Il bisogno di rifare: reboot, remake e sequel

La nostalgia mitiga l’ansia, dicono in Matrix resurrection, quarto capitolo della saga uscito da poco nelle sale cinematografiche. Sarà per questo che il cinema e le serie tv stanno vivendo di reboot, reunion, sequel e quant’altro?
Il già citato Matrix, ma anche Harry Potter e Friends, che di recente sono stati protagonisti di due reunion con il cast, per non citare anche Sex and the city, tornato dopo anni con un sequel, And just like that. La tendenza è iniziata già una decina di anni fa, all’incirca, e non accenna ad esaurirsi.

Sono prodotti che vengono divorati, forse perché siamo tutti un po’ desiderosi di ricongiungerci con un tempo passato che ci figuriamo ora come un periodo incantato, pieno di promesse e amenità. Oggi le novità è meglio schivarle, perché in esse potrebbero nascondersi pericolose trappole. Fuori il nuovo e dentro il vecchio, insomma.
Abbiamo finito le idee? Abbiamo finito la felicità – per citare una canzone de Lo stato sociale? La felicità dobbiamo ricercarla nel passato, come i neoclassicisti nel ‘700, come gli Scolastici medievali che si sentivano nani sulle spalle dei giganti del passato? Oppure quella odierna è una nuova arte, fatta di mash up, un po’ patchwork, intrisa di quella nostalgia malsana e sana al contempo?

Necessitiamo di pillole blu alle quali siano ormai assuefatti, pillole che ci rassicurano e cullano? Che ci fanno stare in casa al sicuro, booster o no, green pass o no, guarigione o no. Oppure è anche questo un modo per preparare il terreno alle novità, che da sempre si innestano su un terreno già coltivato e fertile? Difficile a dirsi. Scomodando quel tuttologo di Hegel, che conosce tutte le risposte e sa sempre cosa fare, potremmo dire che non è possibile emettere una sentenza adesso, mentre stiamo vivendo in prima persona questo tempo pieno d’ansia e apatia, mentre ci intratteniamo con questa abulica arte che stimola il “come eravamo” piuttosto che il “come saremo”.

In Matrix resurrection si fa notare come l’essere umano sia sempre in bilico tra paura e desiderio. La paura, in quest’epoca, è forse la tonalità emotiva che prevale. Ma l’uomo è anche un animale desiderante, vive e sopravvive grazie a un desiderio schopenhaueriano impossibile da sopprimere o da razionalizzare. Ecco quindi due probabili chiavi per interpretare i vari remake e reboot: tendiamo a rifare perché abbiamo paura e vogliamo rivedere e riprendere le storie da dove le avevamo lasciate, ma allo stesso tempo desideriamo dare vita a qualcosa di nuovo, che rinasca dalle ceneri delle vecchie idee che un tempo hanno funzionato. Dopotutto c’è coraggio anche in questo atto, perché qualcosa di compiuto che ha avuto successo o che è divenuto iconico, non viene lasciato a se stesso, archiviato e intrappolato nei tempi che furono, bensì viene ripreso, riaperto, riconsiderato, proseguito.
Un’azione sicuramente impavida: la compiutezza non c’è più, prevale il desiderio che non si arresta e prosegue all’infinito, dando il via ad un processo di incompiutezza che per sua stessa definizione risulterà imperfetto, manchevole. Eppure è qualcosa di vitale, qualcosa che si muove: significa che dietro c’è qualcuno che fa, che agisce, che si mobilita per un pubblico che nonostante tutto guarda, ascolta, riflette – anche se poi denigra oppure, al contrario, osanna.

Abbiamo forse paura di perdere il grande capolavoro del passato, paura che ormai oggi, per noi, non significhi più nulla o quasi. Ma temiamo anche di mancare il capolavoro di oggi, e allora tendiamo a rifare quello vecchio, lo reinventiamo, mossi dal desiderio di qualcosa di nuovo.

Non dimentichiamo però, che l’industria cinematografica e seriale è soprattutto e prima di tutto pragmatica, ossia pensa al denaro, al guadagno: rifare significa anche puntare su una mano che si è già rivelata vincente in termini economici.
Ma non tutto si può sempre ridurre a una mera prospettiva materiale. O meglio: se chi questi prodotti li confeziona e li vende sceglie di farlo, ci sarà un motivo – siamo noi il motivo, noi e il nostro bisogno insopprimibile di rivivere, rifare, ricreare ciò che ci era piaciuto, alla ricerca di quel conforto e quella felicità che paiono perduti. E francamente, da un certo punto di vista, qualsiasi rimedio contro l’ansia che siamo chiamati ogni giorno a vivere, è ben accetto.

