Sull’importanza dello studio come nostra attività quotidiana

C’è un brevissimo scambio di battute nel film “Vento di Passioni” del 1994 di cui vorrei avvalermi per introdurre e discutere un tema, quello della formazione e dell’istruzione, sempre più cruciale a molte questioni irrisolte della nostra contemporaneità. 

La scena cinematografica è quella che vede il Colonnello Ludlow (Anthony Hopkins) e la futura nuora Susannah (Julia Ormond) condividere la loro cena in cucina con la famiglia incaricata dei servizi domestici della casa. Durante la conversazione a tavola, il Colonnello, accorgendosi delle lacune educative della tredicenne Isabel (Sekwan Auger), offre ai genitori la sua disponibilità a occuparsi personalmente della sua istruzione. Il padre Decker (Paul Desmond) si rivolge quindi alla moglie (Tantoo Cardinal) per un suo parere, e subito dopo, con franchezza e senza fronzoli, pone al Colonnello la seguente domanda: «E che ci farà con tutta questa istruzione?» Al ché il Colonnello Ludlow, in un misto di sorpresa e ovvietà, gli risponde: «Avrà una vita più ricca e più piena!»

Questa risposta rapida e concisa sembra però lasciare un po’ perplesso il padre di Isabel. La sua esclamazione, in pronta battuta, sulla peculiarità d’origine della figlia sembra infatti esprimere il dubbio che l’educazione offerta dal Colonnello possa essere, in qualche modo, inadatta o inappropriata rispetto alle realistiche opportunità future di Isabel.

Il film è ambientato nel Nord-America durante gli anni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quindi all’incirca poco più che cent’anni fa, ma la domanda del padre di Isabel supera la contingenza temporale cinematografica, qualificandosi piuttosto come un interrogativo tra i più comuni. Chi di noi non si è mai chiesto almeno una volta il senso e il motivo dell’utilità pratica dello studiare

Ora, se è del tutto normale investire il proprio impegno di studio in previsione di una più o meno specifica occupazione professionale è altrettanto vero che la selezione formativa e conoscitiva operata dalla nostra scelta rischia di circoscrivere l’importanza dello studio esclusivamente a una funzione preparatoria e per questo tacitamente a termine.

Ecco che allora la risposta del Colonnello Ludlow ci offre l’occasione di riflettere più in profondità sul senso dello studio. La sua affermazione infatti esprime la convinzione che l’educazione culturale in senso lato, abbia un valore a prescindere da qualsiasi posizione o possibile contesto sociale. Quello studio infatti permetterà a Isabel di vivere «una vita più ricca e più piena» indipendentemente da un suo riconoscimento generale o una sua remunerazione materiale poiché l’importanza dell’impegno e dell’esercizio allo studio sta innanzitutto nel rafforzamento della propria interiorità e personalità. Infatti, attraverso esso, noi impariamo a interrogare il nostro pensiero, ad assumere momentaneamente la prospettiva di altri e ad acquisire, per questo, una maggiore capacità e volontà espressiva. 

Queste considerazioni lineari, apparentemente prive di implicazioni pratiche, sfidano, in realtà, almeno due nostre impostazioni culturali piuttosto assodate.

La prima è quella che tende a identificare lo sviluppo della persona con la competenza di una professionalità specifica e contingente nonostante non ci siano evidenze empiriche di una coincidenza al dettaglio tra le funzioni gerarchiche sociali e la diversificazione di ciò che chiamiamo “talento”. Se, dal punto di vista pratico e realistico, sembra più che ottimale una selezione conoscitiva di tipo funzionale, è di certo discutibile l’idea, a essa troppo spesso implicita, di uno sviluppo della nostra persona coincidente e mai abbastanza eccedente la competenza acquisita di una mansione generica o specializzata. Ciò a maggior ragione oggi che le nostre attività occupazionali tendono a subire un dinamismo capace di renderle obsolete. 

La seconda, tanto antica quanto imbarazzante, è quella che accorda al sapere l’attributo del potere e che, parimenti, accetta senza riserve la necessità organizzativa delle proprie strutture economiche come criterio elettivo e selettivo del proprio personale patrimonio conoscitivo, determinando un rapporto inverso, e quasi sempre definitivo, tra volume conoscitivo e status sociale. Situazione particolarmente paradossale oggi che la funzionalità dei nostri compiti sembra esonerarci da osservazioni e riflessioni di più ampio respiro.

Per queste ragioni lo studio non è da intendersi come una attività meramente scolastica finalizzata al superamento di un esame e all’ottenimento di un titolo specifico ma come una nostra attività fondamentale da coltivare con libero interesse e ordinarietà. La sua importanza sta nel sostenere la nostra voce che si caratterizza imparando a legittimare l’esigenza di espressività che spunta e muove dalla singolarità della propria vita.  

Riuscirà la cultura del nostro secolo a riconoscere il valore dello studio, a tradurlo in pratiche quotidiane e a fiorire grazie all’uso democratico e alla costruzione partecipata della conoscenza? 

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Alexander Grey via Unsplah]

 

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Il valore come mezzo oltre che misura dello scambio

Gli eclatanti, problematici sviluppi degli ultimi anni, verificatisi in ambito economico, sociale, ambientale e politico, ci inducono ormai a percepire la condizione di crisi come elemento strutturale del nostro vivere individuale e collettivo.

Se, alla luce di emergenze come i cambiamenti climatici, alcuni si spingono a richiamare la necessità di mutare i nostri paradigmi economici (è il caso del movimento Fridays For Future), ben più consolidato è il riferimento alla “sostenibilità”, intesa come principio guida che consente di non superare i limiti posti dal rispetto dell’ambiente e dall’esigenza di coesione sociale. Tuttavia, rischia di rivelarsi illusoria l’idea di poter mantenere in equilibrio un sistema di cui si ignorano o danno per scontati alcuni presupposti, fra cui il predominio dell’economia sulla politica, o la non praticabilità di soluzioni terze rispetto alle tecnocrazie e ai populismi.

In un contesto in cui si forniscono incentivi monetari a compiere scelte come inquinare di meno – o si sanzionano comportamenti di segno opposto – è illuminante rileggere le riflessioni di Georg Simmel (1858-1918), relative al modo in cui il denaro strumentalizza tutti i fini e i valori, divenendo esso stesso il solo tangibile punto di riferimento delle nostre relazioni sociali. E, per riprendere una distinzione kantiana, sarebbe almeno onesto chiarire che la nostra civiltà vive esclusivamente di imperativi ipotetici, condizionati dagli scopi delle proprie azioni, emarginando gli imperativi categorici capaci di esprimere la propria autonomia morale.

