Odia il prossimo tuo come te stesso

Qualcosa sta cambiando nel mondo. Serpeggiano venti strani che ci spingono sempre di più a guardarci con diffidenza. La tesi che sosterrò in questo articolo è che abbiamo iniziato ad odiare molto di più gli altri nella misura in cui odiamo noi stessi.

Del resto risulterebbe altrimenti inspiegabile l’accanimento che stiamo riversando costantemente verso quattro (proporzionalmente sono pochi, andate a guardarvi le statistiche) disperati che decidono di salire sui barconi mettendo in gioco le loro vite, e poco cambia che siano migranti economici o rifugiati: da qualcosa scappano.

L’argomento che mi interessa veramente affrontare è perché noi scappiamo da noi stessi. Scappiamo da ogni legame di fratellanza o di vicinanza verso la nostra stessa specie, indulgiamo di più nel mettere il cappotto al cane, magari pure di marca, al posto di metterlo a un nostro simile, che è simile in tutto: organi interni, dentatura, sguardo, labbra, mani, ogni tanto differisce solo per il colore della pelle, ma credo che lì sia solo una questione di melanina.

Riusciamo a dare amore incondizionato ai nostri “simili” o a ciò che percepiamo come tali, compresi i nostri affetti animali, che comprendo, ma non giustifico. Avendo due gatti capisco bene che ci si possa pure affezionare, ma ciò non giustifica un dato fortemente inquietante: stiamo forse diventando tutti schizofrenici? Credo e spero proprio di no, considerato che la matrice della schizofrenia (dal greco schizein σχίζειν, “dividere” e phrēn φρήν, genitivo φρενός, “mente”) è sostanzialmente una «dissociazione come limitazione, distorsione o perdita dei comuni nessi associativi nello svolgimento logico del pensiero»1 che riguarda anche il comportamento verso gli altri. Il punto vero è che ormai tale dissociazione rischia di insinuarsi nel nostro selettivo modo di essere, cioè nella capacità di riconoscere anche i nostri simili come tali e noi come specie.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come abbiamo potuto, nonostante le nostre radici cristiane, dimenticarci di noi stessi?

L’Europa cristiana che vorremmo contrapporre ad altri modelli si basa sul Vangelo, cioè un racconto dove si intrecciano volti, storie, la potenza e la fragilità degli incontri. C’è un luogo che Gesù predilige per i suoi incontri: la tavola. Vi si siede insieme con le persone più diverse, con puri e impuri, con amici e perfino con gli avversari. Ed è in quegli incontri nelle case, intorno al cibo e al vino, che Gesù propone sogni di futuro, immagini di Dio e di un mondo nuovo dove l’umanità sia più forte e numerosa che in qualsiasi altro luogo.

Se apriste il Vangelo invece di giurarci sopra vi accorgereste che la tavola non è per l’alimentazione, ma per la condivisione, quella vera. L’evangelizzazione stessa passa da quello strumento lì: la convivialità, lo stare insieme, il sedersi gli uni accanto agli altri. Secondo qualche autore il 50% del Vangelo di Luca si svolge intorno alla tavola (così sostiene J. Tolentino Mendonça2). La tavola in questo caso non è solo luogo di approvvigionamento di sostanze nutritive, ma luogo privilegiato per gli incontri, incontri che hanno il sapore buono dell’amicizia.

Seduti alla stessa tavola noi ci nutriamo di cibo, ma soprattutto ci alimentiamo gli uni gli altri, della presenza degli altri. La tavola comune è una invenzione antropologica fondamentale che ha come obiettivo le relazioni, non la nutrizione, il dare spazio a quegli incontri che costruiscono la nostra identità. Tutti abbiamo bisogno di essere curati e custoditi nelle nostre differenze, ma senza la relazione con l’altro da noi non abbiamo speranza salvo la prigionia inarrestabile delle nostre convinzioni. Senza turbamento non sussiste nemmeno il concetto stesso di normalità. Senza dialettica, senza confronto, non esiste il movimento: tutto resta fermo, statico e inerte.

Alla fine resteremo soli, carichi delle nostre invidie, in un mondo che diventerà sempre più piccolo − e forse meno significante, più semplice − ma meno stimolante.

