia.

Le inquietudini interiori sono la nudità dell’anima di fronte a noi stessi e all’altro, ma in questa fragilità di pensieri ed emozioni è custodita la vera forza umana. Invero, l’aver attraversato il travaglio della propria anima ci permette di avvicinare maggiormente il mondo interiore dell’altro, evitando di divenire monadi senza porte e finestre, immedesimandoci nella sua imperscrutabile essenza e nel suo vissuto con attenzione, sensibilità, rispetto e calore umano, aiutandolo a scorgere la speranza che, seppur leggera e impalpabile come la brezza estiva, è il motore che permette alla vita di non arrestarsi e di proseguire il proprio misterioso cammino.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo Credit: Hisu Lee via Unsplash.com]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

Da lupi a virus, genesi del parassitismo nelle relazioni sociali

L’espressione latina homo homini lupus, proverbio pessimistico, derivato dall’Asinaria di Plauto, e assunto dal filosofo T. Hobbes, nella sua opera “De cive”, per designare lo stato di natura in cui gli uomini, soggiogati dall’egoismo, si combattono l’un l’altro (Treccani), è oggi a mio avviso sostituibile con il motto Homo homini virus (titolo del mio secondo romanzo, in cui affronto il tema degli abusi di potere nell’epoca presente).

La filosofia hobbesiana, strumentalmente politica e asservita a un’idea assolutistica di potere, era innanzitutto possibile se la si considera inserita in un’epoca a cavallo tra due rivoluzioni ma soprattutto un’epoca in cui erano ancora pienamente in vigore nel bene e nel male quei valori forti, da cui conseguivano i doveri forti, che hanno poi caratterizzato la modernità e nella fattispecie l’ascesa dell’individuo, della sovranità nazionale degli Stati e del modello di contrapposizione natura/cultura, con conseguente appropriazione della natura.

Di fronte a valori e doveri che pongono l’uomo al centro dell’universo, possiamo incontrare due fondamentali concezioni dell’essere umano: quella di natura pessimistica, che vede nell’egoismo e nella guerra di tutti contro tutti l’essenza ultima dell’umano, seguita poi anche da Schopenhauer. E quella di natura ottimistica, base invece del pensiero anarchico, con le parole di Errico Malatesta:

“L’Anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario, l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà.”

Ora cosa accade? Entrambe queste visioni del mondo, che costituivano una contrapposizione di tipo polare, vengono a vanificarsi con il crollo del sistema di valori forti, e di conseguenza doveri forti, caratteristici dell’epoca moderna, simultaneamente crolla il concetto di centralità dell’uomo nell’universo e nella natura, possibilità dell’individuo, dello Stato e della coscienza, di essere realmente indipendenti dall’ambiente circostante.

Non si potrà qui considerare, per ragioni di spazio, in termini ontologici, tutto il processo di decentralizzazione dell’individuo ma, in particolare verrà affrontato il tema dell’implosione dei valori e della difficoltà di trovare un pensiero realmente antagonista (come fu nell’Ottoento il pensiero anarchico).

Per capire come gli esseri umani si siano trasformati da lupi in virus occorre considerare tre fondamentali fattori: l’economico, il sociale e lo psichico.

Dal punto di vista economico abitiamo chiaramente un’epoca che ha sostituito il modello economico al politico e dunque vive questo squilibrio tra le forze economiche in gioco e i meccanismi politici ad esse subordinati (si pensi al recentissimo fallimento del tentativo di Tsipras di ridare sovranità al popolo greco). Lo strapotere delle banche determina forme politiche asservite alla logica di un capitale sempre più volatile e sempre meno legato alle reali esigenze delle persone e, sul piano politico, istituzioni, partiti e Stati altro non sono che gli emissari di questa egemonia ultracapitalistica. Ciò determina situazioni più o meno torbide di precariato in cui a farne le spese sono per lo più i giovani e in particolare la classe media che, come aveva previsto Marx ormai due secoli fa, va via via proletarizzandosi, fino alla totale estinzione come entità.

Il precariato a sua volta determina inequivocabilmente una competizione sfrenata per potersi garantire un posto di lavoro a tempo e sottopagato, dunque sfruttamento e guerra, dove il più povero viene additato come capro espiatorio (si pensi alle recenti dispute infinite e spesso in malafede sul ruolo dei migranti) e viene demolita qualunque forma di sostegno per chi è considerato scarto.

È precisamente questo il punto da cui partire per considerare il mutamento antropologico dell’uomo da lupo a virus. Il lupo è l’individuo forte che può duellare con il proprio simile attraverso una chiara definizione dei ruoli e delle forze in gioco. Il virus non può duellare alla luce del sole poiché abita negli anfratti, è indovato e si confonde con gli acidi nucleici della cellula ospite, promuovendo, con la sua attività, la distruzione non solo dell’ospite ma, ovviamente, come conseguenza, anche di sé.

