Si può sperimentare l’eternità dell’amore oltre la morte?

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore […] perché forte come la morte è l’amore».

Cantico dei cantici 8, 6

Nel corso della nostra vita siamo posti di fronte all’invalicabile limite della morte, inteso come mistero per eccellenza. Dinanzi alla perdita di un proprio caro, di una persona amata, ci chiediamo che ne sarà di lui, di lei, ma soprattutto: che ne sarà del nostro amore per quella persona, una volta che si sarà congedata dal mondo? Che ne sarà di tutto quello che abbiamo vissuto insieme e che non potremo mai più rivivere? Sarà possibile continuare a sperimentare quell’amore cha ha caratterizzato il nostro rapporto con la persona morta?

Queste laceranti domande interpellano i filosofi sin dalle origini e tengono bordone nei duemilacinquecento anni di storia del pensiero. Un pensiero che si confronta con l’infinito desiderio d’infinito amore e si scontra con la finitudine dell’esistenza, limitata nel tempo e nello spazio. Ma è proprio l’amore la forza eterna che trascende la temporalità della nostra esistenza. È l’amore che è necessario coltivare nella nostra vita, perché solo esso lascia tracce di bellezza eterna e intramontabile nel nostro transito terrestre.

Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie; nelle profondità tutto diventa legge»1. Questo significa che l’amore può essere vissuto e sperimentato concretamente anche senza la presenza fisica dell’amato, nella propria profonda interiorità, poiché solo lì vi è l’eterna sorgente dell’amore; quell’amore che trascende anche la morte. Etty Hillesum testimonia quanto sin qui detto attraverso le parole che annota nel proprio Diario in seguito alla prematura morte dell’amato Julius Spier:

«Il mio cuore volerà sempre verso di te, da ogni luogo della terra, come un uccello e sempre ti troverà […] Sei diventato talmente parte del cielo che s’incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto. E se anche mi trovassi in una cella sotterranea, quel pezzo di cielo si stenderebbe dentro di me e il mio cuore volerebbe a lui come un uccello, ed è per questo che è tutto così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato»2.

Parole dense, profonde, consapevoli, di un’indicibile tenerezza e maturità interiore, psicologica e spirituale. Sì, perché solo un profondo percorso interiore può condurci ad esprimere con questa lucida e delicata dolcezza l’amore che trascende l’assenza della persona amata.

Un simile approdo si riscontra anche nelle parole e nell’esperienza di Viktor Frankl. Lo psichiatra viennese, nell’inferno del lager nazista, evoca l’immagine della moglie ventiquattrenne, anch’ella internata in un differente campo di sterminio e della quale ignora la sorte. Di fronte al limite invalicabile dell’assenza, della morte, si fa urgente una tendenza all’interiorizzazione. Il pensiero di Frankl va all’amore per la creatura amata, a prescindere dalla presenza fisica della stessa e dal sapere se sia o meno nel novero dei viventi. Scrive Frankl:

«Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. […] Parlo con  mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e […] per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. […] l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato»3.

L’amore non solo eccede la morte, ma eternizza la vita. Nell’interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l’amore per le creature, sperimentando l’eternità indissolubile di questo legame. L’amore per una persona cara è la bellezza senza fine di un fiore i cui petali mai avvizziscono, perché eternamente coltivati, riparati e protetti nella propria intima interiorità, all’interno della quale tutto viene conservato assumendo i contorni ontologici dell’essere eterno.

Pervenire a una simile, profonda consapevolezza, richiede un quotidiano e paziente esercizio interiore, che non può mai dirsi completo e raggiunto. Proprio per questo, di fronte all’enigma della morte, noi tutti ci troviamo al confine fra l’abisso del nulla, il nichilismo e l’eternità dell’essere che si fonda nell’amore che non ha mai fine. La nostra fragile umanità, al cospetto della fine, vive uno spaesamento tragico, perché non è né semplice né scontato riconoscere l’eternità dell’amore. Negli ultimi istanti della vita di una persona, particolarmente se cara, la vulnerabilità della nostra esistenza emerge nella sua angosciante pesantezza. Ma l’uomo che riflette sulla propria precaria condizione vive con umiltà e riconosce nella propria interiorità la traccia eterna dell’amore. La forza della fragilità che è principio e fondamento di ogni autentica relazione. Poiché, come scrive Rilke, l’amore è «qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa»4, l’uomo può imparare ad abitare la lacerante contraddizione della propria esistenza, segnata dalla morte, senza rimanere soffocato, aprendosi all’intramontabile orizzonte della bellezza interiore, nella quale l’amore ha la sua fragile ma eterna dimora.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, tr. it di L. Traverso, Milano, Adelphi, 201321,  p. 33.
2. E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, pp. 751-752.
3. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 74.
4. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, op. cit., p. 49.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Viktor E. Frankl: i pieni granai del passato