In nome dell’anarchica, consistente nello scegliere i mezzi più conformi a mutevoli e soggettivi fini, non si concepisce neppure la possibilità di una individualità che, orientandosi a principi di fondo, a narrative trasversali ai ruoli sociali e alle biografie, si possa elevare al di sopra di interessi contingenti. Un’ottica dell’autonomia favorirebbe d’altra parte la definizione di una volontà generale (per dirla con Rousseau), o almeno di una concezione non strumentale di giustizia, quale quella suggerita da John Rawls. Rousseau, infatti, evidenziò ne Il contratto Sociale (1762) come la volontà generale è orientata al bene comune, mentre la volontà di tutti non è che una somma di volontà particolari. Rawls ha proposto nello scorso secolo che i principi di giustizia vengano scelti dietro un velo di ignoranza, ovvero non basandosi sugli specifici ruoli che si rivestiranno nella società. Anche tale ottica rimanda, peraltro richiamandosi all’ideale kantiano, al trascendimento delle convenienze contingenti.

Il mercato e le transazioni economiche possono ancora essere dotati di una dimensione etica, finalizzata a una nozione di bene comune. La mercificazione dominante non deriva principalmente dal libero scambio tra attori consenzienti, ma dall’assenza di mezzi di scambio connotati in senso valoriale, con la conseguente impossibilità di interpretare la transazione economica come un atto che vada oltre la soddisfazione di esigenze private e l’istante del pagamento, della cessione di denaro.

Si potrebbe immaginare la definizione per legge di indicatori volti a connotare determinate azioni come rilevanti in base a principi come l’ambientalismo (ad esempio una certa riduzione delle emissioni inquinanti da parte delle imprese) e la giustizia sociale (ad esempio la riduzione della dispersione salariale nelle imprese e della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, nell’ambito delle regioni). Una piattaforma potrebbe consentire a individui, imprese e comunità locali di scambiare documenti, ciascuno dei quali, riferito a un determinato valore morale, organizzativo o culturale, elencherebbe i benefici, ad esempio reputazionali, sperimentati in passato adottando una o più iniziative in linea con i detti indicatori (cfr. M. Senatore, Scambiare autonomia, 2013).

Tali documenti potrebbero essere ceduti in cambio di beni e servizi, e fungerebbero pertanto da mezzo di pagamento, ma non sarebbero scambiabili con denaro. D’altra parte, essi avrebbero un controvalore monetario, precisamente per poter essere scambiati con merci. Tale controvalore, o prezzo, sarebbe funzione sia del numero di esperienze contenute in ciascun documento, sia della domanda e offerta di tutte le esperienze sul mercato, collegate al valore cui il documento si riferisce. Il livello iniziale del prezzo delle esperienze sarebbe commisurato al costo medio da sostenere per conformarsi agli indicatori rilevanti. Prezzare i documenti fornirebbe un incentivo a partecipare agli scambi: la possibilità di cedere ognuno di essi a un controvalore monetario superiore a quello di acquisto, come risultato da un lato dell’aggiunta di nuove esperienze, dall’altro dello scegliere un valore destinato a divenire più rilevante per i partecipanti al mercato.

Determinare un “valore dei valori”, senza la mediazione del denaro, consentirebbe di interpretare gli scambi economici non come un momento necessario esclusivamente per confermare il proprio ruolo sociale, nel nome di un’efficienza puramente quantitativa, ma anche come un’occasione per modificare tale ruolo e, nel far ciò, contribuire a una deliberazione pubblica sul bene comune.

 

Marco Senatore

Marco Senatore (Genova, 1975) è un dipendente pubblico impegnato nel contesto della governance economica dell’Unione europea. Dopo la laurea in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, ha approfondito la propria formazione negli ambiti dei mercati finanziari e del commercio internazionale. Ha inoltre avviato un progetto individuale di indagine orientato al dialogo tra economia ed etica. Esprime le proprie esigenze creative tramite la poesia, la narrativa, la fotografia, la musica, e ha da alcuni anni intrapreso una più profonda ricerca spirituale.

[Photo credit Alexander Mils via Unsplash]

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La vita fugge e non s’arresta un’ora. Riflessioni sul tempo

«La vita fugge e non s’arresta un’ora» recita un famoso sonetto del Canzoniere del poeta Petrarca. Niente di più vero! Ogni giorno facciamo i conti con la consapevolezza che il tempo a nostra disposizione trascorre velocemente e verso l’inevitabile fine. Ciò nonostante, quante volte, non curanti, lasciamo che passi, cullati dall’illusione di poter recuperare le occasioni perdute? Così rimandiamo a un domani, vicino o lontano, quello che potremmo fare oggi, mettiamo in stand by la nostra vita, senza poi realizzare le nostre “buone” intenzioni.
Ci capita, poi, di consolidare l’abitudine a procrastinare perché tacitamente ci convinciamo che non siamo noi ad appartenere al tempo, ma che sia il tempo ad appartenerci, come se fosse una proprietà che ci è stata consegnata al momento della nascita per poterne disporre a nostro piacere.

Ecco, allora, il dilemma: siamo effettivamente noi che disponiamo del tempo o è il tempo che dispone di noi?
Certamente non abbiamo potuto decidere quando nascere e dare inizio al nostro tempo, né tanto meno possiamo prevedere il termine della nostra vita; tuttavia è vero che siamo noi a disporre del tempo: ce ne serviamo per quantificare lo scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni e la quotidianità della nostra esistenza, per soddisfare il nostro bisogno di porre ordine ai fatti che ci vedono personalmente coinvolti o che avvengono al di fuori di noi.

È stato il filosofo Aristotele, nel libro IV della Fisica, a definire il tempo come «la misura di ciò che muta, secondo l’ordine del prima e del poi», evidenziando che il tempo ci serve per ordinare e quantificare ciò che accade. Ed è evidente che questa capacità di misurare secondo l’ordine del prima e del poi non è qualcosa che risieda nel tempo, bensì è un’attività specificatamente umana.

