Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Un paio di scarpe e null’altro. Una lettura di Van Gogh

Nel famoso scritto L’origine dell’opera d’arte del 1935, Martin Heidegger (1889 – 1976) afferma che il quadro di Vincent Van Gogh (1853 -1890), che rappresenta un paio di scarpe da contadino, è un’opera d’arte non perché imita perfettamente delle calzature, ma perché raffigura un attrezzo, colto in un non-funzionamento, capace di aprire un mondo. L’intero mondo del contadino che ha calzato quelle scarpe viene alla luce. Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’opera d’arte ha la capacità di dischiudere la verità sull’ente e questo scaturire della verità che in essa accade può essere colto soltanto a partire dall’opera. Non è chiaro a quale dei tanti quadri di Van Gogh in cui compaiono scarpe Heidegger si riferisca (probabilmente a Vecchie scarpe con lacci del 1886); ciò che più conta per il pensatore, di fronte all’opera d’arte, è la dimensione dell’ascolto e della meditazione e non il giudizio soggettivo che si può dare su di essa.

Nella voluminosa opera Vincent Van Gogh del 1950, il critico d’arte Meyer Schapiro (1904-1906), invece, vede nell’arte il destino personale del pittore olandese, che libera nei suoi quadri tutte le aspirazioni e le angosce contenute nel proprio io, anche se il suicidio rappresenta la chiara e definitiva testimonianza del fallimento di questo tentativo di salvezza attraverso l’arte. All’interno di questa cornice, secondo lo studioso, rientra il modo di Van Gogh di dipingere gli oggetti (come, ad esempio, il paio di scarpe). Il suo io è così attaccato alle cose da riprodurle ostinatamente più volte. Nell’interpretazione di Schapiro, l’artista dipinge oggetti, siano essi fiori, una sedia, un cappello, una pipa o delle calzature, in quanto estensioni del suo essere.

Le riflessioni del filosofo e dello storico dell’arte di fronte al quadro di Van Gogh sono alla base della disputa sorta tra i due studiosi sulla giusta interpretazione e sulla corretta attribuzione delle calzature dipinte dall’artista olandese. La contesa tra Heidegger e Schapiro ha luogo attraverso uno scambio di lettere intorno agli anni sessanta del secolo scorso. La polemica viene innescata dal secondo, che accusa il primo di aver attribuito
ingenuamente, e senza troppe precisazioni, la proprietà delle scarpe a un contadino, anche se appartengono allo stesso Van Gogh, trascurando l’importante aspetto della presenza dell’autore nella tela per adattarne il contenuto a una elucubrazione filosofica. Jacques Derrida (1930 – 2004) nel saggio La verità in pittura (1978) tenta di porre fine al problema delle scarpe di Van Gogh contese tra Heidegger e Schapiro. Il filosofo francese non condivide l’esasperato bisogno dei due contendenti di assegnare la proprietà delle scarpe e mette in luce come entrambi commettano diversi errori di interpretazione.

Un paio di scarpe e null’altro. Tuttavia…
È interessante rilevare che dal confronto serrato tra Heidegger e Schapiro emerge la capacità intrinseca di un’opera d’arte di innescare un confronto, seppure con risvolti polemici, tra diverse discipline. La celebre disputa sorta attorno al dipinto di Van Gogh riassume in modo emblematico due particolari punti di vista davanti a un’opera: da un lato un atteggiamento ermeneutico-filosofico e dall’altro un atteggiamento critico-artistico. Si tratta di due modalità diverse di accostarsi a un quadro che ognuno di noi può intraprendere, di volta in volta, senza necessariamente dover propendere in modo definitivo per l’una o per l’altra.

Quando visitiamo una mostra, attraversiamo con calma le sale, indugiando di fronte alle opere che ci colpiscono maggiormente. A volte ci poniamo davanti a una tela lasciando che dall’immagine raffigurata affiori un significato, che diventa fonte d’ispirazione per riflessioni su aspetti particolari della nostra esistenza o su concetti filosofici astratti. In altre parole, entriamo in una dimensione di ascolto, confidando che sia il quadro a parlarci. Altrimenti possiamo provare a definire il dipinto in modo più critico mettendolo in rapporto con altri dello stesso autore o con le vicende biografiche dell’artista, oppure, ancora, con l’epoca in cui è stato dipinto e, più in generale, con l’intera storia dell’arte.