Odiamo il prossimo ma dimentichiamo che l’amicizia di Gesù è quella che accoglie tutti prima della loro stessa conversione; un modo di essere che non cerca seguaci, ma gente che stia con lui. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno. Ma Gesù non fa calcoli di questo genere. Il suo sguardo non si posa sulla dignità o meno delle persone, sulla loro fedina penale, sulla purezza rituale, sul colore della loro pelle. La forza dell’Occidente e delle sue origini cristiane è quella di scavalcare le norme e le clausole acquisite, raggiungendo davvero l’essenza della “creatura”, del suo bisogno e della sua povertà, della sua strutturale imperfezione.

La forza dell’Occidente è che non si avvicina alle persone con una griglia di classificazioni morali ma offre un’amicizia che abbraccia l’imperfezione; mostra il suo bisogno nativo, divino, di abbracciare l’imperfezione di questa esistenza.

L’amore è esigente, bruciante; l’amicizia è benevola e indulgente. E poter tornare a parlare di amicizia tra i popoli al posto dell’odio imperante di questi tempi ha un vantaggio enorme; amore e passione di unirsi, irruenza di fusione. L’amicizia cammina per la via umile della gratuità, abbraccia l’imperfezione, prende tempo, ammette che un rapporto possa essere strutturalmente imperfetto. La vita è così: una relazione con l’Altro da noi reale e imperfetto.

Una delle particolarità del Vangelo di Luca è di raccontarci ben tre incontri di Gesù ospite alla tavola dei farisei: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.» (7,36); «Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola.» (11,37); «Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.» (14,1).

Tutto parte da un invito, da un gesto di rispetto, di attenzione, forse nei confronti del giovane rabbi o forse nel riconoscimento che tutti siamo stati bambini, che tutti in un certo modo siamo uguali e viviamo e conviviamo ogni giorno con le nostre imperfezioni. Odiamo gli altri perché sono poveri, miserabili, fragili senza accorgerci che odiamo in loro esattamente quello che siamo noi stessi. Odiamo noi stessi come odiamo gli altri.

 

Matteo Montagner

 

NOTE
1. U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 2008, p. 835.
2. José Tolentino Calaça de Mendonça è un arcivescovo cattolico, teologo e poeta portoghese; dal 26 giugno 2018 arcivescovo titolare di Suava.

[Credit Tobi Oluremi]

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Ubi Petrus, ibi Ecclesia. 61 firme contro papa Francesco

<p>A figure of Argentinian Pope Francis of the Catholic Church (L) and a swank figure of the church holding a cross are pictured during the traditional Rose Monday parade on March 3, 2014 in Duesseldorf, western Germany. Carnival goers mainly in the Rhine region traditionally celebrate the highlight procession on Rosenmontag (Rose Monday).  AFP PHOTO / PATRIK STOLLARZ        (Photo credit should read PATRIK STOLLARZ/AFP/Getty Images)</p>

Era tradizione, per la setta ebraica dei Farisei, dedicarsi a frequenti e minuziose abluzioni prima di qualsiasi preghiera, pubblica o privata, da quella comunitaria al Tempio alla benedizione dei pasti. L’idea era che, per essere degno di accostarsi alla presenza di Dio, l’uomo dovesse prima purificarsi, e la forma esteriore di tale processo era, appunto, l’abluzione. Per questo l’episodio delle nozze di Cana riportato nel Vangelo secondo Giovanni, è rilevante e provocatorio: l’acqua che nel racconto Gesù trasforma in vino (il “vino buono”, quello della festa, quindi il vino benedetto del kiddush) è quella degli otri per l’abluzione, l’acqua che doveva purificare i commensali. Il messaggio dell’evangelista è chiaro: è inutile tentare di “rendersi degni” di Dio, Lui è già presente, ha fatto il primo passo.