Il tempo non sarebbe se non ci fosse l’uomo a concepirlo. Lo aveva ben compreso Sant’Agostino che nelle Confessioni, riflettendo sul tempo passato, futuro e presente, giunge a costatarne l’inconsistenza, notando che «il primo non è più, il secondo non è ancora» e che il terzo, il presente, è un attimo che velocemente trapassa nel passato. Difatti il tempo si annullerebbe, passerebbe senza lasciare traccia se l’uomo non lo trattenesse nella sua anima e nel suo pensiero, custodendo la memoria delle azioni compiute nel passato; attendendo la concretizzazione di progetti e speranze nel futuro; prestando, infine, attenzione ai fatti che accadono hic et nunc, nel presente.

Facciamo ora un’altra riflessione. Il tempo ci consente di quantificare, secondo parametri oggettivi, la durata dell’anno solare o i cicli delle stagioni, di definire in date fisse e inequivocabili ricorrenze e festività, di scandire lo scorrere delle giornate secondo tabelle orarie che sappiamo essere valide allo stesso modo per tutti. È però innegabile che nel dato oggettivo del tempo vada contemplato sempre anche un aspetto soggettivo. Il tempo esteriore dell’orologio, pur rappresentando per tutti la medesima quantità, interiormente può essere percepito in maniera totalmente diversa da soggetto a soggetto, a seconda della situazione emotiva che si prova in quel momento: così gli stessi cinque minuti per alcuni possono essere fonte di dolore e sembrare infiniti, per altri invece possono trascorrere gioiosamente e dare l’impressione che passino in un baleno. Il tempo possiede un indiscutibile valore e significato privato e personale, che riguarda esclusivamente chi lo vive.

Ed ecco l’ulteriore domanda: da chi o da che cosa dipende il valore e il significato del nostro tempo? Nonostante siamo convinti di poter disporre del tempo a nostro piacere, spesse volte cadiamo in contraddizione quando, lamentandoci di essere stati sfortunati e di non aver ricevuto buone occasioni, incolpiamo forze a noi esterne – il caso, il destino, un dio – della nostra infelicità, della brevità della vita, che ci pianta in asso proprio quando ci apprestiamo a vivere. Sicuramente non possiamo prevedere o evitare gli imprevisti che intralciano il nostro cammino e che sembrano ridurre le possibilità di cui temporalmente disponiamo per fare della nostra vita un capolavoro. Non possiamo, però, nasconderci dietro a questa giustificazione per non ritenerci responsabili del nostro tempo. Vivere un tempo sufficiente e di buona qualità dipende anche e soprattutto da noi, dal nostro impegno e dalla nostra determinazione a saper cogliere, nell’immediatezza del presente, ogni occasione, per contribuire a rendere la nostra vita soddisfacente, sforzandoci anche di convertire il negativo nel positivo. Seneca nel De brevitate vitae ci avverte che «non dovremmo preoccuparci di aver vissuto a lungo, ma di aver vissuto abbastanza», di aver saputo dare spessore e intensità alla nostra vita, disponendo del nostro tempo con saggezza, fruendone appieno senza sprecarlo, considerando «ogni giorno come una vita intera.» (Seneca, Lettere a Lucilio, 2010).

 

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Nathan Dumlao via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Lettera alla vita

«Vedere il mondo, attraversare i pericoli, guardare oltre
i muri, avvicinarsi, trovarsi l’un l’altro e sentirsi»
(slogan rivista Life).

Cara Vita,
a sedici anni affrontai la mia prima interrogazione di filosofia. Ero molto teso, non ho mai avuto una gran memoria, dopotutto. Il prof. M. mi  guardava di sfuggita. Mi agitavo sulla sedia pronto ad essere inchiodato  dalle sue domande: per quanto il suo atteggiamento fosse in qualche modo affabile, lo temevo. 

“Lei cosa pensa di Platone?” 

Il mio cervello non recepì immediatamente la domanda, tant’è che involontariamente mi uscì un flebile: “Eh?”. Il professor M. mi guardava senza cambiare espressione. Ripeté, esortandomi: “Lei cosa ne pensa di  Platone?” La mia mente era pura entropia: era davvero la mia personale opinione ad essere richiesta? La risposta fu tanto timida quanto sincera: “Non sono molto d’accordo”. Il prof. M. incalzò: “Bene. E perché non sei  d’accordo?” 

Presi sei e mezzo, ma quel giorno cara Vita ho capito che tu, come la Filosofia, non sei fatta di soli dati fissati sulla pagina di un manuale: sei piuttosto un velo mutevole in perenne movimento, difficile e allo stesso tempo importante da interpretare. D’altronde i più recenti studi fisici sulla materia, come le più antiche intuizioni filosofiche e mistiche dell’Oriente1 supportano questa ‘traduzione’: ogni minuscola trama del tuo tessuto cela i paradossi e le incongruenze contro i quali noi sbattiamo la testa ogni giorno. Tuttavia credo non ti si debba riconoscere alcuna volontà malefica – come il Fuoco eracliteo che crea e distrugge – ma solo la difficoltà di  districare le tue trame e diventare protagonisti del tuo fluire. Sei l’unità e la completezza: cos’altro potresti fare se non esserci perché noi ci siamo

La chiave per un buon rapporto con te risiede nello sforzo – mentale e  corporeo – di creare e mettere in atto il senso di ciò che si manifesta. Lo Streben – lo chiamerebbe Fichte nella propria dottrina morale – di un Io2 che ‘sbatte’ contro i limiti di se stesso, forzandoli e creando così il proprio Mondo. Perché noi siamo, fino a un certo punto, il nostro Mondo. Causa l’ignoranza della realtà fuori da noi e l’esser sommersi dai ripetitivi accadimenti quotidiani – tratti che contraddistinguono in modo particolare questa nostra epoca – spesso dimentichiamo che siamo noi a dover creare il senso e il fine; noi che dobbiamo tracciare il sentiero che si dipana di fronte a noi. 

“Scegliere la Vita, momento per momento” è l’atto che ci permette di farci strada nel gioco del Mondo. Se mai decidessimo di non osare nei tuoi confronti, o Vita, non saremmo diversi da un uomo che vede fuggir via la donna che ama senza farsi nemmeno notare. Scivoleresti via anche tu, un po’ alla volta, con la medesima nonchalance di un parigino; a noi resterebbe solo il rimpianto di non aver assaggiato il tuo latte. I tuoi frutti sono per chi vuole trovarli non per chi li attende: dopotutto cosa c’è di più soddisfacente dell’orgoglio che ci lega ad un obiettivo raggiunto, ad una scelta difficile di cui ci siamo resi partigiani, finanche un fallimento di cui siamo gli unici responsabili? 

