Contro l’indifferenza: The blind man who did not want to see Titanic

Mentre scorrevo i titoli dei film presentati alla 78° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, mi  sono imbattuta in The blind man who did not want to see Titanic (Il cieco che non voleva vedere Titanic). Dopo aver letto la sinossi, e aver capito che si trattava della storia d’amore di un cieco  disabile, ho cercato un’alternativa più leggera. Alla fine, per un gioco del destino, mi sono ritrovata  proprio a quella proiezione, con tanto di attori e regista in sala. È stata un’esperienza forte e profonda, che mi ha spinta a valutare il film con il massimo punteggio nella votazione da parte del pubblico. Un sentimento evidentemente condiviso: la pellicola finlandese del regista Teemu Nikki ha infatti vinto il premio degli spettatori Armani Beauty per Orizzonti Extra.  

The blind man who did not want to see Titanic è una scommessa narrativa e soprattutto fotografica: la vicenda di Jaakko, il protagonista affetto da sclerosi multipla che lo ha reso cieco e lo ha costretto in carrozzina, viene narrata dal suo punto di vista (beffardo gioco di parole). Il film non si spinge ad essere solo sonoro, ma la camera è sempre puntata sul viso del protagonista o sulla sua nuca, con un effetto di offuscamento continuo sul resto dello spazio. Lo scopo è evidentemente quello di fare  immedesimare lo spettatore con il personaggio di Jaakko, limitandone lo sguardo il più possibile,  ma senza privarlo dell’elemento visivo, e in particolare delle espressioni dell’attore, Petri Poikolainen (davvero cieco e in carrozzina a causa della sclerosi multipla). Così, durante gli 80 minuti di proiezione, l’orizzonte di chi guarda risulta poco più vasto rispetto a quello del protagonista. Sebbene questa scelta sia senza dubbio azzardata, colpisce nel segno: l’empatia aumenta man mano che la storia procede, e la tensione è sempre molto alta, anche grazie allo sviluppo narrativo. Infatti, se la prima parte del film è dedicata a introdurre la condizione di  solitudine di Jaakko – recluso in casa assieme agli oggetti che in passato poteva vedere  (specialmente i suoi amati dvd) – la seconda è un continuo crescendo di suspance. La vicenda si dinamizza quando Jaakko scopre che Sirpa, malata terminale che ha incontrato online e con la quale ha instaurato una corrispondenza solamente telefonica (eppure tanto profonda da farli innamorare vicendevolmente) ha ricevuto cattive notizie rispetto alla cura che aveva intenzione di intraprendere. È infatti a questo punto che il protagonista decide di lasciare il proprio appartamento per lanciarsi in un’avventura spericolata: raggiungere Sirpa contando solo sulle proprie forze, dato che la persona che solitamente lo aiuta in quel momento non lo può accompagnare. Per Jaakko, inizia un viaggio alla scoperta della propria libertà e allo stesso tempo della spietatezza del mondo. Nel tragitto che lo separa da Sirpa, infatti, egli incontrerà non solo chi sarà disposto ad aiutarlo, ma anche chi si approfitterà dei suoi handicap per ricavarne vantaggio. Questo nonostante Jaakko abbia bisogno “solo” di cinque sconosciuti su cui contare, durante lo spostamento in taxi e in treno.

The blind man who did not want to see Titanic è un film contro l’indifferenza. Per lo meno, io  l’ho percepito così, perché io stessa, quando ho scorso i titoli per scegliere la proiezione, ho provato  un senso di repulsione per una storia che al momento mi era parsa pietosa oltre i limiti della sopportazione. Mi sbagliavo. Attraverso scene drammatiche ma al contempo brillanti e divertenti, il film apre gli occhi su un mondo che ci fa paura e che per questo tendiamo a respingere. Mostra quanto diverso ma al contempo simile sia l’universo di chi non può vedere i colori delle cose, ma può apprezzare (a volte perfino meglio di chi è sano) le sfumature della vita. Il punto di vista di Jaakko – che lo spettatore fa suo – è infatti ristretto e offuscato, ma è anche un’esplosione continua di emozioni fortissime e talvolta contrastanti. Il particolare meccanismo di immedesimazione che il regista ha sviluppato tramite la scelta fotografica non può che portare lo spettatore a sentirsi, alla fine della proiezione, un tutt’uno con il protagonista. È impossibile rimanere indifferenti alla storia di Jaakko e, di conseguenza, a quella di chiunque si trovi nella sua stessa condizione. Questo film ci spinge contro l’indifferenza, ci spinge ad aprire gli occhi, attraverso quelli di chi non può vedere.

 

Petra Codato

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Giambattista Tiepolo: riaffermazione di un mito

Quest’anno ricorre per la storia dell’arte un importantissimo anniversario, vale a dire quello dei 250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo, il più grande artista del Settecento italiano ed europeo, ultimo fautore della grande pittura italiana e massimo esponente di un’arte indissolubilmente legata ai fasti di corte, alla glorificazione del committente e allo splendore esteriore di una forma di società che, poco dopo la sua morte, sarebbe stata profondamente messa in discussione fino agli esiti epocali e irreversibili della Rivoluzione Francese. 

