Piero Chiara, “Il cappotto di astrakan”

Scrittore tra i più cordiali e affabili del Novecento, Piero Chiara (1913-1986) ebbe coi suoi romanzi e racconti un meritato successo specie tra gli anni Sessanta e i Settanta. Il cappotto di astrakan, del 1978, rappresenta molto bene il suo mondo narrativo e le sue qualità di piacevole intrattenitore e insieme raffinato disegnatore di stati d’animo e sentimenti.

il-cappotto-di-astrakan-copertina_La-chiave-di-SophiaSiamo nel 1950 a Luino, il piccolo centro sul Lago Maggiore dove l’autore ambienta quasi tutti i suoi romanzi. Il protagonista, che racconta la storia in prima persona, decide di lasciare per qualche tempo la provincia e recarsi a Parigi. Con questo viaggio cerca nuove esperienze con cui farsi bello al ritorno: un soggiorno parigino «poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate».

A Parigi, il protagonista conosce due donne. La prima è la signora Lenormand, che gli affitta una bella camera, piena di libri e occupata in pianta stabile dal gatto Domitien (un piccolo protagonista del romanzo). La signora, vedova di guerra, ha notato la somiglianza del protagonista col figlio Maurice e gliene parla molto: fidanzato con una brava ragazza, si è poi innamorato di un’altra donna che ha seguito in Indocina. Maurice ha lasciato nella camera un grosso quaderno pieno di stravaganti appunti, «tentativi di poesie, pensieri vari, spesso datati, brani d’autori celebri, minute di lettere d’amore, formule algebriche, trame di racconti e di romanzi».

L’altra donna è Valentine, che il protagonista intravede per la prima volta, nuda e intenta a fare degli esercizi, dietro le tapparelle mezzo abbassate dell’appartamento di lei. Riesce a conoscerla e i due si frequentano, trascorrendo le domeniche in tranquille passeggiate nei dintorni della città. Il protagonista è incerto su come comportarsi con Valentine, che non sembra interessata a un’avventura da poco.

In realtà entrambe le donne scorgono nel protagonista il riflesso di un’altra persona. Lo scopriamo quando la signora Lenormand gli lascia usare un bel cappotto in pelliccia di astrakan appartenuto a Maurice. Valentine, vedendolo con questo indumento, appare stupita, e finisce poco per volta col rivelargli il motivo: Maurice era il suo fidanzato. E non è affatto in Indocina: si trova in prigione dopo aver compiuto rapine e furti d’opere d’arte.

E una sera, all’improvviso, Maurice torna: fa irruzione nella sua camera, ora occupata dal protagonista, prende una gran somma di denaro che teneva nascosta nell’imbottitura di una poltrona, e scappa. Il nostro protagonista decide irrazionalmente di fuggire, subito, e torna in Italia. Dai giornali viene a sapere che Maurice è stato arrestato: dopo essersi recato a prendere Valentine a casa, ha cercato di raggiungere il sud ma è stato denunciato da un camionista.

Il protagonista è ripreso dalla vita di provincia, e i suoi racconti delle esperienze parigine hanno molto successo tra gli amici. Non vuole più tornare a Parigi, ma è Valentine che lo raggiunge: è disposta a vivere con lui sul lago, rinunciando a una buona proposta di lavoro. Ma il protagonista è combattuto: se era riuscito a accettare l’antica storia di lei con Maurice, la gelosia per questo breve periodo che gli ex fidanzati hanno trascorso insieme dopo l’evasione gli è troppo penosa. Dopo un ultimo pomeriggio insieme in una camera d’albergo, lui la accompagna al treno; poi le scrive una lunga lettera, su cui il romanzo si chiude.

Il protagonista del romanzo è tutt’altro che una figura eroica: privo di grandi qualità come di gravi difetti, sembra fatto per la routine della provincia, e anche quando si reca a Parigi sembra che la viva come una provincia più eccitante, che offre occasioni insperate come una donna che si spoglia al di là delle tapparelle di una finestra. Ma le due donne, attraverso di lui, scorgono Maurice: che prima ci incuriosisce attraverso i suoi quaderni e i racconti che ne fa la madre, ma alla fine si rivela anche lui un uomo dappoco, un banale rapinatore e carcerato evaso.