«Un bravo allievo si concentra sull’emissione della Vita» ed è caparbio (A. Astolfi, Lezioni di musica). In quanto parte delle trame del Mondo, l’uomo è mutevole con esso e mette in atto le variazioni che lo fecondano (il Mondo). Siamo fatti della stessa materia delle stelle, dopotutto: noi siamo parte di ciò che ci circonda. Guai a pensare che la Vita non ci riguardi: guai ad alzare le spalle di fronte agli eventi che invocano la nostra attuale presenza. 

Lode, dunque, a chi riesce a scegliere il sentiero della propria vita, perché proprio da te, o Vita, non avrà altro che questa grande possibilità per plasmarti. La grandiosità del proprio vissuto richiede fatica e prontezza di spirito: la Vita si dice sia una guerra; ciò che non si dice è che è una guerra contro noi stessi per non rimanere inermi. La sostanza del nostro vivere sta nelle scelte di senso, nelle conseguenti divaricazioni delle nostre strade e negli incontri/scontri con gli altri.

«Non volevo vivere con quella che non era una vita, a
meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo
vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di
essa […]» (H.D. Thoreau, Vita nel bosco, 1854).

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. J.R. Oppenheimer, N. Bohr e W. Heisenberg sono tre esempi di rinomati fisici che citarono in tal senso la vicinanza tra la fisica e il filosofico-orientale.
2. G. Fichte, Fondamenti sull’intera dottrina della scienza, Bompiani 2003.

[Photo credit Aziz Acharki via Unsplash]

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Elogio dell’alterità: perché non possiamo negare l’altro

Non esiste scienza che abbia tenuto a margine il problema dell’identità, protagonista indiscusso delle riflessioni psicologiche, sociologiche, antropologiche e, naturalmente, filosofiche di ogni tempo. La filosofia, infatti, non si è sottratta al problema, offrendone risposte plurime e diversificate, tanto sul campo logico ed ontologico, quanto su quello etico e politico. Ma sebbene di identità hanno parlato in modo più o meno chiaro svariati pensatori, molto meno calcato si è rivelato il topos dell’alterità, portando a pensare, anche nel senso comune, all’altro come un non-ente e un non-uomo, un elemento trascurabile e sempre definibile via negationis per ciò che noi siamo e lui, in quanto altro, non è. Scopo di questo piccolo scritto è allora offrire un breve sguardo sull’altro, quella nota a margine della filosofia, quel semplice sottinteso che qui vuole essere risignificato, rivalutato, riconosciuto in quanto imprescindibile e coessenziale al noi.

L’intrinseco ed ineliminabile filo che unisce identità e alterità, “noi” e l’altro, è fin da subito rintracciabile nel momento in cui ci poniamo la domanda sul suo significato. Banalmente, identico si riferisce a ciò che rimane sempre uguale a sé stesso, ciò che non è altro da sé. Notiamo così come nella stessa definizione di identità sia situato il suo rovesciamento o, per dirla con Hegel, notiamo come nella sintesi in quanto tale sia necessariamente presente la negazione della tesi, l’antitesi, che non è più solo la privazione della tesi, «il niente astratto»1, ma ha un suo statuto, è «un essere altro»2 e un suo valore specifico, perfino costitutivo. A riprova di questo gioco dialettico tra identico e altro, ci rendiamo conto di quanto nel processo di creazione del proprio Sé socio-individuale sia imprescindibile riconoscersi in un dato habitat relazionale, un ingroup, il quale non solo definisce chi siamo e l’immagine che di noi abbiamo, ma si costruisce proprio in contrasto rispetto ad un outgroup esterno: è ciò che accade quando ci si identifica in una prospettiva politica, sentendocisi di sinistra e per questo non di destra; in un gusto artistico, apprezzando il rock e meno gli altri generi musicali; nutrendo alcuni interessi rispetto ad altri e per questo configurandosi in una comunità più o meno ampia di soggetti che con noi condividono le stesse caratteristiche.

Eppure è al contempo vero che nonostante sia comprovata l’indispensabilità dell’altro, l’alterità finisce spesso per essere minimizzata e semplificata e a dircelo sono fatti storici, attenzioni disciplinari, il nostro stesso punto di vista. Può sembrare cosa da poco, ma il rischio di una sottostima dell’alterità ha come risultato un gravoso duplice effetto di risposta: quello di naturalizzazione della propria identità e quello di negazione dell’alterità. Si tratta di due dinamiche simultanee — e tutt’altro che esotiche o saltuarie — per cui proprio quando tendiamo a naturalizzare, cioè normalizzare e assolutizzare i nostri tratti identitari, andiamo a dimenticare e rimuovere ogni tipo di diversificazione intra- ed extra-sociale. Quando, ad esempio, iniziamo a ritenere, sia questo per conformismo o strumentalismo, la nostra idea di famiglia, sistema politico, credo religioso e qualsivoglia costume come il solo ed unico esistente o accettabile, ecco che inevitabilmente l’altro, colui il quale si caratterizza proprio per il suo non condividere quel tratto, si configura come anormale, stigmatizzabile, un errore da correggere o cancellare. In questo modo se ne disconosce l’esistenza o se ne delegittima la presenza, portando a un gravissimo esito per cui l’altro diviene un mero minus habens, una presenza elisa e deculturata, traducendosi nel barbaro per il greco o nell’ebreo per il nazista, nell’indigeno per il conquistatore, fino ad arrivare ad altri ingiustificabili avvenimenti, molti dei quali meno noti e lontani da noi.

Ci si rende immediatamente conto, allora, del portato politico della questione dell’alterità, ma ancora prima dell’importanza di un’apertura alla molteplicità, una disposizione alla variabilità culturale, una complessificazione dell’altro che non solo è molto più che un calco in negativo di ciò che noi siamo, ma ha a sua volta specificità: l’alterità ospita l’identità come l’identità ospita l’alterità, è questo ciò che ci insegna Francesco Remotti, che a questo tema ha consacrato la sua longeva attività parlando di «ossessione identitaria»3 e ricordandoci, con tanto di concreti casi etnografici, che così come in noi è vivo l’altro, per questo tutto fuorché eliminabile, l’altro merita un suo riconoscimento. Perché ciascuno di noi è l’ebreo (o il barbaro) di qualcuno — direbbe Primo Levi — e perché l’alterità non è un disvalore, ma qualcosa di molto di più, come afferma Lévinas.

