Adolescenti e giovani in cerca di senso

Adolescenti e giovani del tempo presente veleggiano nell’incertezza come “navi in gran tempesta”, avendo perso la direzione della loro esistenza. La fatica che attanaglia le nuove generazioni è caratterizzata, molto più che da una frustrazione sessuale o da una frustrazione sociale, da una frustrazione esistenziale. La crisi economica del nostro tempo è senz’altro un indicatore che non può essere omesso nel tentativo di spiegare le esistenze stanche e lacerate di moltissimi adolescenti e giovani. Ma la spiegazione più sottile e profonda è da ricercarsi in una crisi esistenziale che attraversa come una lama affilata mente e cuore di ragazzi e ragazze in cerca del proprio posto nel mondo.

La società ipermoderna ha cercato in tutti i modi di affermare il principio di piacere e la volontà di potenza e prestigio, ma ha dimenticato di riconoscere il motore principale della vita dell’uomo: la volontà di significato. Dare un senso alla propria esistenza precede, e non segue, il principio di piacere o la volontà di potenza. L’uomo infatti ha bisogno di uno scopo che dia direzione alla propria vita, ha bisogno di un perché per poter vivere.

La frustrazione delle giovani generazioni è dunque e primariamente esistenziale. Una fatica nella ricerca del senso della propria vita che spesso finisce per essere rinuncia, resa, abbandono, cedimento sul proprio desiderio. In merito, si rileva troppo superficialmente come la psico-apatia, la noia e la depressione siano i moventi di gesti estremi. Mentre, con maggior coraggio e profondità, si dovrebbe sottolineare che queste manifestazioni dell’esistenza sono originate da un abissale vuoto di senso, che si erge di fronte alla comunità degli adulti come un grido che invoca ascolto. Se esso non viene riconosciuto, se non si presuppone che, anche in un giovane delinquente, in un annoiato, in un depresso, in un tossicodipendente, in un suicida, scorre profonda come una corrente carsica, la volontà di strappare un senso alla vita, allora renderemo giovani uomini e giovani donne eternamente frustrati e apatici. Comprendere nella nostra antropologia anche la volontà di significato implica edificare una filosofia, un’etica, una psicologia e una pedagogia che puntano alla pienezza e alla bellezza dell’esistenza dell’uomo. Fu proprio il poeta Goethe ad affermare:

«Se tratti una persona per come è, resterà quello che è, ma se la tratti per ciò che potrebbe essere diverrà ciò che dovrebbe e potrebbe essere».

In linea con questa “antropologia dell’altezza” lo psichiatra viennese Viktor Frankl riteneva opportuno superare ogni tipo di riduzionismo umano in favore di una visione comprensiva e integrativa di tre fondamentali dimensioni: corporea, psichica e noetica. Quest’ultima, è la dimensione attraverso la quale è possibile scoprire quotidianamente il senso della propria esistenza. Essa riguarda il nostro intelletto e il nostro spirito. La personale capacità di deciderci sempre ciò che vogliamo essere, per quale motivo siamo disposti a vivere, soffrire e morire. È questa la dimensione specificatamente umana attraverso la quale anche corpo e psiche possono trovare equilibrio, per questo è fondamentale riconoscerla, alimentarla e non frustrarla. La tensione verso il significato, per quanto impegnativa, è decisiva e indispensabile per la salute e il benessere olistico di ciascuno. Scrive infatti Frankl: «Non c’è nulla al mondo, oserei dire, che può aiutare qualcuno a sopravvivere così efficacemente anche nelle condizioni più diverse come sapere che c’è un significato nella propria vita»1.

Ascoltiamo il disperato grido dei giovani alla ricerca di un perché. Solo avendo un perché potranno sopportare quasi ogni come. Aiutiamoli a scoprire di ora in ora il senso della propria esistenza. Sfidiamoli a realizzare il potenziale significato della loro vita, incentiviamoli a ravvivare il fuoco di questa sana tensione, affinché si muovano da ciò che hanno compiuto verso ciò che ancora attende di essere da loro realizzato nel futuro. È proprio questo desiderio di attuare un valore nel futuro che, secondo Frankl, ha tenuto in vita lui stesso e molti altri internati nel secondo conflitto mondiale.  Egli scrive: «quando fui portato al campo di concentramento di Auschwitz, mi fu confiscato un manoscritto pronto per la pubblicazione. Di certo, il mio profondo desiderio di riscriverlo ex novo mi aiutò a sopravvivere alle difficoltà dei campi dove mi trovavo»2.