Questa interpretazione del brano dev’essere sfuggita all’ex presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi ed agli altri sessantuno firmatari della Correctio Filialis De Hæresibus Propagatis, un documento che contiene un monito diretto a Papa Francesco, redatto e sottoscritto da professori, sacerdoti, religiosi e semplici credenti. Il succo della questione, espresso in sette punti da un latino magniloquente e in altre venticinque pagine di commento, è che il Papa regnante si sarebbe macchiato di gravi eresie, e sarebbe colpevole di stare mettendo in pericolo le anime dei cattolici tutti con la propria condotta e i propri messaggi.

La pietra dello scandalo è principalmente l’Amoris lætitia, in particolare i passaggi dal 295 al 311 in cui si tocca l’annosa questione dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Non basta, evidentemente, il casuismo gesuitico che porta Bergoglio ad una incredibile cautela nel toccare l’argomento, concedendo sì assoluzione e comunione, ma solo in casi particolarissimi ben specificati, e richiedendo a gran voce un accompagnamento personale da parte di un padre spirituale che sappia distinguere caso per caso (cosa che, peraltro, richiamerebbe diversi parroci “burocratizzati” ad una cura delle anime ben più attiva e personale della forma attuale). I firmatari della Correctio sono irremovibili: in caso di peccato, non si è “degni” di accostarsi ai sacramenti, e il peccatore deve essere tenuto lontano dalla Chiesa fino a che non abbia mostrato segni di pubblico pentimento e abbandonato le proprie vie perverse. Solo i perfetti e i santi possono, apparentemente, godere della Grazia divina (in barba all’etimologia che rimanderebbe alla “gratuità”), e i nuovi Defensores Fidei, seguendo l’esempio del figlio maggiore della parabola del “figliol prodigo”, non possono certo tollerare una simile confusione tra misericordia e lassismo morale.

Seguono ulteriori accuse a Francesco, tra cui quella di essersi “pericolosamente” avvicinato alla riconciliazione coi protestanti luterani in almeno due precise occasioni. Inutile a dirsi, questa impressionante serie di comportamenti “contro la dottrina” rischierebbe nientemeno che di rendere nullo il pontificato di Francesco, seguendo il dettame di San Roberto Bellarmino (anche lui gesuita, come il Papa) secondo cui un pontefice eretico decadrebbe automaticamente dalla propria carica, ma accostandosi in maniera imbarazzante anche all’eresia donatista tanto condannata da S. Agostino, per la quale solo i sacramenti amministrati da sacerdoti puri e perfetti erano da considerarsi validi, in puro stile farisaico.

Anche volendo sorvolare sul Codice di diritto canonico, secondo cui “la Prima Sede non è giudicata da nessuno” (Canone 1404), basta una lettura per capire quanto poco di cristiano ci sia nelle accuse dei Correctores: una Chiesa per pochi, in cui solo gli eletti e i perfetti ricevono in premio alla propria virtù il privilegio di accostarsi a Cristo, è in aperta e palese contraddizione con qualsiasi tradizione evangelica, canonica o apocrifa. Una Chiesa che, poi, si definisce “cattolica”, quindi “universale”, è per sua natura aperta, accogliente: la conversione del cuore è sì prevista e caldamente sperata, ma come conseguenza dell’incontro con Dio, non certo come sua necessaria condizione. Ben vengano i dubia come espressi dai Cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, finché sono tesi e finalizzati a un dialogo aperto e costruttivo per la crescita comune. Non ci siano dubbi, però: la porta è e resterà aperta, e non c’è intellettuale che abbia la forza di ritrasformare il vino in acqua.

Giacomo Mininni

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Misericordia a colazione

<p>Immagine presa da Google immagini</p>

E’ possibile un recupero laico dei valori cristiani? Probabilmente alcuni valori sono legati a questioni dogmatiche, ma la morale cristiana porta in seno anche dei valori che possono essere utili nella vita di tutti i giorni e aiutarci a vivere meglio a prescindere dall’essere credenti o meno.