 

Nicholas Loru – Filosoficamente

 

NOTE:
1. Cfr. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §91.

2. Ibidem.
3. Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, 2010 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, 2009.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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Il respiro dell’immateriale: il cittadino-paziente e l’isolamento

Nel mondo globalizzato dal virus la biopolitica prende il sopravvento. Il cittadino-paziente è impossibilitato ad uscire di casa, se non per comprovate esigenze lavorative o di salute.
La politica sbadatamente si dimentica che il distanziamento sociale tra anima e corpo è oramai superato. Il diritto alla salute, di cui tanto si è parlato, non può prescindere dal precedente assunto. L’Uomo, connubio di anima e corpo, è un essere-nel-mondo e in quanto tale include tra i suoi determinanti di salute anche l’ambiente esterno in senso lato.

Rinchiuso nelle quattro mura domestiche il cittadino-paziente sente l’esigenza dell’immateriale: il contatto con la natura, le relazioni interpersonali, la cultura.
La biopolitica, preoccupata molto del corpo e dei possibili effetti su di esso, ha prestato ben poca attenzione agli effetti sulla psyché e alle possibili ripercussioni nella sfera delle relazioni con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di alterità: di altro e di altri. La solitudine infatti se imposta si trasforma in isolamento. E l’isolamento pandemico rivela la spietatezza del capitalismo. Al cittadino-paziente è permesso di uscire per andare a lavorare, ma non gli è concesso oziare su un prato o su una spiaggia. Non gli è permesso trarre godimento dalle bellezze naturali e dall’incontro con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di complessità. L’esistenza dell’individuo si alimenta attraverso l’interconnessione di esperienze, situazioni, contesti, idee, parole, emozioni e sensazioni. Nell’apatia e nell’omogeneità dell’isolamento pandemico il cittadino-paziente esaurisce la sua alterità. Soffoca.

Ma il cittadino pazienta e attende il viaggio al di là dei propri confini domestici, con o senza passaporto immunitario. L’apprendere un nuovo valore di spazio-tempo conduce il cittadino post emergenza pandemica a viaggiare a rallentatore. Godersi ogni attimo e riappropriarsi dell’interazione con la natura, in cui – come dimostrato da studi scientifici – l’attività cerebrale è più efficiente e lo stato psicologico ne trae vantaggio. L’irregolarità del paesaggio naturale ridonano la complessità e l’alterità. Il solo osservare l’eterogeneità delle forme della natura origina uno stato di rilassamento e benessere generale.

Il cittadino pazienta e attende l’amico, la cui amicizia rappresenta il dialogo delle diversità. Non statica, bensì in movimento, l’amicizia unisce il molteplice e consente di scoprire ed esaltare la propria unicità.

Il cittadino pazienta e attende la cultura, di cui la psyché si nutre e attraverso cui la comunità prospera. Ora più consapevole dell’utilità dell’inutile abbandona il culto dell’utilità, che inaridisce lo spirito. L’arte non più confinata entro le mura dell’isolamento pandemico, torna ad essere espressione libera e condivisione.

Il virus soffoca il respiro, ma il cittadino pazienta e ritorna a respirare l’immateriale.

 

Jessica Genova

 

[Photo credit Marc-Olivier Jodoin via Unsplash]

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L’intelligenza è un obbligo morale

«Sembriamo essere lontanissimi dal renderci conto che un’azione può essere chiamata buona, in maniera intelligente, solo se contribuisce a un buon fine; che è obbligo morale […] scoprire […] se una data azione conduca a un fine positivo o negativo»

J. Erskine, L’obbligo morale di essere intelligenti, 2015.

Non solo coraggio, umiltà, altruismo, tenacia e bontà. L’ecosistema di ideali in cui l’uomo vive – e a cui può attingere – è molto più ampio. Un esempio? Pensiamo all’intelligenza. Ovvero a ciò che ci permette «di entrare in empatia con altri tempi, altri luoghi, altre tradizioni…» (ivi), che può trasformare la paura in possibilità. Quell’intelligenza che Platone identificava con la virtù opposta al peccato, cioè all’ignoranza. Che Einstein definiva come capacità di cambiare, di virare rotta, quando necessario. Quella stessa intelligenza che per John Erskine deve diventare un obbligo morale.

«Se non impicchiamo più i ladri o non frustiamo più gli studenti, non è perché consideriamo con meno asprezza il furto o la pigrizia, ma perché l’intelligenza ha trovato metodi migliori per indirizzare verso onestà e intraprendenza» (ivi).

L’obbligo morale di essere intelligenti è un pamphlet pubblicato nel 1915. Uno scritto che scatena una potente eco nel dibattito culturale americano della prima metà del Novecento. Erskine (1879-1951), professore di letteratura inglese alla Columbia University, circa cento anni fa racconta qui una breve storia di questa «virtù» tra paradossi, superstizioni e diffamazioni. Lo fa partendo dall’eredità anglosassone, che la definisce come qualcosa da cui guardarsi bene, per arrivare a John Milton (1608-1674), il filosofo britannico che nel suo Paradiso perduto la chiama il «maggior pregio del Diavolo».
Se, come dice Erskine, il coraggio e l’audacia ci vengono spesso in soccorso nel dare voce ad azioni “buone”, è altrettanto vero che forse ci farebbe bene imparare a distinguere tra virtù e virtù. E, per esempio, a riconoscere nell’intelligenza, come capacità di discernimento, un utile alleato.

La letteratura inglese ha proposto una forte diffidenza nei confronti della mente. Erskine prende ad esempio i personaggi prodotti dalla penna di Shakespeare: quelli intelligenti erano spesso figure malvagie oppure tragiche vittime. Esseri umani come Riccardo, Iago o Edmund hanno manifestato una certa rottura con la bontà. E quelli saggi e riflessivi come Amleto ci hanno fatto capire che pensare spesso porta a complicarci l’esistenza.
Proprio per questo Shakespeare premia invece personaggi come Bassanio, il Duca Orsino o Florizel. Seri e assennati, ma sprovvisti di una particolare intelligenza. Dall’altra parte troviamo Ofelia, Giulietta, Desdemona, Ero, Cordelia, Miranda, Perdita «amabili per altre qualità rispetto all’intelletto» (ivi), e il gruppo oscuro formato da Lady Macbeth, Cleopatra e Goneril «intelligenti e perfide».