Il vuoto interiore delle giovani generazioni non va dunque sottovalutato. È un segnale. È il richiamo ultimo ad affiancarli nella fatica, non per imporre loro il significato, ma per mostrargli che esso si presenta come un appello unico e irripetibile che la vita pone nell’esigenza dell’ora. «Ogni uomo viene interrogato dalla vita; alla vita lui può solo rispondere in modo responsabile»3 afferma Frankl. Scoprendo verso chi o che cosa si sente responsabile, un’altra persona, un alto ideale, la propria coscienza, oppure Dio, l’uomo può inondare di senso la propria esistenza. Il significato è peculiare per ogni uomo, invero «il compito di ciascuno di noi è tanto unico quanto unica è la nostra capacità di raggiungerlo»4.

I giovani, seppure spesso in modo inconsapevole, comunicano questa profonda crisi e reclamano ascolto attivo e partecipe alla loro angoscia esistenziale. Gridano, talvolta con pensieri e comportamenti (solo) in apparenza incomprensibili, per sottolineare agli adulti che il vuoto, non va riempito con oggetti, protezione soffocante, libertà di godimento senza limiti, illusioni a buon mercato, ma con un’attenzione rivolta alla speranza di una vita ricca di significato, nonostante le ombre (o proprio  grazie a esse) che la contraddistinguono. Adolescenti e giovani invocano cura per le loro fragilità e chiedono che si vada alla radice del vuoto che sentono. Solo un ascolto paziente e uno sguardo profondo permettono di riconoscere e raggiungere questa radice, questa fragilità alla quale è sotteso il desiderio ancestrale di una vita piena di senso. Solo se si sentiranno ascoltati e se vedranno riconosciuto e valorizzato il loro primario bisogno di dare significato alla propria esistenza, i giovani potranno ritrovare la rotta della loro “nave in gran tempesta”.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, tr. it di N. S. Sipos e M. Franco, Franco Angeli, Milano, 2017, p.119.
2. Ivi, p. 119.
3. Ivi, p. 123.
4. Ibidem.

[Photo credits: Jessica Ruscello via Unsplash]

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Nizza. La sofferenza e la domanda di senso

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello.[…]

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare

F. Guccini

Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, Nizza: la spada di Damocle del terrorismo incombe sulle nostre esistenze. Posti di fronte a questi tragici eventi, dai cuori piangenti e dalle menti pensanti sorgono forti e spontanee le domande che interpellano l’uomo dalla notte dei tempi. Lame affilate che squarciano “il velo di maya” della superficiale quotidianità. Perché il dolore? Perché il male? Perché la violenza? Perché la sofferenza? Interrogativi che assumono un contorno ancor più straziante e incomprensibile, quando è l’uomo stesso a uccidere l’altro uomo, a provocarne la morte e l’annientamento.

Tali domande si fanno largo fra le nostre vite, reclamano risposte concrete, interpellano le nostre coscienze. “L’umanità – scrive Salvatore Natoli – in tutta la sua storia è stata attanagliata dall’esperienza del dolore e ad essa ha voluto dare un senso, di essa, in qualche modo, ha tentato una giustificazione”.1

Al di là dell’inconsistenza di certe risposte, l’uomo si sente chiamato a dare un senso alla sofferenza, in mancanza del quale ogni cosa assumerebbe le grigie tinte del non senso, con la conseguente svalutazione di ogni valore umano. Il dolore è quanto di più proprio, peculiare, individuale possa darsi nella vita degli esseri umani, i quali non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli:

Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. […] il dolore è un’esperienza a suo modo originaria. L’umanità, provata dal dolore, si cimenta con esso e tenta risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo vanifica come apparenza, ora lo percepisce come ineluttabilità. Il dolore, come contrassegno di ciò che esiste, diviene allora occasione di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza.2

Come Natoli, anche Viktor Frankl ha l’indiscusso merito di aver posto al centro della sua riflessione filosofica e psicologica, il senso della sofferenza a partire dal dolore. La singolarità di quest’esperienza, la solitudine di ogni soffrire segna e in qualche modo anticipa la più peculiare e solitaria delle esperienze umane: la morte. Per questo, una fenomenologia della sofferenza è possibile solamente alla luce di una profonda e strenua ricerca del suo significato.