In questo calcolato gioco di specchi il racconto sembra costruirsi davanti ai nostri occhi: sono i non detti fra i personaggi a nascondere e poi svelare la trama. E l’autore governa questo gioco in maniera sapiente e un linguaggio di estrema eleganza: un parlato disinvolto e calcolato, come quando vogliamo raccontare una storia e, per fare bella figura, la ripetiamo più volte a noi stessi per sentirne l’effetto. Il romanzo, nella sua vena umoristica e insieme malinconica, suggerisce sempre la presenza di un ascoltatore: i compaesani del protagonista, che si fanno incantare dalle sue storie. E, con loro, anche noi lettori.

Giuliano Galletti

Piero Chiara, Il cappotto di astrakan, Milano, Mondadori, 1999.

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“Non buttiamoci giù”, di Nick Hornby

Se posso spiegare perché volevo buttarmi dal tetto di un palazzo? Certo che posso spiegare perché volevo buttarmi dal tetto di un palazzo. Cavolo, non sono mica deficiente. Posso spiegarlo perché non è un fatto inspiegabile: è stata una scelta logica, la conseguenza di un pensiero fatto e finito. E neanche di un pensiero troppo serio.

Cosa ci fanno quattro persone di età, estrazione sociale, stile di vita completamente differenti, sul tetto di un palazzo di Londra nella notte di Capodanno? Non si conoscono, non sanno niente l’uno dell’altro, eppure sono uniti da un intento comune: buttarsi di sotto. Ma quella notte i loro piani verranno stravolti e, inaspettatamente, proprio a partire da quel momento si cementerà una stramba alleanza.

Partendo da questo incipit originale, Hornby ci conduce alla scoperta delle storie personali dei quattro curiosi personaggi e delle circostanze che li hanno condotti fin lassù.
I nostri protagonisti non potrebbero essere più diversi: Martin, noto conduttore televisivo, ha perso il lavoro e la stima della sua famiglia dopo l’avventura di una sera con una ragazza che credeva maggiorenne; Maureen, timorosa e devota, ha un figlio disabile da mantenere e sostenere; Jesse, trasgressiva figlia di un politico rispettabile, vede nel suicidio un estremo gesto di ribellione; infine JJ, giovane musicista disilluso, che racconta di essere affetto da una grave malattia.

Ti ripetono tutta la vita che dopo la morte andrai in un posto meraviglioso. E l’unico gesto che puoi fare per arrivarci un po’ prima ti impedisce di andarci… Oh, capisco che è un po’ come non voler fare la coda. Ma se qualcuno salta la coda in posta, gli altri, gli altri borbottano. A volte protestano: “Scusi, sa, c’ero prima io!”. Non dicono: “Brucerai tra le fiamme dell’inferno per l’eternità”. Sarebbe un pochino esagerato!

Non buttiamoci giù, libro da quale nel 2014 è stato tratto un adattamento cinematografico, è un romanzo esilarante che tratta tematiche attuali e complesse con un umorismo tagliante che lascia spazio anche ai sentimenti.
La sua forza risiede sicuramente nei personaggi, ben delineati e caratterizzati anche dal modo di esprimersi che l’autore rende servendosi di un linguaggio cucito addosso a ciascuno, colloquiale, in alcuni casi volutamente ‘sgrammaticato’.
Nonostante la tematica centrale rimanga quella del suicidio, Hornby riesce ad evitare i toni cupi e a mantenere la narrazione vivace, servendosi anche di una certa dose di humor inglese.
Ho apprezzato molto il messaggio di fondo del romanzo, l’idea che delle singole, disperate, solitudini possano unirsi dando vita a qualcosa di diverso. Una rete di sostegno improvvisata, raffazzonata, rappezzata, e che pure sembra funzionale allo scopo. Perché a volte nella vita ciò che più conta è riuscire a cambiare punto di vista, ad accorgersi che non si è i soli a soffrire, a prendere coscienza di quante situazioni simili alla nostra ci siano. Ostacoli apparentemente insormontabili che affrontati attraverso la reciprocità, sviscerati, confrontati e perfino derisi, possono improvvisamente ridimensionarsi, guidando il nostro sguardo verso una nuova prospettiva.
Un libro che mi sento assolutamente di consigliare: vitale, divertente, commovente e ricco di spunti di riflessione.
Perché è più facile buttarsi nel vuoto che accettare le conseguenze di quello che hai fatto?