 

Francesca Plesnizer


[Photo credit pixabay]

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Vi è traccia di divertimento nello studio della storia?

Puntualmente, per esperienza personale, quando chiedo ai bambini un indice di gradimento numerico per l’insegnamento di Storia, il valore che ottengo solitamente è prossimo allo 0. Nel migliore dei casi. Motivi? La Storia è noiosa e vecchia così come il maestro che la insegna, anche se magari ha 35 anni. Una sorta di consustanzialità fra il documento storico ammuffito e il classico pile sgualcito dell’insegnante. In pratica una crisi d’identità assicurata intorno ai 40 anni per chi come me è in procinto di laurearsi in Storia e non disdegna una carriera futura da passare dietro la cattedra.

Quali sono i motivi di tale declino? Perché piace addirittura più la Matematica e soprattutto l’ora di Religione con i suoi film pieni di amore e lieti fine stucchevoli?

Innanzitutto è necessario premettere due cose: in primo luogo ogni fascia d’età possiede esigenze e capacità differenti e specifiche. Quindi è assolutamente improprio far imparare migliaia di date a memoria agli adolescenti; tanto il giorno dopo scambieranno la caduta dell’Impero Romano d’Oriente con quello d’Occidente. Tranne per i nerd: loro le sapranno grazie alle mille ore passate davanti ai giochi di strategia per il Pc.
In secondo luogo, invece, si deve ammettere che non tutte le epoche hanno sentito la mancanza di volgere lo sguardo verso il passato per studiarlo. Basti pensare a oggi, dove la modalità classica di trasmissione del sapere – dall’anziano al giovane, dal maestro all’alunno, dai genitori ai figli, dal passato al futuro – si sta rapidamente invertendo: ora sono i figli ad imprecare contro i genitori, colpevoli nel 2016 di non sapere utilizzare la tecnologia.

Oh Clio, come fare allora per recuperare quel divertimento che lo studio della Storia recava a Marc Bloch?1

Sicuramente compiendo azioni rivoluzionarie.
Togliamo la cattedra! Le lezioni frontali producono un’insensata voglia di giocare a Snake e per chi ha il cellulare scarico appisolarsi risulterebbe la miglior opzione. A parte l’ironia, credo che una disposizione a cerchio delle sedie faciliti il dibattito perché mancherebbero riferimenti spaziali – gerarchici. In questo modo, da un lato gli studenti parteciperebbero attivamente senza timore dell’entità suprema confinata dietro la cattedra e dall’altro il maestro migliorerebbe la propria relazione con i propri allievi ed emergerebbe nella discussione in ogni caso come fonte di sapere, visto le sue maggiori conoscenze.

La Storia è vita vissuta! La Storia è fatta di carne e di ossa! Molte volte i manuali raccontano le guerre, le scoperte e le rivoluzioni come fossero di altri mondi. La Terra ne sembra incolume.
Beh, aggiornamento dell’ultima ora: noi tutti facciamo parte della Storia. Sono convinto che esserne consapevoli sia estremamente utile e affascinante per due ragioni: da un lato pungolerebbe la curiosità di coloro che vedono nel sussidiario con copertina verde – la Storia l’ho sempre associata a questo colore. Retaggi delle scuole elementari – un potenziale allergenico; dall’altro pensarsi all’interno del flusso storico stimolerebbe le riflessioni sul rapporto che intercorre tra l’individuo e gli eventi, sia passati che contemporanei. Alla fine lo studio della Storia non è altro che un’intervista continuamente aggiornata rivolta al passato, un interlocutore difficile da capire, ma allo stesso tempo affascinante per la molteplicità di punti di vista che può darti.

Solo attuando queste modifiche (le idee sarebbero molte di più), la Storia da disciplina marginale di un’ora alla settimana, diventerebbe azione quotidiana di comprensione della società.
Alla fine anche Euclide e il suo maledetto teorema sono stati concepiti in questo mondo.

Marco Donadon

NOTE:
1. M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, 1949.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Equilibrati, equilibristi e squilibrati.

Coinvolgete Dio. Scomodate il prete. I fiorai. Gli srotolatori di tappeti bianchi. Le risaie. Lo zio d’America. Il centrotavola di calle in tinta con quei 12 giri di tulle in cui siete immerse dalla vita in giù. Coinvolgete noi. Che dobbiamo comprarci vestiti che non metteremo mai più, scarpe col tacco che da ubriache togliamo perdendole e tornando a casa scalze. Noi che mentre voi con passo fiero da “ce l’ho fatta” percorrete quella navata, pensiamo soltanto ad una cosa: “ Sei una meringa ambulante”.

