Elogio dell’eclettismo

L’eclettismo è definito in campo filosofico e artistico come l’accostamento di più tradizioni autonome, la cui riuscita risulta non contraddittoria e felice. Esso è l’arte di fare arte attraverso la tradizione (o di pensare attraverso grandi pensatori). Nessuno può in buona fede dire di non avere precedenti o “padri” a cui ispirarsi, chi lo facesse mentirebbe agli altri e/o a sé. Più spesso ce ne si dimentica per eccesso di amor proprio. All’interno di quest’ottica l’eclettico sceglie come proprio percorso per conquistare l’originalità, paradossalmente mai originaria e sempre mediata, non l’appiattirsi o approssimarsi quanto più ad un maestro,ad una dottrina, ma l’innesto di più elementi in uno che è unicum. L’eclettico naturalmente si oppone all’ortodosso e agli -ismi, non già perché gli manchi un legame intimo con la tradizione, ma perché la mancanza di fedeltà ad una scuola, la necessità di costruirsi il proprio percorso peculiare, sono motivati dalla tormentosa insoddisfazione che lo sprona. La riuscita di questa operazione avviene quando diventa impossibile dall’esterno distinguere i diversi stili assimilati ed essi si fondono in qualcosa di diverso dai presupposti che l’hanno guidata.

Due figure paradigmatiche di questo approccio sono Salvator Rosa e Giambattista Vico, poeta e pittore l’uno, poeta e filosofo l’altro, entrambi napoletani, entrambi vissuti nell’alveo controriformistico, cioè in un tempo, per certi versi, come il nostro, esausto. Nonostante la loro biografia sia quanto di più antitetico si possa pensare, il primo poeta a tratti romanticheggiante, solidale alle esperienze di rivolta civile a lui contemporanee e precursore del nichilismo, il secondo tranquillo e ligio all’ordine costituito, verso chiesa e stato; eppure, come si diceva, condividono questo modus operandi tipicamente barocco (essendo il barocco la più riuscita forma di eclettismo) della stratificazione di stili, la commistione dei generi, la difficoltà di essere a casa in un’etichetta che non porti scritto “non catalogabile”. Questi temperamenti barocchi portano all’estremo l’amore umanistico per la completezza: dall’universalismo all’eccesso. Indubbiamente essi non ricadono nella categoria degli storpi a rovescio: grandi orecchie o grandi nasi, brandelli di uomini che hanno poco di tutto e troppo di una cosa sola, prospettata da Nietzsche. Un fine studioso americano ha parlato del magnete di Vico, in opposizione al rasoio di Ockham, come un processo di sovrapposizione di elementi eruditi e lampi di genialità, di diverse concezioni e spunti armonizzati fino a perdere le tracce dell’uno nell’altro, fino a rendere impossibile una stratigrafia. Non è un caso che un grande scrittore barocco della contemporaneità, J. Joyce, avesse molti debiti dichiarati verso Vico, tanto da affermare: “quando leggo Vico la mia immaginazione si accresce in misura superiore a quando leggo Freud o Jung” e da fondare la struttura narrativa di Finnegans Wake su La Scienza Nuova. Rosa che si definiva anche filosofo è in realtà meno erudito, meno intellettuale e più artista, più apertamente sofferto e maledetto. Scrive:

“[…]Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona
la foja della guerra, e della stampa,
la pania della Corte e d’Elicona!
Sfortunato colui, che l’orme stampa
ne’ lidi di Libetro avidi e scarsi,
che vi sta mal per sempre, o non vi campa.
Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena.
Che il poeta è il primiero a declinarsi.”

Così, queste figure scelte tra molte possibili, mostrano che quando la ruota della storia, dell’arte e del pensiero sembrano incepparsi, quando come genere umano si è stanchi e insofferenti, ci si può avvolgere nel passato, nella memoria, così a fondo da ritrovare le sorgenti dello spirito e una rimediata originalità.

Francesco Fanti Rovetta

1 D. Ph. Verene, Vico. La scienza della fantasia.
2 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Della redenzione.
3 S. Rosa, Satire, Liriche, Lettere.