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E la misericordia offre, senza condizioni, senza stanchezza, senza limiti, esattamente la possibilità di ricominciare sempre, “settanta volte sette” proiettandoci verso il futuro, coltivando non rimorsi o rimpianti, ma le condizioni per rendere feconda ogni vita. Un’offerta, questa, un invito che profuma di eternità. Nel pensiero cristiano Dio è colui che presiede a ogni nascita, lo fa attraverso la sua misericordia, parola che nella lingua della Bibbia antica è detta rahamin, che è il plurale di utero, grembo, di madre, matrice, fonte di vita. Allora nel confronto con Dio le donne e gli uomini sanno di non essere una creatura che ogni giorno “lentamente muore”, ma figlie e figli che dolcemente e tenacemente nascono, si affacciano alla vita, crescono a libertà, a consapevolezza e amore.

«Con Dio si va di inizio in inizio attraverso inizi sempre nuovi» scrive Gregorio di Nissa. Nel mondo dello Spirito nessuno è mai finito per sempre. Dio non permette che ci arrendiamo, con lui c’è sempre un “dopo”: vede primavere nei nostri inverni, il sole che sorge nelle nostre albe così ricche di tenebre, profezia di spighe mature nel germoglio appena spuntato dalla terra. Alla peccatrice trascinata là, in mezzo a un universo maschile, per essere uccisa (Gv 8,1-11) Gesù dice: «Vai, e d’ora in avanti…». Quel “d’ora in avanti” è detto a ciascuno di noi, siamo tutti creature non ancora finite, non ancora fiorite e, proprio per questo, tenacemente in cammino. Siamo sempre nella preistoria di noi stessi, stiamo sempre nascendo, per questo possiamo dirci e ripeterci che l’uomo non è un essere “mortale” come spesso ripetiamo, ma è sempre “natale”, un incompiuto che si rinnova ogni singolo giorno. La filosofa Maria Zambrano diceva: «Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto». «La nostra vita non è arrivare o raccogliere, ma partire a ogni alba, seminare a ogni stagione» scrive Ernesto Oliviero.

Geremia offre una immagine molto suggestiva di Dio: «Sono sceso nella bottega del vasaio, ed ecco ogni volta che il vaso non gli riusciva, rimetteva l’argilla nel tornio e ricominciava a modellarla, come a lui pareva bene» (Ger 18,2-4). Possiamo recuperare tutto questo in chiave laica? Sì, nella misura in cui questo messaggio ci invita a non buttarci mai via, siamo sempre buoni per l’arte del vasaio. Per noi è una sciagura lavorare con vasi rotti, ma per la morale cristiana non è così, anzi è l’opposto. Quando le nostre vite sono spezzate siamo come anfore rotte, ma possiamo sempre rimetterci nel tornio e lavorare nuovamente su noi stessi con la pressione calda delle nostre mani. Quando la nostra anfora si incrina o spezza e non siamo più in grado di contenere l’acqua, proprio con quei cocci che a noi paiono inutili possiamo supporre che essi ci servano ancora, perché l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche e altre anfore, perché altre seti vengano estinte. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» scrive Fabrice Hadjaji.

L’infinita pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia al motto “alzati e va’”. Ad Abramo, al popolo in Egitto, a re e profeti, a malati: “alzati”, stessa cosa vale per il dogma relativo alla resurrezione di Gesù, il motto resta sempre “alzati e va’”. L’invito è quello di mettersi in cammino, seguire i sentieri che si hanno nel cuore. A ogni caduta, a ogni stanchezza, a ogni tentazione di arrenderci o di adagiarci in ciò che abbiamo raggiunto, a ogni illusione di aver raggiunto definitivamente la nostra casa o il nostro nido, la figura della misericordia nella morale cristiana oppone quella della missione: tu puoi amare di più, puoi sempre migliorarti, essere più libero, essere più donna o uomo, con sempre meno paure e meno maschere, puoi far fiorire ancora di più la tua vita. La misericordia, anche intesa laicamente, è la custode dei sogni, sogni di futuro: sovranamente indifferente per il passato di colpe di ogni persona, è madre di futuro nuovo, di un domani migliore.

Tutto questo è un patrimonio tanto per il laico quanto per il credente? Penso proprio di sì.

 

Matteo Montagner

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

Sacra o pagana: l’Epifania di che pasta è fatta?