Lo scrittore inglese Charles Kingsley (1819-75), considerando la stupidità parente stretta della condotta morale e l’ingegno il primo passo verso un mondo di guai, ci ha lasciato un pensiero un po’ inquietante: «Sii buona, dolce fanciulla, e lascia esser intelligente chi vuole» (ivi). Ma ancora, nei romanzi di Fielding, Walter Scott, Thackeray e Dickens l’eroe è sempre qualcuno dal carattere buono ma goffo. Un individuo salvato dal caso o dalla provvidenza divina e solo raramente dal proprio ingegno.

Per gli antichi, tuttavia, le cose stavano diversamente. La nostra storia, per Erskine, tradirebbe una sorta di conflitto fra carattere e intelletto che per i Greci, ad esempio, sarebbe stato incomprensibile. Loro, infatti, considerano l’intelligenza tanto importante da dedicarle più termini. Dalla phronesis, l’intelligenza ma anche la saggezza, e, talvolta, la prudenza; al logos, cioè la parola, il discorso, il significato, il ragionamento, la ragione, e quindi il pensiero (che per il filosofo esistenzialista Martin Heidegger coincideva con la capacità di conservare, accogliere, ascoltare); al nous, la facoltà di comprendere, di guardare in profondità.

Per Erskine, illudersi che gli uomini siano uniti da un affetto primordiale è un clamoroso errore. Al contrario, sarebbero proprio i nostri affetti a dividerci. «Mettiamo radici nello spazio/tempo contingente e ci innamoriamo della nostra posizione, dei costumi e della lingua che ci hanno accompagnato dalla nascita» (ivi). Secondo l’autore, è invece l’intelligenza a unire l’umanità, permettendoci di entrare in empatia con il mondo che ci circonda. Quell’intelligenza a cui dovremmo guardare un po’ più spesso, non tanto per le risposte che potrebbe aiutarci a raggiungere «ma perché crediamo che sia la vita […]. La amiamo come amiamo la virtù, per se stessa, e crediamo che si tratti soltanto di un altro nome di quest’ultima» (ivi).

E se le cose stanno così forse potremmo iniziare a riconoscere all’intelligenza il valore e il primato che merita. Forse, è davvero arrivato il momento di rendere l’intelligenza un obbligo morale.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Frank Vessia via Unsplash]

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Il valore della sconfitta

Bisogna saper perdere è il titolo di un singolo dei The Rokes cantato nel lontano 1967 in un anglo-italiano che in quegli anni spopolava tra i giovani della Beat Generation. Il testo è un invito alla riconciliazione tra due amici dopo una contesa d’amore finita con l’immancabile vincitore che consola lo sconfitto: «Quante volte, lo sai si piange in amore / ma per tutti c’è sempre un giorno di sole!».
Ascoltandola nel 2018, oltre all’inevitabile sorriso che strappa l’accento di Shel Shapiro, la canzone porta con sé un importante messaggio, quel titolo dal retrogusto esortativo che può essere applicato per sua natura a più livelli interpretativi, specialmente in campo sociale.

Quanti di noi considerano una sconfitta, un passo falso, come un aspetto negativo della nostra vita? Un’esperienza da non ripetere, un rimorso che ogni tanto bussa alle porte del nostro cervello proprio mentre cerchiamo di dormire, una malattia latente che spesso uccide nuove iniziative prima ancora della loro realizzazione.
Quanti di noi sono cresciuti con il timore del giudizio altrui? Forse non riusciremmo a tenere il conto.
E quanti hanno pensato, anche solo per un momento, che nulla avrebbe avuto più senso dopo quella tremenda delusione? Con dosi e in proporzioni differenti, ci siamo passati un po’ tutti.
Quante soluzioni possiamo mettere in campo allora per tentare di risolvere questo problema comune? Purtroppo non esiste una ricetta standard valida per lenire qualsiasi tipologia di sconfitta poiché dovrebbe essere compito di ciascuno trovare la propria cura, provando, tentando, fallendo.
Eppure negli ultimi anni stiamo assistendo a un lento estinguersi dei problemi, operato sia dalla gente comune sia dalle istituzioni.

I maggiori beneficiari di questa politica anti-problema sono gli appartenenti alle nuove generazioni a cui viene offerta la più ampia gamma di strumenti per affrontare al meglio le sfide, la vita e l’istruzione in modo da prepararli ad essere i buoni cittadini di domani. Si offre loro tutto… tutto, tranne la possibilità di crescere attraverso le sconfitte.
In passato i minori appartenevano, assieme alle donne, alla parte ‘debole’ della società e, complice una diversa sensibilità umana, risultavano privi delle più elementari norme riguardanti i loro diritti fondamentali, redatti e revisionati a più riprese a partire dal 1924 fino a giungere, solamente nel 1989, con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.
Tutto ciò è sacrosanto, ci mancherebbe, tuttavia credo sia arrivato il momento di chiedersi se dal riconoscere i normali diritti dei minori non si sia passati, magari impercettibilmente, a creare per loro un mondo d’ovatta, bello e pericoloso al tempo stesso.

Come potrebbe crescere, ad esempio, un bambino a cui viene regalato tutto, magari una promozione scolastica immeritata, un premio nonostante il suo comportamento irrequieto, un atteggiamento fin troppo conciliante – targato erroneamente come comprensivo: comprendere/capire non è sinonimo di perdonare – sebbene conduca una vita all’insegna della violenza, o peggio della droga?
Ancora, si parla di sensibilizzazione contro il bullismo nelle scuole, ma come lo si combatte se aumenta il giustificazionismo verso le “ragazzate goliardiche” compiute da giovani delinquenti in erba? I paradossi e le contraddizioni sembrano regnare incontrastati.
Qualsiasi tipologia di punizione viene recepita come traumatizzante, destabilizzante, distruttiva, oltre ai genitori che tendono a colpevolizzare l’insegnante pur di non ammettere l’evidente impreparazione beffarda dei loro sacri pargoli, ci si mette anche la legislazione istituzionale della “Buona Scuola” (legge 107/15) a rendere sempre più arduo il bocciare, il respingere, il non accettare.