Di fronte a un destino tragico e ineludibile, l’uomo si coglie come una struttura ontologica attraversata dal male e dalla sofferenza. Si coglie, non più come homo sapiens o homo faber, ma come homo patiens. La sofferenza diviene concreta possibilità di significato. Frankl sostiene che, anche nella tragedia, ciascuno di noi può trovare un senso alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio  alla sventura e alla sofferenza.

L’uomo, anche rispetto alle gravi sciagure di questi giorni, è posto di fronte ad una sfida: affrontare il male a testa alta o soccombere. Egli può imparare a soffrire solo se non rinuncia alla sua dignità e alla sua responsabilità di fronte alla vita e al dolore irreversibile. Frankl, nella baracca del lager, cerca di aiutare i propri compagni a riscoprire il senso della vita. Proprio lì, proprio all’inferno:

Parlai delle molte possibilità di dare un senso alla vita. Raccontai ai miei compagni […] che la vita ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che quest’ultimo senso dell’essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. […] li pregai di mantenere il loro coraggio […] perché la nostra lotta senza via di scampo aveva un senso e una sua dignità. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!3

Il compito dell’uomo è dunque quello di contrastare e superare interiormente il dolore inevitabile che lo colpisce dall’esterno. Un vita contrassegnata dalla sofferenza, può essere inondata di senso quando il singolo trova una ragione di vita idonea a sopportare la sofferenza stessa. Scrive Frankl: “è possibile affrontare la sofferenza e coglierne tutta la portata significativa solo se si soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. […] Una sofferenza ha senso quando è sofferenza ‘per amore di…’. Mentre la si accetta, non solo la si affronta ma, attraverso di essa, si ricerca qualcosa che non è ad essa identica: la si trascende”.4

Imparare a dare un senso alla sofferenza è un lungo e faticoso cammino che richiede la capacità di soffrire. L’uomo non possiede questa capacità “deve acquistarsela, deve guadagnarsela: se la deve soffrire”.5 Essa rientra fra le doti con un alto valore umano e spirituale. Può essere acquisita dal singolo a partire da una libera scelta interiore. La sofferenza diviene così occasione di maturazione psicologica per l’uomo. Una maturazione che conduce alla riscoperta della libertà interiore, la quale anche di fronte agli eventi più tragici rimane sempre libera di scegliere come disporsi dinnanzi agli eventi stessi. Proprio per questo Frankl sostiene che “l’uomo è libero di dominare – almeno – interiormente il proprio destino”.6 Forse, questa è l’unica possibile risposta costruttiva e positiva alle domande suscitate dalle immagini di morte e disperazione, che in queste ore scorrono sotto i nostri occhi attoniti.

Alessandro Tonon

Note

1 S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, pp. 12-13.

2 Ivi, pp. 8-13.

3 V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.

4 V. E. FRANKL, Homo patiens, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 86.

5 Ivi, p. 77.

6 Ivi, p. 83.

Viktor E. Frankl: i pieni granai del passato

<p>UNSPECIFIED - CIRCA 1994:  Portrait of austrian psychologist Viktor Frankl, Photograph, 1994  (Photo by Imagno/Getty Images)  [Portr?t Viktor Frankl, Photographie, 1994]</p>

In alcuni momenti della vita, a molti di noi capita di fermarsi un istante, voltarsi indietro e osservare il film della propria esistenza sin lì vissuta. Una pellicola che scorre a velocità sostenuta davanti ai propri occhi. Ricordi, emozioni, fatiche, sofferenze, gioie e dolori. Le più diverse situazioni ed esperienze, declinate secondo l’unico ed irripetibile cammino di ognuno. D’improvviso però, lo sguardo si fa triste. La malinconia inizia a prendere il sopravvento sulle altre emozioni e ci inonda come un fiume straripante di sconforto. Tale sentimento non è dettato solamente dal sovvenir alla mente di scene e ricordi negativi, sofferenze o dolori. No. Il più delle volte è dovuto alla percezione nostalgica che quanto abbiamo vissuto se ne sia concretamente andato, sia svanito nel nulla, in una dimensione non più raggiungibile se non attraverso qualche sbiadito e non più certo ricordo. Questo vale anche e soprattutto per quanto abbiamo gioito e quanto di positivo abbiamo vissuto.