Ci date bomboniere che verranno buttate appena dietro l’angolo della sontuosa villa con arazzi, palme e colonne doriche, ioniche e corinzie in cui siamo stati sequestrati da cascate di prosciutto, canzoni da esterna di Uomini e Donne, lancio di bouquet e vino scadente.
Ci ammazzate con foto di voi in viaggio di nozze mentre fate quell’attività adrenalinica chiamata snorkeling.
E poi? Dopo manco tre mesi, ancora con la fede giallo Puff Daddy larga 5 centimetri al dito, cominciate la vostra vita da equilibristi.
Lui che mette e toglie la fede che manco Copperfield. Lei che se la guarda compiaciuta mentre il marito le ha appena comunicato un’ennesima fondamentale riunione alle 23. Lei che appena lui si butta sotto la doccia per eliminare tutte le prove olfattive di consumato adulterio, passa a setaccio tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. E ci becca sempre qualcosa. Quasi sempre un capello lungo e nero corvino. Ma lei è bionda e col caschetto. Giorno dopo giorno il capello diventa una parrucca. Le riunioni finiscono alle 4 del mattino. Lui, sospettoso dell’altrui sospetto, comincia a spostarsi tra gli ambienti di casa portandosi dietro una carriola con dentro tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. D’altronde, chi è che non ha bisogno di spazzolare un tablet in corridoio? Mese dopo mese lei, sagace come un mandrillo, comincia a notare che il marito fa più riunioni di Obama, che ogni volta che entra dalla porta d’ingresso lascia una scia di vaniglia, cocco e iris, che la schiena è piena di graffi che lui farà passare per sante stigmate, e che forse, ma forse, anche se “ieri mi ha detto ti amo togliendosi la ruchetta dall’incisivo”, “sente ogni tanto” un’altra. Sono passati mesi. Lui nel frattempo si è fidanzato con tutta Milano, Londra, Miami e zone limitrofe. Ha le chat intasate di emoticon che fanno occhiolini, cuori pulsanti e frasi da picco glicemico. Ha cambiato più letti di una hostess dell’Alitalia. E lei si è illuminata: “ Ti stai sentendo con una”.

La genialità, a volte.

A questo segue la fase della negazione di lui. Dei ricatti di lei, che credendo di essere una fine stratega, non lascia ma fa scontare. Dei continui ed indisturbati tradimenti di lui. Che credendo di essere un fine stratega non lascia ma cerca di farsi lasciare.

Scopo: procacciarsi/evitare  il mantenimento. A seconda del ruolo.

Segue l’autoconvincimento di lei che le cose si siano messe apposto. Segue, esattamente in questo frangente, come da protocollo, la nascita di un figlio. passa qualche mese di finto equilibrio. E poi ciak, si ricomincia. Continui ed indisturbati tradimenti di lui. Autoconvincimento di lei. Ricatti. Bugie. Squallore. Nascosto squilibrio. Quotidiano equilibrismo.

Questi appena descritti, sarebbero per la società, anche ed ancora del 2015, “equilibrati”, in quanto sposati, con figli, casa e magari un cane.

Poi ci sono quelli che vengono visti come “squilibrati”.
Sono quelli che al massimo coinvolgono l’Ikea, per una convinvenza.
Sono  “single”, “soli”, “zitelle”, “scapoli”, “un po’ strani”, “frivoli”.
Sono quelli il cui mantra è “no non sono sposata, no non sono divorziata, no non sono lesbica”.
Sono quelli che si sono sposati a 38 anni per convinzione e non a 25 per convenzione.
Sono quelli che non fanno figli per risolvere una crisi coniugale.
Sono quelli che non dicono “mio figlio” ma “nostro figlio”.
Sono quelli che non dicono “la madre di mio figlio”, ma “Lei”, con la L maiuscola.
Sono quelli su cui gli equilibristi si appoggiano senza pietà per trovare l’equilibrio della loro squilibrata coppia.
Sono quelli che non è che fino ad ora non si siano sposati perché nessuno se li è caricati. Ma perché sposarsi è una roba seria. Come i figli. Come l’amore. Come il tradimento. E proprio perché è una roba seria, non si calcola, non si analizza, non si programma. Non si finge. Sono quelli che potrebbero sposarsi in due mesi, e per questo “squilibrati”. Perché loro l’amore lo riconoscono a chilometri. Così come riconoscono quelli che non sanno stare soli.

Sono quelli che hanno scelto. E che non si sono fatti scegliere. Sono quelli che non generalizzano. E che chiedono che non si generalizzi.

Donatella Di Lieto

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