Bene, passato il Natale e il Capodanno noi tutti siamo in attesa dell’ultima festa che ci separa dalla normalità del quotidiano: l’Epifania. La festa di rito cristiano occidentale è celebrata dodici giorni dopo il Natale e ciò avviene proprio oggi 6 Gennaio, anche se non per tutti. Per le Chiese cristiane orientali che seguono il calendario giuliano cade il 19 gennaio, (hanno ancora tempo, beati loro!).

La festa della Befana che porta il carbone a tutti bambini cattivi e i dolciumi ai buoni, ci ha accompagnato per l’infanzia di ognuno di noi, ma non è solo una tradizione culturale. Sappiamo bene che l’evento della vecchina a cavalcioni sulla sua scopa coincide anche con l’arrivo dei Magi alla mangiatoia di Gesù bambino, al quale portarono i famosi doni, incontro che racchiude un chiaro significato religioso.

Risalendo alla sua etimologia greca, il temine Epifania deriva dal greco antico, verbo ἐπιφαίνω, epifàino (che significa “mi rendo manifesto”), dal sostantivo femminile ἐπιφάνεια, epifàneia (manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina). Ciò porta alla conclusione che Epifania non è altro che la manifestazione della divinità in Gesù ai Magi. I Magi, venuti tradizionalmente dall’Oriente, rappresentano l’umanità, anche coloro quindi che non sono ebrei, che adorano il dio bambino e che recano a lui i loro omaggi. Papa Benedetto XVI parla dei Magi riferendosi a loro in questo modo: «Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la “firma” di Dio, una firma che l’uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare».
Per la tradizione sono tre: Melchiorre sarebbe il più anziano e il suo nome stesso deriverebbe da Melech, che significa Re Baldassarre deriverebbe da Balthazar, mitico re babilonese, quasi a suggerire la sua regione di provenienza. Gasparre, per i greci Galgalath, significa signore di Saba.
I magi era oltre che di origini nobili, secondo la leggenda erano studiosi di astronomia e proprio seguendo la lettura del cielo e la stella cometa, avevano riconosciuto in Cristo uno dei loro “Saosayansh”, il salvatore universale, diventando così loro stessi, “l’anello di congiunzione” tra la nuova religione nascente, il cristianesimo, e i culti misterici orientali, come il mazdaismo e il buddismo. Ciò che portano al neonato è universalmente noto: oro, incenso e mirra. L’oro per indicare la regalità, infatti Gesù era considerato il re dei Giudei; l’incenso per onorare la sua divinità, il dio fatto uomo per gli uomini nato dalla vergine Maria; infine la mirra come simbolo che anticipa le sue sofferenze che avverranno nella mondanità e il suo valore redentore. Giusto per rispolverare le vecchie nozioni del catechismo riporto il passo tratto dal vangelo di Matteo, secondo capitolo versettti 1-2:

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro.

Ciò che non si deve dimenticare però è l’assimilizzazione e la cristianizzazione del culto del Solus Invictus, tradizioni pagane di origine romana che associano la vincita della luce sulla tenebra e la conseguente associazione all’avvenuta di Cristo sulla terra.

Per quanto riguarda l’associazione tra Befana e Magi è sempre rivolta al paganesimo: la Befana è una corruzione del termine Epifania e riassume l’immagine della Dea antenata custode del focolare, luogo sacro della casa. E non è un caso se si serve, proprio dei camini, per introdurre l’allegria nelle case, svolazzando con la sua fantastica scopa. In tale culto, molti, rintracciano il mito della Dea genitrice primordiale, signora della vita e della morte, della rigenerazione della Natura.

Comunque sia e dovunque sia, dalla Persia alla Normandia, dalla Russia all’Africa del Nord, si festeggia la dolce e bruttina vecchietta dalla gonna lunga.

Magari tutte le befane fossero così simpatiche!
A presto e a voi un caloroso augurio di una buona Epifania.
Al prossimo promemoria filosofico!

Azzurra Gianotto

ITALIA; 69-80

I numeri 69-80 indicano capitolo e versetto di una parabola contenuta in quel vangelo di piombo custodito nei turbolenti anfratti della nostra italianità.