È forse questo uno dei caratteri essenziali dell’opera d’arte, ossia quello di aprirsi liberamente allo sguardo degli spettatori. Un quadro ha la facoltà di generare molteplici rimandi, di volta in volta differenti a seconda del punto di vista da cui si vuole guardare il suo contenuto, diventando lo sfondo su cui stabilire un dialogo culturale vivo e fecondo. Un paio di scarpe dipinte, nel loro semplice mostrarsi all’interno di una cornice, si rende disponibile alle varie interpretazioni di chi osserva, aprendo dei mondi e generando confronti e riflessioni.

 

Umberto Anesi

 

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L’arte non è solo Leonardo

Cosa non è ancora stato detto su Leonardo Da Vinci? O su Michelangelo Buonarroti? Artisti di tale fama rappresentano, almeno per noi italiani, non solo dei punti di riferimento imprescindibili nella storia dell’arte, ma anche dei veri e propri simboli dell’arte medesima, dei paladini della bellezza i cui nomi, tuttavia, sono eccessivamente sfruttati e abusati; sembra quasi che la storia dell’arte ruoti esclusivamente attorno a quei soliti cinque o sei nomi che tu leggi dalle pubblicazioni cartacee di ambito artistico o senti dai programmi televisivi di taglio culturale. In questa prospettiva si conoscono, dimenticando però altre figure chiave che talvolta hanno avuto ancor più peso nella storia rispetto ai “soliti noti”.

E così di libri sul geniale Leonardo, o sull’irruento Caravaggio, o sull’orgoglioso Michelangelo, per non parlare di quel donnaiolo di Picasso o di quell’altro pazzo di Van Gogh, ne escono a ritmi feroci, quasi come se chiunque voglia scrivere di arte si dirigesse a passo sicuro verso quelle mitologiche figure del nostro aureo passato per trovare chi solo possa garantirgli un qualche ritorno economico da una pubblicazione di argomento storico-artistico. Ma se a scrivere di Bernardino Luini non si guadagna nulla, non necessariamente bisogna perdere il proprio tempo a parlare del già abusato e sciupato Leonardo (con il quale comunque non si diventa ricchi, beninteso). Ma ovviamente moltissimi degli autori che pubblicano materiale su Leonardo probabilmente nemmeno sanno chi sia Luini e se lo conoscono, il più delle volte, è perché viene annoverato tra i “discepoli” del grande artista e “scienziato” toscano.

Con questo non si vuole, in questa sede, spronare il lettore ad approfondire artisti poco noti della nostra storia, bensì si intende rimproverare l’aspirante storico dell’arte che, per superficialità o mancanza di idee (e di coraggio), decidesse di pubblicare l’ennesimo capolavoro critico su Leonardo da Vinci o un inedito studio psicologico sul genio di Caravaggio. Mi scuso con il lettore se sto ripetendo all’infinito i nomi di Leonardo e Caravaggio, ma il mio intento è proprio quello di dimostrarvi quanto martellante e fastidioso possa risultare il dover vedere sempre i soliti titoli, sempre le solite immagini, sempre i soliti argomenti, sempre le solite riflessioni.

La storia dell’arte, fortunatamente, è molto più di così: essa è un viaggio infinito, una sorta di miniera inesauribile, composta da migliaia di figure di rilievo, artisti, architetti, artigiani, committenti, collezionisti, galleristi, accademici, letterati e filosofi, tutti tasselli di un enorme mosaico che restituisce un’immagine unica e inalterabile. È palese che, tra tutti i tasselli di questo immaginario mosaico, ve ne sono alcuni più importanti di altri ed è chiaro che Leonardo non è certo una tessera dello sfondo. Tuttavia sono moltissimi i personaggi di primissimo rilievo, e molti di questi, purtroppo, sono già finiti nel dimenticatoio.

Colpa, forse, anche di chi non sa promuovere adeguatamente molti capolavori che andrebbero rivalutati. Perché, per esempio, Alberto Angela continua a fare puntate su monumenti e artisti arcinoti? Con la conoscenza di cui è in possesso, potrebbe dedicarsi a fare degli speciali su opere ugualmente grandiose, ma meno celebri, e sono sicuro che la Rai non glielo negherebbe, perché gli spettatori al suo seguito sono sempre in gran numero. Così, invece, si continuerà all’infinito a lodare Michelangelo e a dimenticare che nella Sistina ci sono pure affreschi di “modesti” pittori di provincia, come Perugino, Botticelli, Ghirlandaio e Pinturicchio. Poi, chissà quali misteri e quanti tesori si nascondono nella Biblioteca Vaticana! Quasi come se non ci fossero altri archivi di massimo rispetto in Italia. Quanti sanno, per esempio, che il Codice Atlantico di Leonardo (giusto per insistere ancora un po’) si trova nella Biblioteca Ambrosiana di Milano? Eh sì, perché Milano, per fortuna, non ha solo il Duomo, lo stadio di San Siro e i negozi di via Montenapoleone.