A prima lettura la mia sembra una sadica difesa a tutto ciò che provoca delusione e sconforto, ma scrivo da “plurideluso” e “plurisconfortato”, ho sperimentato le conseguenze di più bocciature scolastiche, di esami non superati, di progetti falliti, eppure non avrei l’ardire di definirmi un sopravvissuto.
Certo, fa male, ma sono giunto alla conclusione che fa più male essere salvaguardati troppo, perché?
Provate a pensare, alla luce di quanto detto fino ad ora, quali pieghe potrebbe prendere la vita di un ragazzo che si è visto regalare tutto nel nome della sensibilità. Nel mondo degli adulti si aspetterà di trovare altri regali, altri vagoni di sensibilità, altre istituzioni che si preoccuperanno di alleviargli la colpa, tutte cose che nella realtà non esistono, o almeno non esistono per tutti.
Sarà allora che scoprirà di aver vissuto in un pianeta illusorio e si farà ancora più male, poiché orfano di tutte quelle esperienze, negative sì, ma capaci di formare e rafforzare il carattere; quando si cade da bambini ci si rialza, da adulti diventa un problema.

Non c’è soluzione quindi?
Ci troviamo davanti ad un aut-aut? O si soffre oggi o si soffrirà domani?
La sconfitta, che piaccia o no, è un ingrediente della nostra esistenza tuttavia possiamo scegliere di totalizzarla, e precipitare quindi nello sconforto, oppure trasformarla in insegnamento, affrontandola con serenità ammettendo i propri errori per evitare di compierli nuovamente.
In questo modo si saprà perdere senza farsi troppo male.

 

Alessandro Basso

 

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Lettera ad una persona in crisi con se stessa (e 5 consigli per affrontarla)

Ti scrivo per condividere qualcosa che non trovi negli articoletti o nei meme online, né in un video su Facebook o YouTube. Perché solitamente le cose dette online sono “solo” il risultato del successo di chi le dice. Sono la parte bella, motivante, quella che ti carica e ti fa sembrare tutto facile. Le parole di chi è già arrivato in cima, e dall’alto della scalata si mette a pontificare su cosa fare quando si è a terra o a metà percorso.
Io ti scrivo perché sono ancora in cammino. Sono praticamente al tuo fianco. Rispetto a qualcuno sarò più avanti, rispetto ad altri sono più indietro.

Ti scrivo perché a un certo punto ci si sente catapultati nel mondo, quello “vero”. Non quello in cui avevamo le spalle coperte dalla famiglia, dagli amici, dalle proprie certezze intramontabili. A un certo punto invece si sente di essere soli e di doversela cavare in qualche modo. Ci si sente in ansia perché si vuol fare la scelta giusta, ma in fondo sappiamo che la scelta giusta non esiste. Quello che si viveva prima era un po’ come la caverna di Platone: guardavamo il mondo esterno soltanto dalle ombre della vita proiettate all’interno.

Ma adesso sei uscito e di certo ti sentirai accecato, spossato, insicuro. Lo sono anch’io, non sei solo. Ti tremeranno la voce e le gambe di fronte ai datori di lavoro, ai professori universitari, alle nuove persone che conoscerai. Ti sentirai impreparato su tutto e ti chiederai perché nessuno ti ha mai detto che fuori era così.

Ma rimani affamato, è la fame a farti fare la differenza, a farti fare un passo oltre questo imbarazzo. Non le storie che racconti in un curriculum, non i titoli di studio che puoi accumulare a suon di bei voti o di risultati risicati. E questo era il primo consiglio.
Se mi chiedi perché ti do dei consigli, ti rispondo che lo faccio per darli anche a me stesso. Perché sto vedendo in questi anni cosa funziona, cosa mi fa andare avanti e cosa fa ottenere risultati a quelli che sono in viaggio come noi.
E ora sotto con il secondo: raccogli tutte le esperienze della tua vita, le tue passioni, il tempo che hai passato a giocare e scherzare, a scarabocchiare sui quaderni mentre un professore spiegava o quello che hai fatto passare in un luogo di lavoro che non faceva per te. Raccogli tutti i pensieri che hai fatto, le tappe per cui sei passato, anche quelle forzate, quelle inutili, quelle fatte per cause di forza maggiore. Lì troverai la diversità rispetto agli altri. La tua storia rimane unica. Punta sulla creazione di una personalità complessa, sfaccettata, multiforme.

E quindi per farlo (terzo punto) hai bisogno di rimanere attivo su più fronti. Fa’ più cose possibili, finché ne hai il tempo, la forza. Così avrai più frecce al tuo arco tra qualche tempo, avrai più idee e contaminazioni da ambiti diversi. Se invece attingi da un solo pozzo, l’acqua si sporca, con tutti quelli che si vogliono dissetare assieme a te. Varia, continua a variare i tuoi input.

E quando dovrai raccogliere i frutti del tuo percorso, impara a raccontarlo. Quarto punto. Non basta averlo fatto, non è sufficiente averlo dentro di sé e sentirsi pienamente consapevoli. Occorre saperlo trasmettere agli altri, destare curiosità e interesse nell’interlocutore. Bisogna saper far vedere all’altro quello che abbiamo imparato e fargli capire perché siamo gli unici ad averlo fatto, ad essere diventati così.

Non sarà tutto fluido, non basterà arrivare a questi risultati per ottenere qualcosa di soddisfacente e piacevole. Nel frattempo dovrai imparare a ingoiare rospi, a subire ingiustizie, a non mostrarti mai stanco o deluso. Sfogati solo in intimità, quando l’occhio del grande fratello e di chi ti giudica non ti sta fissando. Ricarica le tue energie con gli amici e le persone di valore che non ti valutano solo per quello che mostri, ma che ti accolgono anche per la fatica e gli sbagli che stai facendo e che continuerai a fare. Circondati di un piccolo esercito di sostenitori. Era il quinto e ultimo punto.

Adesso alzati, lo so che ti sei accasciato fuori dalla caverna e ci vorresti rientrare. Invece puoi soltanto andare avanti, uscire a procacciarti il cibo che preferisci e a realizzare il tuo Valore Umano.

