Bioetica e ambiente. L’uomo, la natura e le calamità naturali

Terremoti, alluvioni, frane e valanghe, i disastri naturali negli ultimi tempi hanno pesantemente colpito il nostro Paese provocando vittime e danni. Possiamo definirli esclusivamente fenomeni naturali causa dell’imponderabilità della natura o eventi amplificati dall’attività umana se non addirittura imputabili alla mano dell’uomo? Forse la natura si sta ribellando allo sfruttamento geotermico del sottosuolo, alle trivellazioni sotterranee, all’inadeguato utilizzo del territorio, all’errata urbanizzazione, ai cambiamenti climatici causati da inquinamenti e surriscaldamento del Pianeta?

Come ottenere una riconciliazione tra la natura e l’uomo partendo proprio dall’uomo, e perché la bioetica può rendersi utile nella realizzazione di tale processo?

Nel 1971, l’oncologo americano Van Reasselaer Potter, attraverso la costruzione del neologismo bioetica1, rese esplicita la consapevolezza dell’avanzare e del radicarsi di un progresso scientifico-tecnologico che avrebbe portato con sé la possibilità e la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, ma anche il rischio di un disfacimento dell’uomo e della sua umanità. Potter mise in luce la sua preoccupazione per la sopravvivenza dell’intero ecosistema.

L’oncologo americano richiamava, quindi, alla necessità di una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani, sanando la spaccatura tra due ambiti di sapere: il sapere scientifico e il sapere umanistico. La bioetica, così intesa, non avrebbe fatto riferimento solo alle problematiche biomediche, ma si sarebbe occupata di tutta la biosfera e quindi della vulnerabilità della natura in relazione all’intervento tecnico dell’uomo.

Nel corso della storia, nel rapporto con la natura, l’uomo ha assunto nei confronti della biosfera due atteggiamenti antitetici a seconda che predominasse in lui il rispetto per ciò che rendeva possibile la vita o, al contrario, il desiderio di esserne il padrone assoluto.

Le tradizioni di pensiero dominanti nella nostra cultura hanno promosso due opposti fondamentalismi individuabili nell’antropocentrismo e il biocentrismo. Il primo sostiene che compete all’uomo la preminenza all’interno del mondo naturale affermando, nelle sue correnti più radicali, il primato assoluto dell’uomo sulla natura; il secondo, all’inverso, rifiuta l’idea di una superiorità umana, per cui l’uomo è un semplice cittadino biotico i cui interessi si intersecano con quelli della biosfera.

È possibile identificare una terza via? L’uomo è l’unico essere degno di considerazione morale? Ne è l’unico destinatario? Come coniugare le preoccupazioni ecologiche con la cultura umanistica, la quale, dal canto suo, ipotizza la centralità dell’uomo? Come salvaguardare la natura senza penalizzare lo sviluppo dell’attività umana?

Credo che una terza via esista e che debba mantenersi in un’ottica antropocentrica: non si può prescindere dall’avere come punto di riferimento e come protagonista l’uomo se si vuole creare un’etica dell’ambiente in grado di proporre soluzioni operative. Il recupero dell’equilibrio tra uomo e natura non si ottiene mettendo sullo stesso piano l’essere umano e gli altri esseri viventi, ma piuttosto modificando il modo di pensare e agire dell’uomo nei confronti delle altre entità naturali. L’uomo deve farsi custode e rendersi responsabile di tutto il mondo naturale disciplinando, se necessario, la propria condotta. La natura è un bene da conservare e difendere per rispetto dell’essere umano stesso e in funzione della qualità e della sopravvivenza delle generazioni future, la tentazione di onnipotenza derivante dal vasto apparato di conoscenze tecnico-scientifiche deve essere assolutamente superata.

Riprendendo il pensiero del filosofo tedesco Hans Jonas: l’uomo deve considerare la natura come un bene da tutelare e da proteggere, e deve agire in modo che le conseguenze delle sue azioni siano compatibili con il mantenimento della vita umana sulla terra2.