Lo psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl, fondatore della Logoterapia e Analisi Esistenziale, sopravvissuto a quattro diversi campi di sterminio nazisti, può aiutarci a rovesciare positivamente questa nostra, umana, tendenza al negativo. Differentemente dall’atteggiamento nichilistico, egli sostiene che se il futuro non esiste perché non ancora accaduto, il passato è ciò che davvero esiste, la vera realtà. Pertanto, ciò che è passato rimane fisso e immutabile. Non è possibile trasformarlo o modificarlo. Se, per la logoterapia l’uomo è un essere proiettato verso il futuro, è altrettanto vero che egli non può nulla rispetto al proprio passato. Ciò che è stato è fissato per l’eternità. Quanto è avvenuto non è stato tolto di mezzo, ma si è consolidato nel passato e in esso conservato. Per questo egli afferma che: “esser stati è la ‘più sicura’ forma dell’essere […] ciò che si serba nella transitorietà è quanto è conservato nel passato, la realtà che ha trovato salvezza nel suo essere-passata”[1]. Ecco che, ogni possibilità usufruita, ogni esperienza, ogni valore realizzato nella propria vita, escono dalla cerchia della transitorietà e divengono eternità. Frankl sostiene che ciò che viene serbato nel passato resta tale, indipendentemente dalla memoria dei singoli, perché il passato diviene parte dell’essere. Entra a far parte di una dimensione ontologica.

Nei campi di sterminio, com’è intuibile, la sensazione di essere stati cancellati come persone, di aver perso la propria dignità e il proprio passato erano pensieri quotidiani. A questo si aggiungeva la paura, fonte di angoscia e depressione, di aver vissuto invano la vita precedente all’internamento. Frankl racconta di come ha tentato di rassicurare, in merito, i propri compagni di baracca aiutandoli a capovolgere positivamente la propria prospettiva. Scrive:

parlai anche del passato, di tutte le sue gioie e della luce che esso emanava, pur nell’oscurità dei nostri giorni. Citai di nuovo […] il poeta che dice: ‘Quanto hai vissuto, nessuna potenza al mondo può togliertelo’. Ciò che abbiamo realizzato nella pienezza della nostra vita passata, nella sua ricchezza d’esperienza, questa ricchezza interiore, nessuno può sottrarcela. Ma non solo ciò che abbiamo vissuto, anche ciò che abbiamo fatto, ciò che di grande abbiamo pensato e ciò che abbiamo sofferto… Tutto ciò l’abbiamo salvato rendendolo reale, una volta per sempre. E se pure si tratta di un passato, è assicurato per l’eternità![2]

Quanto abbiamo fatto, pensato, amato e sofferto rimane lì, piantato per l’eternità. L’uomo attraverso il proprio passato si unisce con l’eternità dell’essere, o per meglio dire diviene eterno. A chi vive con questa saggezza e con questa consapevolezza esistenziale, ricca del proprio passato, “si può veramente applicare ciò che è così ben espresso nel libro di Giobbe: ‘Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come si ammucchia il grano a suo tempo’”[3].

Il pensiero di Frankl può essere un’intensa luce alternativa alla nostra, spesso tragica, visione della transitorietà dell’esistenza. Perché, come scrive Rilke in un verso della Nona Elegia duinese: “questo essere stati una volta, anche se una volta soltanto: essere stati terreni, sembra non revocabile”[4].

Alessandro Tonon

NOTE

[1] V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana, 19753, p. 123.
[2] V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113.
[3] V. E. FRANKL, La sfida del significato, a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Trento, Erickson, 20053, p. 184.
[4] R. M. RILKE, Elegie Duinesi, tr. it di R. Caruzzi, Trieste, Beit, 2013, p. 89.