Uno dei motivi per cui Tiepolo, nonostante le sue insuperate capacità tecniche e compositive, non si trova nell’Olimpo degli artisti più celebri del mondo, al fianco, per esempio, di Giotto, Michelangelo, Van Gogh, Picasso o Leonardo, andrebbe ricondotto proprio all’immagine che la storia, suo malgrado, gli ha attribuito, vale a dire quella di un abile narratore che, con le sue pennellate dai colori vivaci, racconta di eroi, fasti, frivoli piaceri e mondi arcadici in un’epoca in cui, ormai, l’avanzare delle teorie illuministe si faceva sempre più dirompente in tutta Europa, portando velocemente, a partire dalla metà del Settecento, a un mutamento dei gusti artistici da parte di sovrani, letterati e committenti dell’alta borghesia. Allo sfarzo e all’esagerazione della pittura di stampo barocco venne preferito l’equilibrio all’antica del Neoclassicismo, che si sviluppò con sempre maggiore intensità, fino al suo climax in età napoleonica.

Questa visione, seppur con una parte di verità, non rende onore alle vere qualità del grande maestro veneziano, che seppe fondere abilmente la tradizione coloristica veneta al linguaggio scenografico della stagione barocca inserendo numerosi richiami alla classicità antica. Tutto ciò, abilmente dispiegato in un vasto numero di opere di carattere mitologico, storico e sacro, lo consacrò nella prima metà del secolo come il più grande artista a livello continentale, richiesto da re, ricche famiglie patrizie e importanti prelati. I suoi vasti soffitti affrescati, così come i raffinati cicli di tele di soggetto epico, rappresentavano al meglio ciò che la classe dirigente desiderava mostrare di sé, ovvero la ricchezza e le virtù, rappresentate in modo tale da divinizzare gli illustri committenti, i loro antenati e il loro intero casato. Il suo successo, dunque, fu favorito da una società di cui egli seppe interpretare perfettamente le intenzioni e i bisogni, nel medesimo tempo in cui stavano nascendo nuove ideologie, partite da Inghilterra e Francia, che avrebbero presto ribaltato la situazione a suo sfavore.

È evidente, infatti, che la politica e le vicende socio-economiche che caratterizzano un’epoca ne influenzano inevitabilmente la produzione artistica e, di conseguenza, la percezione del bello da parte dello spettatore. E proprio le vicende della seconda metà del Settecento condussero all’ingloriosa fine dell’ultimo dei giganti italiani della pittura, morto a Madrid senza alcun onore o riconoscimento, adombrato dalla nuova moda neoclassica portata alla corte spagnola da Anton Raphael Mengs, pittore dallo classico ed equilibrato, aspramente critico nei confronti dell’arte “corrotta” dell’età barocca. Il diffondersi delle idee illuministe, infatti, portò a un generale avvicinamento al concetto di razionalità, che in pittura, così come nelle altre arti, trovava la sua immagine perfetta nelle forme armoniche e ponderate della classicità antica e del Rinascimento italiano.

È naturale che, con queste premesse, la grandezza di Tiepolo fosse destinata a svanire rapidamente. Per molti anni la sua arte fu tenuta in bassa considerazione a causa del suo aspetto teatrale e grandioso, osteggiato nell’Ottocento in quanto ritenuto innaturale e portatore di un messaggio politico obsoleto e pericoloso, e perché mancante di quella forza soggettiva e impulsiva che si ritrova nelle opere di età romantica. 

Oggi, tuttavia, le implicazioni dell’arte antica non hanno più alcun peso politico sulla società odierna. Di conseguenza l’occhio dello spettatore, dopo così tanti anni, riesce a vedere le opere d’arte non solo come documento visivo unico e insostituibile di un dato contesto storico e geografico, ma anche come oggetto di grande bellezza, da apprezzare per le sue qualità tecniche e cromatiche, senza alcun pregiudizio dettato da ideologie dominanti. La pittura di Tiepolo è ciò che l’occhio del XXI secolo si aspetta da un grande artista, sia per le grandi qualità cromatiche che per la scioltezza, e il ricorrente anniversario è un’ottima occasione per riscoprire ulteriormente il talento del maestro e renderlo maggiormente noto al grande pubblico, sempre pronto a sostenere la definitiva consacrazione di un grande del nostro passato. 

 

Luca Sperandio

 

[In copertina: Cristo nel Getsemani di Giambattista Tiepolo in Santa Maria degli Scalzi (Venezia). Immagine tratta da Wikimedia Commons]

 

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La Venezia che vive (nonostante tutto)

Acqua alta, fanghiglia, odore di salso e umido, una conta dei danni che sembra non finire mai e che si ripete sempre più spesso, nel mezzo di ogni sacrosanto autunno. Il novembre 2019 non verrà dimenticato tanto facilmente perché può annoverare quattro delle ventiquattro maree eccezionali degli ultimi 96 anni, tra le quali la seconda di sempre: 187 cm.
Spiegare ad uno straniero o ad un semplice visitatore, cos’è l’acqua alta implica una serie di ulteriori spiegazioni collaterali che ti portano a spiegare direttamente cosa vuol dire Venezia.
Già, cosa vuol dire Venezia?