<p>UNSPECIFIED - CIRCA 1994:  Portrait of austrian psychologist Viktor Frankl, Photograph, 1994  (Photo by Imagno/Getty Images)  [Portr?t Viktor Frankl, Photographie, 1994]</p>

In alcuni momenti della vita, a molti di noi capita di fermarsi un istante, voltarsi indietro e osservare il film della propria esistenza sin lì vissuta. Una pellicola che scorre a velocità sostenuta davanti ai propri occhi. Ricordi, emozioni, fatiche, sofferenze, gioie e dolori. Le più diverse situazioni ed esperienze, declinate secondo l’unico ed irripetibile cammino di ognuno. D’improvviso però, lo sguardo si fa triste. La malinconia inizia a prendere il sopravvento sulle altre emozioni e ci inonda come un fiume straripante di sconforto. Tale sentimento non è dettato solamente dal sovvenir alla mente di scene e ricordi negativi, sofferenze o dolori. No. Il più delle volte è dovuto alla percezione nostalgica che quanto abbiamo vissuto se ne sia concretamente andato, sia svanito nel nulla, in una dimensione non più raggiungibile se non attraverso qualche sbiadito e non più certo ricordo. Questo vale anche e soprattutto per quanto abbiamo gioito e quanto di positivo abbiamo vissuto.

Lo psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl, fondatore della Logoterapia e Analisi Esistenziale, sopravvissuto a quattro diversi campi di sterminio nazisti, può aiutarci a rovesciare positivamente questa nostra, umana, tendenza al negativo. Differentemente dall’atteggiamento nichilistico, egli sostiene che se il futuro non esiste perché non ancora accaduto, il passato è ciò che davvero esiste, la vera realtà. Pertanto, ciò che è passato rimane fisso e immutabile. Non è possibile trasformarlo o modificarlo. Se, per la logoterapia l’uomo è un essere proiettato verso il futuro, è altrettanto vero che egli non può nulla rispetto al proprio passato. Ciò che è stato è fissato per l’eternità. Quanto è avvenuto non è stato tolto di mezzo, ma si è consolidato nel passato e in esso conservato. Per questo egli afferma che: “esser stati è la ‘più sicura’ forma dell’essere […] ciò che si serba nella transitorietà è quanto è conservato nel passato, la realtà che ha trovato salvezza nel suo essere-passata”[1]. Ecco che, ogni possibilità usufruita, ogni esperienza, ogni valore realizzato nella propria vita, escono dalla cerchia della transitorietà e divengono eternità. Frankl sostiene che ciò che viene serbato nel passato resta tale, indipendentemente dalla memoria dei singoli, perché il passato diviene parte dell’essere. Entra a far parte di una dimensione ontologica.

Nei campi di sterminio, com’è intuibile, la sensazione di essere stati cancellati come persone, di aver perso la propria dignità e il proprio passato erano pensieri quotidiani. A questo si aggiungeva la paura, fonte di angoscia e depressione, di aver vissuto invano la vita precedente all’internamento. Frankl racconta di come ha tentato di rassicurare, in merito, i propri compagni di baracca aiutandoli a capovolgere positivamente la propria prospettiva. Scrive:

parlai anche del passato, di tutte le sue gioie e della luce che esso emanava, pur nell’oscurità dei nostri giorni. Citai di nuovo […] il poeta che dice: ‘Quanto hai vissuto, nessuna potenza al mondo può togliertelo’. Ciò che abbiamo realizzato nella pienezza della nostra vita passata, nella sua ricchezza d’esperienza, questa ricchezza interiore, nessuno può sottrarcela. Ma non solo ciò che abbiamo vissuto, anche ciò che abbiamo fatto, ciò che di grande abbiamo pensato e ciò che abbiamo sofferto… Tutto ciò l’abbiamo salvato rendendolo reale, una volta per sempre. E se pure si tratta di un passato, è assicurato per l’eternità![2]

Quanto abbiamo fatto, pensato, amato e sofferto rimane lì, piantato per l’eternità. L’uomo attraverso il proprio passato si unisce con l’eternità dell’essere, o per meglio dire diviene eterno. A chi vive con questa saggezza e con questa consapevolezza esistenziale, ricca del proprio passato, “si può veramente applicare ciò che è così ben espresso nel libro di Giobbe: ‘Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come si ammucchia il grano a suo tempo’”[3].

Il pensiero di Frankl può essere un’intensa luce alternativa alla nostra, spesso tragica, visione della transitorietà dell’esistenza. Perché, come scrive Rilke in un verso della Nona Elegia duinese: “questo essere stati una volta, anche se una volta soltanto: essere stati terreni, sembra non revocabile”[4].

Alessandro Tonon

NOTE

[1] V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana, 19753, p. 123.
[2] V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113.
[3] V. E. FRANKL, La sfida del significato, a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Trento, Erickson, 20053, p. 184.
[4] R. M. RILKE, Elegie Duinesi, tr. it di R. Caruzzi, Trieste, Beit, 2013, p. 89.