Siamo tutti universalisti, con noi stessi

Uno dei fenomeni sociali più importanti, se non il più importante, con cui ci confrontiamo oggi e che le prossime generazioni studieranno sui libri di storia, è quello delle migrazioni di massa. È un tema estremamente complesso da affrontare e sul quale esiste una nutrita bibliografia internazionale; a tal proposito si potrebbe iniziare ad approcciarlo tramite il libro di J. Carens, Ethics of Immigration, 2013, già un classico in materia, o quello di E. Greblo, Etica dell’immigrazione, 2015, densa introduzione al dibattito internazionale.

Non è mia intenzione in questa sede riassumere i termini del tema e del dibattito intorno ad esso, per farlo anche solo maniera sintetica occorrerebbe molto spazio. Vorrei invece proporre qui delle considerazioni che si possono intendere come preliminari, un modo per rimuovere dal tema stesso possibili fraintendimenti che lo falserebbero in partenza, e che si sentono con una certa frequenza nei discorsi politici. La convinzione di chi scrive è che solo nelle interazioni, negli “inquinamenti” interculturali vi sia un potenziale arricchimento e progresso umano (insomma, così come la saggezza popolare sa, ci sarà pure un motivo se i cani meticci sono sempre più svegli di quelli di “razza pura”). Certamente queste interazioni culturali necessitano di una supervisione, che non sia però finalizzata a limitarle ma a permetterle in maniera ragionevole. Passiamo allora in rassegna, in maniera sintetica e schematizzandoli in 4 tipologie, i più popolari motivi immotivati della paura del meticciato e dell’apertura alla diversità, in base ai quali si predicano e attuano politiche di chiusura, più o meno netta, dei confini statali.

I. Ci si deve chiudere per questioni di sicurezza interna.
I, a. Innanzi tutto, generalizzare criminalizzando gruppi a priori anziché individuare singoli responsabili a posteriori è un po’ come dire che poiché in Italia (o in qualsiasi altro Paese) ci sono criminali allora tutti gli italiani sono preventivamente criminali potenziali, e sta a loro l’onere della prova di dimostrare il contrario. Inoltre, il modo migliore per superare criminalità e terrorismo, non è con stereotipi razzisti di criminalizzazioni di gruppi e con bunkerizzazioni, ma attraverso l’integrazione che, sia chiaro, non è quella cosa che dice “ti accolgo ma fai quello che dico io”, quello è dominio, ma è una guida consapevole dell’ineludibile cambiamento reciproco, di tutto e tutti, ossia del divenire. In altre parole, lo scontro di civiltà esiste solo se e quando qualcuno pensa che esista.

II. Va difesa l’economia e il welfare locale.
II, a. A parte il fatto che una simile affermazione può essere pronunciata solo da uno Stato, o una comunità, che abbia già fatto tutto quanto è in suo potere fare per alleviare le sofferenze dei bisognosi, nativi o meno che siano, fino al limite del collasso del proprio welfare, altrimenti non sarebbe (come di fatto spesso non è) un’affermazione credibile, ci sono almeno due considerazioni da fare su questo punto. Primo, si può benissimo immaginare un sistema di accesso progressivo al welfare, proporzionale al contributo dato dall’individuo. Secondo, e soprattutto, se il welfare è uno strumento di giustizia sociale, per chi è allora la giustizia se non per i più deboli, i più poveri, i più disperati? Se il welfare si riduce ad un servizio in cambio di un contributo non è una faccenda di giustizia ma un bene di commercio e/o un privilegio.

III. Vanno tutelati in primis i propri connazionali.
III, a. A parte l’immediato problema pratico che si pone, ossia come fare con i connazionali all’estero, sottoposti ad un’altra sovranità, il punto cruciale è qui il seguente.