La bioetica, come ambito di riflessione interdisciplinare, attraverso l’integrazione di differenti approcci: da quello biologico a quello economico, industriale, giuridico ed etico può offrire riflessioni significative che si trasformino in comportamenti attuabili al fine di assicurare le condizioni per uno sviluppo “sostenibile” delle attività umane che, nel contempo, permetta all’uomo di continuare a vivere nel suo mondo, ambiente non di distruzione e di morte, ma di vita.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE
1. V.R. POTTER, Bioethics: Bridge to the future, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1971, p.1.
2. H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990.

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Bioetica: quando la Filosofia si rende utile alla vita

Nonostante sia passato più di qualche anno, ricordo ancora nitidamente il momento in cui alla fine della prova orale dell’esame di maturità il mio professore di italiano mi chiese: “Pennisi, ha già deciso quale percorso universitario intraprendere?”. Io risposi: “Veramente sono ancora molto indecisa tra filosofia e ostetricia”. Fu allora che il mio amatissimo professore di filosofia mi disse: “Beh che problema c’è, Silvia. Se decidi, e so che lo farai, di immatricolarti a filosofia sarà un po’ come se ti iscrivessi anche ad ostetricia: l’arte dialettica della maieutica (tirar fuori, dare alla luce) viene paragonata da Socrate a quella della levatrice!”. Alla fine decisi di iscrivermi a filosofia essenzialmente per il grande desiderio di “portare alla luce”, di poter trovare il lato pratico e applicativo di quella disciplina che mi affascinava così tanto e che, ne ero certa, aveva tutte le carte in regola per rendersi utile alla vita.

Le mie attese furono soddisfatte alla prima lezione di “Elementi di etica della vita”, per me la filosofia si è fatta pratica nel momento in cui la bioetica clinica è diventata il centro del mio percorso universitario e post universitario; e l’ostetricia? L’ostetricia è stata la specialità medica di cui mi sono maggiormente occupata.

La bioetica nasce nella seconda metà del Novecento, il termine venne introdotto nel 1970 dall’oncologo americano Van Reasselaer Potter e da lui definito come una scienza della sopravvivenza che ha la capacità di coniugare conoscenze biologiche e valori umani (Potter, 1970). Potter, attraverso la costruzione di questo neologismo, rese esplicita la consapevolezza dell’avanzare e del radicarsi, in quegli stessi anni, di un progresso scientifico-tecnologico che avrebbe portato con sé la possibilità e la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, ma anche il rischio di un disfacimento dell’uomo e della sua umanità. Di qui la necessità di costruire un ponte tra le scienze e la filosofia ricomponendo la frattura tra piano dei fatti, dei dati sperimentali e piano dei valori.

La riflessione filosofica in bioetica si occupa essenzialmente dell’analisi razionale delle questioni morali che emergono nell’ambito delle scienze biomediche, cercando di determinare i parametri di liceità della pratica medica e della ricerca scientifica, affinchè il progresso si realizzi nel rispetto di ogni essere umano e della sua dignità.

Se la bioetica nasce come una riflessione etica dettata dai cambiamenti delle condizioni di vita dell’uomo, la filosofia è interpellata dall’uomo per capire questi cambiamenti e trovare significato. All’interno della bioetica la riflessione filosofica sulla medicina non potrà che essere nel contempo una valutazione sull’utilizzo del sapere medico e sui dilemmi morali sollevati dalla medicina, nella duplice dimensione di scienza e di pratica terapeutica.

Il progresso medico oltrepassa costantemente la frontiera di ciò che possiamo fare, mentre crescono le differenze e i conflitti su ciò che vogliamo, che dovremo fare. Le scelte esistenziali sono oggetto di una problematizzazione e riflessione critica proprie di una filosofia che può, anzi deve, mettersi a servizio della medicina attraverso un passaggio da un pensiero essenzialmente teorico e spesso lontano dalla vita quotidiana, ad una modalità d’azione più diretta ai problemi concreti dell’esistenza.

Silvia Pennisi