In poche parole: tanti ponti, auto confinate in luoghi ben delimitate come nelle riserve indiane, tante barche – a motore e non – calli, campi e non ‘piazze’ perché di Piazza c’è solo quella di San Marco, ancora ponti, campielli, corti, giardini nascosti bene, ho già detto ponti? Osterie, bacari e non ‘bar’, sotoporteghi che in italiano si direbbe sotto porticati ma si intuisce lo stesso. Per andare a San Marco si va ‘sempre dritti’, che poi è la stessa direzione per Rialto, l’Accademia, Strada Nova, l’ex Ghetto ebraico, la stazione dei treni ecc. Ed è proprio così… non è un modo di dire sbrigativo per togliersi il pensiero e il seccatore di turno che chiede informazioni al posto di leggere le indicazioni, se tutte le strade portano a Roma, andare sempre dritti a Venezia ti porta ovunque tu debba andare.
E poi? E poi c’è la Storia millenaria e tanti altri discorsi triti e ritriti che giustamente omaggiano la città ma la decontestualizzano, spesso strappandola dal presente, dall’attualità e dal quotidiano, ponendola in un luogo astratto con atmosfere asettiche.

La realtà è molto diversa dal glorioso passato: 28 milioni di turisti ogni anno , corrispondenti all’intera popolazione di Paesi come Venezuela – Venezuela/Venezia, coincidenze? Io non credo – Corea del Nord ecc. Assieme a Roma è una delle città più visitate d’Italia e d’Europa.
Voi direte: «Bene! Lavoro per tutti! Da bere per tutti!», . Il turismo è la fonte primaria di guadagno, verissimo, non possiamo negare l’evidenza, non possiamo negare che il turismo faccia comodo ai commercianti, agli albergatori, ai gestori di musei ecc. Ma il troppo stroppia e in questo caso il troppo soffoca, letteralmente: passeggiare durante un fine settimana qualsiasi durante la bella stagione diventa sempre più difficile, calli intasate, sovraccariche; affrontare la riva degli Schiavoni in luglio è diventato un atto di fede, una prova di coraggio degna di una decorazione al Merito.

Vogliamo parlare della gente che si fa la foto? Ovunque, con qualsiasi luce, al buio, incastrati tra la gente, in mezzo al passaggio, sopra ogni stramaledettissimo ponte – a Venezia sono 435 – è sempre il momento più inadatto per farsi una foto, anche durante i momenti più difficili, ed è qui che torniamo all’acqua alta.
Farsi un selfie a San Marco quando la marea è poco inferiore al metro, cioè innocua, è goliardia, un modo diverso di vedere la città; quando si viene appositamente per curiosare durante una mareggiata eccezionale è mancanza di rispetto e rientra nel fenomeno in crescita del disaster tourism ovvero il turismo che converge lì dove c’è stato un disastro, un terremoto, un’inondazione ecc. Il cattivo gusto che non conosce limiti, soprattutto nei confronti di chi ha perso tutto.

Certo, nemmeno i veneziani sono tutti dei Santi, e molti sedicenti amatori di Venezia e della venezianità si sono impegnati anima e corpo per sconvolgerla con qualche grottesco, inutile e super-arci-mega costosissimo complesso di dighe semoventi, scarsamente funzionali e mai funzionanti; altri si sono impegnati a rivoluzionare il delicato e mai compreso sistema lagunare per scavare canali sempre più profondi per farci arrivare navi da crociera pluristellari e intergalattiche.
Quanto tutto questo possa durare non è dato sapere, tuttavia i più pessimisti stanno già facendo il conto alla rovescia e non è da biasimarli, tanti faticano a vedere una luce in fondo ad un tunnel interminabile.
A dispetto di quanti molti, troppi, non lo credano, a Venezia abitano anche delle persone, le case non sono lì per bellezza, non è un gigantesco set in cartapesta del Trono di Spade, la gente – poco meno di 53.000 abitanti1 – si sveglia tutte le mattine per affrontare la giornata, porta i figli a scuola, fa la spesa nei supermercati, si preoccupa, sorride, fa festa e si comporta esattamente come in una qualsiasi altra città italiana e non. A Venezia ci sono ancora i negozi che non vendono maschere o vetro di Murano, ci sono i ragazzini che giocano a pallone o che gironzolano a gruppetti nei campi, e questo no, non è più comune da vedere in altre città.
Descrivere le emozioni che questa città può suscitare in ognuno di noi è troppo complicato da descrivere ad un turista ‘mordi e fuggi’, ma forse sono proprio queste emozioni che dovrebbe ricercare chi viene a visitare Venezia per una settimana o un solo giorno. Dovrebbero vedere la Venezia che c’è, quella che esiste e resiste ancora.

 

Alessandro Basso

 

NOTE:
1. Per approfondire clicca qui.

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