Viviamo in un’epoca che ha codificato i cosiddetti diritti umani, la cui esistenza è ormai accettata da tutti, intendendoli come universali. Eppure, quando si deve passare dalle formule alle azioni, l’accesso a questi diritti (per inciso, formalizzare un diritto senza garantirne l’accesso significa di fatto negarlo) è riservato agli appartenenti a specifici club (tribù?) e quello che oggi va populisticamente per la maggiore è quello dei connazionali; i diritti umani sono così (ancora) legati alla cittadinanza, il possesso di un passaporto “che conta” è quindi un privilegio, e quella sedicente universalità si trasforma in particolarismo. Si svela così anche lo scomodo sottointeso dell’origine, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, infatti, così come scritto da L. Ferrajoli, quando «i rivoluzionari dell’89 parlavano di hommes pensavano evidentemente ai citoyens francesi e declamavano i diritti fondamentali come droits de l’homme anziché come droits du citoyen per conferire a essi, a parole, una più solenne universalità»; lo stesso autore nello stesso libro (Dai diritti del cittadino ai diritti della persona) afferma come questo imbarazzante non detto che persiste a tutt’oggi possa essere superato solo trasformando «in diritti della persona i due soli diritti di libertà oggi riservati ai cittadini: il diritto di residenza e il diritto di circolazione nei nostri privilegiati paesi». Insomma, predicare l’universalità dei diritti rendendoli però disponibili solo per alcuni, è ipocrisia e frode.
E allora, delle due l’una. O si dichiara esplicitamente che l’autodeterminazione (della quale i diritti umani dovrebbero essere la chiave) non è cosa per tutti ma solo per alcuni, e quindi si rifiuta l’universalismo dei diritti umani e dell’egalitarismo e il cosmopolitismo, e conseguentemente si dice a chi, e perché, l’autodeterminazione va concessa e a chi, e perché, no. Oppure, si ammette una possibile limitazione all’universalismo dei diritti umani solo come ultima ratio, ma intendendo sempre tale limitazione come un fallimento per tutti che deve quindi essere superato il più velocemente e il più radicalmente possibile. Il che non significa che un soggetto (ad es. un individuo o uno Stato) debba necessariamente andare a portare i diritti umani in giro per il mondo (quante strumentalizzazioni abbiamo già visto in tal senso), ma che debba operare per garantirli a chi viene a bussare alla sua porta. E in un’ottica universalistica solo un soggetto globale può assolvere questo compito. Esempi di soggetti del genere già esistono, dalla UE all’ONU, e il fatto che siano ampiamente perfettibili non significa che debbano essere abbandonati ma, appunto, perfezionati.

IV. Va difesa la propria identità, specificità culturale.
IV, a. A codificare in cosa consista tale identità culturale è sempre un potere, pertanto difendere quell’identità significa in realtà difendere il potere che la pone; si badi inoltre che il potere può difendere se stesso non solo vietando l’ingresso sul suo territorio a chi identifica come minaccia, ma anche espellendo le minacce dal suo territorio. Quindi, indipendentemente dalla provenienza, solo chi farà parte di un certo discorso culturale istituito da un certo potere sarà accettato.
Si potrebbe qui forse ammettere che gli Stati che più si adoperano per garantire condizioni di vita dignitose ovunque nel mondo siano quelli più legittimati a potersi chiudere. E tuttavia, da una parte, anche quando cose del genere avvengono, si riducono a mere operazioni di facciata che non cambiano l’andamento delle cose, dall’altra, e soprattutto, anche qualora tutto questo avvenisse in maniera seria, non spiegherebbe né perché il diritto di avere una vita dignitosa da parte di chi nasce nel Paese X dovrebbe essere superiore a quello di cercare una vita migliore per chi nasce nel Paese Y, né perché, anche a parità di condizioni di vita tra i Paesi X e Y, a qualcuno dovrebbe essere impedito di andare a respirare l’aria che più gli piace. In questi termini, l’unico modo per decidere su ciò diventa la violenza, quella della spada così come quella della Legge.

Ma c’è soprattutto una ragione, filosofica, per cui la difesa dell’identità culturale ha lo stesso spessore intellettuale di una barzelletta: il divenire. I paladini dell’identità culturale pensano di vivere in una dimensione culturale uguale a quella del passato o del futuro? O ritengono di vivere alla fine della storia? Vivendo (e addirittura anche morendo) non si può non divenire. Quando A incontra B, il che avviene ad ogni istante su diverse scale, non ne deriva una loro mera somma aritmetica o il primato dell’uno sull’altro, ne deriva C. Il punto non è quindi arrestare il divenire, pretesa teoreticamente assurda e, per fortuna, praticamente irrealizzabile, ma guidarlo in forme che ci sembrino ragionevoli, altrimenti se ne viene semplicemente travolti, senza neanche capire da cosa.

Federico Sollazzo

[Immagine realizzata dall’autore]