Dal punto di vista sociale assistiamo dunque alla tendenza verso l’ascesa assoluta del valore fasullo, poiché artificioso e innaturale, della reputazione, non direttamente confrontabile con le reali qualità personali, ma legata al simulacro sociale delle stesse. Operando dunque un ribaltamento dell’ordine semantico del lemma, come spesso accade (anche nel caso del termine virale), il lessico postmoderno agisce in modo mistificatorio e strumentale sull’ordine linguistico.

Reputazione da social network in particolare, si pensi a quante volte avvenga che per decidere di offrire o meno un impiego, non parliamo di lavoro equamente retribuito: ormai una lontana chimera del secolo scorso, ma semplicemente un impiego a qualche d’uno si vada a googlare il suo nome o direttamente a navigare sulla sua pagina Twitter o Facebook per accertarsi di quanti mipiace abbia, quanti seguaci, di quale tipo, cosa dicano di lui, e ci si fa così un’idea del livello di reputazione del suddetto individuo.

Ciò crea automaticamente scarti e livelli d’appartenenza sociale, non più definibili in quanto classi, e per ciò stesso capaci di coscienza di classe e dunque di lottare per la propria emancipazione, ma definibili in base alle proprie abilità comunicative, alle proprie abilità manipolatorie e alle proprie abilità associative. Scarti, per esempio, sarebbero grandi artisti e filosofi con carenze nella sfera socio-affettiva come, per citarne solo alcuni: Arthur Schopenhauer, Vincent Van Gogh, Emily Dikinson. Mi si potrebbe obiettare che costoro fossero considerati outsider anche nei secoli in cui hanno vissuto, ma esisteva ancora, nel corso del Novecento, la possibilità di rivalutare e rielaborare il passato secondo una logica non strettamente economica, una logica imperniata su valori umanistici e universali, che ponevano l’insegnamento e dunque la trasmissione di un messaggio, al centro della ricerca.

Veniamo ora alla questione della salute mentale. In un’epoca dove tutto è improntato sui numeri, sulla valenza economica degli individui e delle tribù, viene a saltare qualunque conquista basagliana. È paradossale come la follia divenga il centro focale del discorso: si chiede agli individui di essere estremi, di sperimentarsi fino a smembrarsi, di perdere l’identità, di conformarsi alla volatilità dell’epoca presente, dunque di impazzire, e contemporaneamente si etichettano come malati mentali tutti colori i quali eccedano dalla logica binaria delle appartenenze. Si creano nomi ad ok per vendere farmaci ad hoc. E qui i virus danzano, completamente liberati da qualunque forma di compassione. I virus si nutrono principalmente di fragilità umana, diversità, incapacità relazionale. I virus banchettano sulle ceneri degli adolescenti morti per abuso di sostanze, sui pazienti psichiatrici uccisi dai TSO, sulla dicitura “disfunzionale”.

Ora, è necessaria e urgente per contrapporsi alla logica binaria funzionale/disfunzionale, mipiace/nonmipiace, in/out, una riappropriazione del concetto hegeliano di riconoscimento, del concetto schopenahueriano di compassione, del concetto maffesoliniano di ecosofia.

Dunque re-imparare a riconoscere l’altro come sé, partendo dalla massima schopenhaueriana: “Rinascerai un giorno nelle vesti di colui che ora offendi e subirai la stessa offesa.” E per far questo, con i valori e i cardini mutati nel tempo presente, è necessario decentrarsi (de-egogizzarsi), riscoprire la prospettiva ecosofica di essere parte di un tutto vastissimo e immenso, noi, come l’altro, senza nessun gradino, senza nessuna scala sociale.

Ilaria Palomba

 

Biografia

Ilaria Palomba è una scrittrice italianma.
Ha pubblicato il romanzo “Fatti male” (Gaffi), tradotto in Germania per la Aufbau-Verlag nella collana Blumenbar, con titolo “Tu dir weh”; la raccolta poetica “I buchi neri divorano le stelle” (Arduino Sacco); la raccolta di racconti “Violentati” (ErosCultura), di cui un racconto pubblicato negli Stati Uniti per il Mammoth Book, l’antologia di racconti curata da Maxim Jakubowski. Grazie a una Borsa di Studio Internazionale, ha elaborato il saggio “Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art” (Dal Sud), durante un anno di studi al CeaQ, diretto dal Prof. Maffesoli; il romanzo “Homo homini virus” (Meridiano Zero), d’ispirazione per molte performance teatrali e di body-art; il racconto “Il potere della negazione”, tradotto in francese e pubblicato in duplice lingua nel numero “le BAROQUE” (2015) della rivista internazionale “Les Cahiers européens de l’imaginaire”, fondata da Michel Maffesoli e Gilbert Durand.

Ha esperito sul proprio corpo, non solo come ricercatrice, l’ebrezza della performance art, grazie al workshop “Chi sei tu” con Franko B e al workshop di Performazione con Antonio Bilo Canella e Hossein Taheri.
Scrive per le riviste “Succedeoggi”, “Mag O” il magazine di Omero, “Night Italia”, “Pastiche”, “Nova”, “Flussi Potenziali”. Alcuni suoi scritti sono entrati a far parte di antologie letterarie.
http://www.ilariapalomba.it/

https://ilariapalomba.wordpress.com/

https://www.facebook.com/IlariaPalombaLibri