So di essere stato un po’ acido, e non voglio che mi si fraintenda: non tutti sono storici dell’arte, non tutti sono interessati a diventarlo, ed è giusto così, altrimenti saremmo tutti uguali. Ma quel che è intollerabile è la banalità, perché denota pigrizia e la pigrizia intellettuale conduce inesorabilmente al sonno della mente. Quindi, per prima cosa, se ci si definisce appassionati di arte bisognerebbe non cadere nel facile tranello di individuare nella Gioconda o nella solita ragazza ritratta da Vermeer i punti più elevati della storia dell’arte, perché, per esempio, l’affresco di Correggio sulla cupola del Duomo di Parma lo è ben di più (e non solo in fatto di metri).

Curiosità, questa è la parola chiave: chi ama l’arte va a visitare i musei, entra nelle chiese, cammina tra i saloni dei palazzi storici, e così scopre si arricchisce, e si rende conto di quanto le arti figurative siano state e siano tuttora fondamentali nella storia del nostro Paese. Poi, chi volesse spingersi oltre e scrivere qualcosa per poterlo far leggere ad un pubblico perderebbe solo il proprio tempo se finisse per scrivere di Giotto o di Michelangelo: altri mille l’hanno fatto, e molti di loro l’hanno sicuramente fatto meglio. Trattare o quanto meno promuovere artisti e opere meno popolari, invece, è comunque più appagante, perché la gratitudine proveniente da chi legge un testo originale o non banale dà una soddisfazione di gran lunga maggiore. Purtroppo, però, è più comodo percorrere la strada con le gallerie per risparmiare mezz’ora, rinunciando d’altro canto a vedere il mondo alla luce del sole.

 

Luca Sperandio

 

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L’impressionismo a Treviso: opinioni sulla grande mostra

Il 29 ottobre scorso è stata inaugurata al Museo di Santa Caterina a Treviso la tanto discussa mostra Storie dell’Impressionismo, importantissima rassegna di pittura impressionista curata da Marco Goldin, storico dell’arte e abile imprenditore che ha fatto dell’organizzazione di importanti mostre d’arte il suo mestiere.

C’è da premettere che la genesi e lo sviluppo di questo progetto, di grande rilevanza per l’immagine del capoluogo della Marca e per il suo turismo, non sono stati per nulla facili: molti influenti personaggi del mondo culturale locale (e non solo) si sono sin dai primi tempi opposti duramente alla possibilità di affidare gli spazi del museo civico trevigiano al famoso curatore, accusato, ritengo ingiustamente, di creare mostre di bassissima qualità e di attirare grandi masse di visitatori con prodotti di basso profilo culturale e dai contenuti pressoché inesistenti. A ciò si lega il fatto che, secondo gli intellettuali di questa cerchia, il Museo di Santa Caterina necessiterebbe di lavori di sistemazione, e quindi di una maggiore promozione che ne permetta l’attuazione, senza però dover far passare la collezione permanente in secondo piano per lasciare posto a mostre come questa, che, come molti invidiosi usano riferirsi agli eventi goldiniani, vengono definite, con un semplice gioco di parole, ‘mostri’, accozzaglie di opere di artisti famosi esposte per attirare le masse. Ma come stanno le cose in realtà?