E’ un vangelo laico scritto da mani profane, racconta di persone mute con occhi che hanno visto troppo, orecchie che hanno udito troppo poco… e la parabola racconta di un treno che giunge nei posti più impensabili: parte da Piazza Fontana a Milano e arriva puntuale a Bologna.

Non ha capolinea, non torna mai indietro.
Attraversa la Storia in date precise e cadenzate.

Nel nostro Paese i treni hanno un nome, il treno di questa parabola si chiama Italicus e ferma a Brescia, ferma a Gioia Tauro, alla Questura di Milano, il campo base è a San Benedetto Val di Sambro.

Ai lati della strada ferrata vi sono eversioni armate, rosse e nere, c’è lo stragismo, si sussurrano complotti segreti e deviati, compaiono eminenze grigie negli affari di Stato.

Poi c’è la massa, c’è sempre la massa nelle parabole e questa è nazional-popolare, con le sue tensioni sociali e intestine che gridano frantumando il silenzio sovrano.

Gridano di dolore a Piazza della Loggia così come a Bologna, gridano di rabbia contro la polizia, contro i tanti Luigi Calabresi nei processi irregolari presieduti da giudici senza toga.

Vi sono anche grida di protesta contro l’ingombrante Vietnam e il fresco ricordo di una Primavera a Praga.

La massa si spacca quasi a metà, si alzano barricate, si occupano atenei.
Strade come trincee e tanti manganelli.

In trentacinque anni sono sicuramente cambiate molte cose, ma mi domando quale insegnamento abbia portato quella violenza che muoveva i fili di ideologie ponderatamente spicce ritagliate in slogan, in P38, vestite di eskimo o in giacche di pelle nera.

Occhiali scuri, visi sempre più pallidi e concentrati attorno alla Renault 4 rossa di via Caetani.

C’è Giuseppe Memeo con il suo passamontagna, chino e con le braccia protese in avanti e prende la mira, è la foto che racchiude dieci anni d’Italia.

Sono gli anni delle bombe figlie di guerre mai dichiarate.

E si combatteva anche con i libri, con i fantasmi del passato, si giocava con la strategia della tensione, un risiko dal sapore fin troppo reale dei due blocchi mondiali.

La nostra generazione vive diversamente, imbottigliata nei social network; per gridare dimentica il “caps lock” inserito, e come ideologia non porta nulla di concreto se non ripetizioni di concetti triti e ritriti minacciando tritolo oppure atti di eroismo degne delle migliori chiacchierate da bar.

Fortunatamente non affiorano più, nelle strade, nelle piazze e negli incubi, gli ordigni creati dall’occhialuto uomo sveviano, ma sono spariti i libri, le riunioni, i confronti, è sparito il sale dell’educazione.

Sparisce quella briciola di buono che la parabola ha insegnato a chi è stato capace di coglierla.
Pace ai morti, pietà per i vivi.

Cadono le ideologie della nostra società e ci si arrocca nell’immobilismo cocciuto che non vuol sentir ragione perché ne vuole avere troppa.

Si professa l’anticambiamento, si teme di un domani anche troppo tumultuoso.

Ci si lega sempre più al singolo uomo, al leader di turno, paralizzando quel pensiero che dovrebbe camminare sulle gambe di altri uomini.
Si raccolgono le misere disinformazioni e ci si lascia cullare dalla più completa ignoranza ingiustificabile del XXI secolo.

Tanti pulpiti e tanti profeti di un pubblico annoiato che si guarda allo specchio.

Fanno le prove misurando i decibel di voce.

Vincerà chi spara più in alto il proprio balenante turpiloquio, meglio se dietro lo schermo o dietro alla tastiera.

Vige la regola del sentito dire, e i pochi pensieri indipendenti se ne vanno errando lungo lo Stivale domandandosi se l’errore è stato dare ascolto al piombo, oppure al nulla degli odierni.

L’eterno dilemma dell’unità di misura basata sul meno peggio.

Il 2 Agosto scorso era il giorno dei ricordi.

Era l’anniversario di troppe cose lasciate senza un nome.

Ore 10 e 25.

Nel mare di persone rimane solo un silenzio in cui non grida più nessuno.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da “Linkiesta.it”]