Alziamoci assieme, sono qui a fianco a te, d’altronde siamo entrambi in cammino.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Il suicidio e quella continua ricerca di senso

Inevitabile che mi passi tra le mani in queste ore, di fronte al susseguirsi di tanti suicidi di cui veniamo a conoscenza quasi settimanalmente, anche di amici personali, il famoso volume di Albert Camus, Il mito di Sisifo:

«Vi è un solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».

È con questo inquietante quanto affascinante problema che il filosofo francese si interroga, tanto da scrivere un ampio volume tutto incentrato sul suicidio.

Si lancia nel vuoto un’adolescente perché stanca di vivere, si uccide un padre perché senza lavoro, si impicca un figlio perché ha mentito ai suoi genitori e amici, si toglie la vita un imprenditore perché non riesce più a pagare il salario dei suoi dipendenti.

Ma allora per parlare del suicidio dobbiamo fare un passo indietro e interrogarsi prima sul senso della vita. Ci si suicida, oggi, per mille motivi, ma un unico filo sottile sembra accomunare tutte queste morti: sono i desideri ultimi e supremi di libertà e liberazione.

Libertà dai condizionamenti sociali e familiari, libertà dal dolore fisico e psicologico, libertà dall’oppressione politica e militare.

«Libertà vo cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta»1, scrive il sommo poeta a proposito del suicidio. Gli fa eco il filosofo franco-rumeno Emil Cioran in Sillogismi dell’amarezza: «Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l’idea di suicidio, mi sarei ucciso subito».

Il suicidio diventa, quindi, un inno alla libertà, la fine da ogni costrizione della vita e dalla sua drammatica finitudine. Suicida sembra oggi colui che non vuole più scendere a compromessi, che non vuole più rimanere all’interno di steccati ben definiti, che non accetta più certe regole e la “schiavitù” a cui è sottoposto, colui che non accetta più la finitezza e cerca l’infinito a tutti i costi. È il coraggio dell’impossibile, è sfidare qualcosa che altri non vogliono o hanno smesso di sfidare, è cercare quella luce in fondo al tunnel, è cercare un senso in un’altra dimensione.

«Soltanto gli ottimisti si suicidano, gli ottimisti che non possono più esserlo. Gli altri, non avendo alcuna ragione per vivere, perché dovrebbero averne una per morire?» continua freddamente Cioran.

I suicidi di oggi sono dunque quelli in cui si sperimenta l’Assurdo e si cerca di andare oltre: si fugge per sempre da quell’incoerente mancanza di valori, di ragioni, di verità, di uguaglianza, di equità. L’Assurdo nasce quando nasciamo e muore quando moriamo. E allora perché continuare a vivere nell’Assurdo? Meglio andarsene prima ritrovando senso e significato all’esistenza stessa riconciliandosi con il mondo ed eliminando così ogni impurità di cui è contaminata la terra, rifugiandosi per sempre in una dimensione asettica.

Ma è proprio qui che sta il problema: anche il suicidarsi diventa uno degli atti dell’Assurdo, quindi anche il togliersi la vita rientra in quell’assurdo vortice di non senso, è uno degli atti più materiali e pregni di non-vita che l’esistenza umana ci offre. L’uomo di oggi non deve compiangere il suo destino, non deve eliminarlo, ma deve affrontarlo, deve essere più forte di esso. Alcuni di fronte a queste morti dell’Assurdo si chiedono: “Dove sei Dio?” Io mi chiedo: “Dove sono gli uomini? Dov’è la politica?”. Noi dobbiamo diventare Dio, dobbiamo riappropriarci della nostra vita, senza illusioni ed effetti speciali, dobbiamo lottare, a volte senza illuderci. Ecco il compito delle istituzioni, della politica, della religione: aiutarci a dare senso al nostro sudore, ai nostri passi stanchi, alle nostre lacrime che non potranno non esserci, ma che dobbiamo riconoscere come costitutive del nostro essere e per questo non da eliminare, ma da superare per raggiungere anche in questa dimensione un vivere meno inquinato.

«Bisogna amarsi molto per suicidarsi», scrive ancora Camus ne I giusti. È questo che non hanno ancora capito nostri politici, i nostri genitori, i nostri superiori, i nostri insegnanti, la chiesa: noi vogliamo amarci, noi vogliamo il meglio, vogliamo cambiare e se non ci è data questa possibilità allora è meglio morire.

Solo se aiuteremo l’uomo a superare il pessimismo facendogli sperimentare una sorta di metafisica dell’entropia, allora il suicidio non sarà più visto come negazione della volontà, ma come redenzione dell’esistenza, come capacità di guardare negli occhi l’Assurdo e il Nulla e vincerli per sempre.

 

di Gianbruno Cecchin

 

Gianbruno Cecchin, 46 anni, di Galliera Veneta (PD), dove “dormo”. 
Filosofo.
Laureato in filosofia a Padova con un tesi in filosofia della religione.
Ora, invece, mi occupo di filosofia della scienza e bioetica.
Collaboro all’Interno di alcuni progetti (master, corsi di specializzazione e altri corso come ad esempio P4F) con il dipartimento FISSPA dell’Università di Padova (in particolare con il gruppo di ricerca sulla pedagogia speciale). 
Sono professare a contratto in alcune università italiane ed estere dove insegno “etica e deontologia professionale”, nonché bioetica e storia della medicina.
Ho scritto numerosi articoli in riviste di settore e come editorialista in quotidiani locali e nazionali. 
Da libero professionista svolgo docenza di materie inerenti il mondo della comunicazione all’interno di corsi finanziati dal FSE e non e collaboro con alcuni enti di formazione professionale del Veneto ed Emilia Romagna.
Ho un “blogger” tutto mio dove annoto appunti di vita: “unfilosofoelavita” su WordPress. 
Single per scelta, adoro viaggiare, leggere (soprattutto saggistica), ascoltare e andare al cinema. Amo la buona tavola, adoro i mercatini dell’antiquariato e i festival del vintage (non ne perdo uno e acquisto l’impossibile!!).
Concludo con una citazione a me cara di William Hazlitt: “Una parola delicata, uno sguardo gentile, un sorriso bonario possono plasmare meraviglie e compiere miracoli”.

 

NOTE:
1. Dante, La divina commedia, Purgatorio, I, 71

[Immagine tratta da Google Immagini]