Ho visitato questa grande mostra un venerdì mattina e la prima cosa che non ho potuto fare a meno di notare è il grande afflusso di visitatori che si apprestano ad affrontare il lunghissimo percorso espositivo. È stata una sensazione piuttosto strana percorrere le sale del museo trevigiano in mezzo a così tanta gente: scolaresche, gruppi vari e soprattutto pensionati, tutti alla scoperta delle opere della grande stagione artistica francese, ma allo stesso tempo di una sede museale che, grazie alla mia esperienza di stagista nella stessa, posso garantire di non aver mai visto così viva. Dunque qui va subito ad infrangersi una delle argomentazioni di coloro che le mostre organizzate da Goldin proprio non possono tollerarle: con questo evento si è riusciti a catalizzare verso il museo una quantità di persone inimmaginabile per gli standard del complesso di Santa Caterina, una massa di visitatori che può scoprire, insieme alla mostra, le collezioni del museo. Infatti, se è vero che molte sale sono state svuotate per esporre i capolavori dei vari Manet, Monet, Renoir, Cézanne e Van Gogh, le opere più importanti del museo sono comunque disposte lungo il grande corridoio dell’ex convento dove esso è ospitato, in modo che il visitatore, spostandosi tra gli ambienti a sinistra e a destra del grande spazio centrale, è ‘obbligato’ ad ammirare anche i maggiori capolavori delle collezioni trevigiane, dipinti di Tiziano, Tiepolo, Lorenzo Lotto, Rosalba Carriera e molti altri. Come si può chiamare questa se non promozione del luogo?

A questo punto resta solo da valutare la mostra vera e propria, indipendentemente dai suoi influssi sul turismo e sulla promozione del territorio. Sinceramente, credo che anche in questo caso chi critica amaramente le mostre firmate Goldin non faccia altro che dimostrare una fortissima e apparentemente ingiustificabile invidia.

Ciò non significa che la grande esibizione sia priva di difetti: ho trovato il percorso di visita poco chiaro, colpa anche del fatto che sia disposto, nella prima parte, lungo due assi longitudinali separati dal grande corridoio del convento, cosa che rende complicata la scelta della sequenza da seguire e imponga una certa attenzione al fine di non saltare alcuni ambienti. Altra piccola critica che posso rivolgere alla mostra è quella di non avere un preciso ordine tematico o stilistico da seguire, o meglio, i temi ci sono ed è su di essi che si fonda il percorso, ma vengono a più riprese abbandonati e ripresi, seguendo essenzialmente un vago ordine cronologico che rischia però di mettere un po’ di confusione nei visitatori meno esperti. Questo è il motivo principale per cui molti puristi ritengono che queste mostre siano inutili e prive di contenuto. Ritengo tuttavia che queste affermazioni siano frutto di pura follia o, meglio, di enorme invidia. Ma poi perché mai ci dovrebbe essere invidia da parte di questi intellettuali?

La risposta è scontata: chi altro in Italia riesce a radunare in un unico evento oltre cento capolavori dei grandi protagonisti dell’impressionismo? Se anche a me è permesso fare un gioco di parole, posso affermare che questa mostra sull’impressionismo è impressionante: non ho mai visto in vita mia una quantità simile di dipinti di questa corrente artistica, una rassegna gigantesca che abbia radunato opere di tutti gli artisti che ne sono stati fautori e che presenti, per ciascun autore, dipinti di soggetti diversi, spesso accostati a quadri di soggetto simile di un altro pittore, così da evidenziarne le differenze. Penso che, nonostante l’ordine espositivo talvolta poco chiaro, visitare questa mostra sia d’obbligo per chiunque studi arte o ne sia molto appassionato, perché l’occasione di poter vedere così tanti capolavori, spesso accostati tra loro in modo geniale, e poterne valutare caratteristiche e differenze possa non capitare una seconda volta. Così come può non capitare più nella vita di vedere le singole opere ora esposte a Treviso, provenienti da musei sparsi in tutto il mondo. Daltronde, quante possibilità ci sono che mi ritrovi un giorno in Ohio a visitare il museo di Columbus? Onestamente, credo poche. Perché non approfittare allora di vedere alcune delle sue opere a Treviso, finché ci sono?

Luca Sperandio

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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“Glamoursofia” – l’Amore per il Glamour

Questo non è un libro per barbie-girl. Intendiamoci, non è neanche un libro rivolto al cosiddetto “sesso forte”, perché la moda – nonostante un numero sempre maggiore di uomini ne sia attratto e sedotto – è, e resterà, un “affaire des femmes”.

Così inizia “Glamoursofia”, il saggio scritto da Debora Dolci e Francesca Gallerani, due donne che, grazie a questo libro, riescono a sfatare uno dei più grandi miti: la moda non rappresenta superficialità e poca necessità; la moda è storia, arte, fa parte del nostro essere e del nostro vivere.
In una concezione assai comune, la donna che si occupa attentamente del proprio corpo, trascura il proprio spirito, e quindi, la sua cosiddetta “interiorità”.
Eppure, proprio Nietzsche, affermava che “credere nel corpo è più fondamentale che credere nell’anima”.

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