Stefania Mangiardi

[Immagini tratte da Google Immagini]

“Solo per pazzi” -essere uomo, essere lupo

Fosse profonda saggezza o schietta ingenuità, chi sapeva vivere così nell’attimo fuggevole, chi abbracciava così il presente e sapeva apprezzare ogni piccolo fiore sul margine della via, ogni piccolo valore dell’istante che fugge, doveva certo dominare la vita.

Leggere un libro talvolta aiuta a vedere le cose della vita da un’altra prospettiva e permette di entrare in contatto con se stessi attraverso la riflessione che le parole, via via susseguendosi, scatenano.

Alcuni libri possono cambiare la vita perché scavano nel profondo Io, arrivando a toccare la coscienza, risvegliando antichi sentimenti, sensazioni sopite, nascoste, dimenticate, dando voce alle immagini della nostra fantasia.

Il lupo della steppa di Hermann Hesse è uno di quei testi che entrano dentro, scivolano nell’anima e diventano un tutt’uno con essa.

Soltanto per pazzi’, ci dice Hesse prima che iniziamo a leggere il suo libro. Una dedica insolita che mi ha subito fatto pensare che lo scrittore avesse scelto il suo pubblico, sapendo già che solo dei “pazzi” avrebbero potuto calarsi nei panni del protagonista Harry.

Ma come non immedesimarsi in questo personaggio così attuale?

Un uomo bloccato e condizionato da un senso di impotenza che non gli permette di essere felice, caratterizzato da un profondo dissidio interiore tra la razionalità umana (ordine, cultura, spirito) e l’istintività del lupo (caos, passione).

Un contrasto che porta all’isolamento totale perché si vede l’impossibilità di riconoscersi nella società e di essere riconosciuti dalla stessa, in quanto essa limiterebbe la libertà di spirito dell’uomo e del suo essere una molteplicità di Io diversi.

Da quando lo scrittore “ci dà in mano” il manoscritto del protagonista “Memorie di Harry Haller” e il personaggio inizia a parlarci in prima persona di come un giorno qualunque, avesse sentito il

desiderio selvaggio di sentimenti forti,

per uscire dalla solita routine, non possiamo fare a meno di entrare in piena empatia con lui.

Il lettore, infatti, da questo momento inizia il viaggio attraverso la sua coscienza, alla ricerca del lupo che interiormente gli appartiene, cercando di capire chi esso sia.

Nel lupo della steppa avveniva questo: che nel suo sentimento faceva ora la vita del lupo, ora quella dell’uomo, come accade negli esseri misti, ma quando era lupo, l’uomo in lui stava a guardare, sempre in agguato per giudicare e condannare… e quando era uomo il lupo faceva altrettanto […] Specialmente molti artisti appartengono a questa categoria. Costoro hanno in sé due anime, due nature, hanno un lato divino e uno diabolico, e le loro capacità di godere e di soffrire sono così intrecciate, ostili e confuse tra loro come in Harry il lupo e l’uomo.

Un contrasto che vive anche l’uomo moderno, tra la rigidità delle condizioni imposte o scelte attraverso un gioco di morali condizionanti, e la necessità di essere animale, di vivere l’istinto, di seguire l’odore, la sensazione…l’indipendenza.

Eppure, è un circolo vizioso: quando il lupo raggiunge questa autonomia (o libertà), si rende conto che essa stessa è per lui una condanna, in quanto innaturale e questo lo porta all’isolamento perché nessuno, se non un pazzo, ha la capacità di condividere la sua vita siffatta.

Trovare un compromesso tra le due parti? Certo, sarebbe la soluzione per vivere nella coerenza con se stessi e con gli altri, ma l’uomo non può farlo perché è un essere in continuo divenire

è un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito, tra l’uomo e il lupo

L’uomo si trova, dunque, condannato a vivere nella società, immerso negli stereotipi del perbenismo che spesso sfociano nel qualunquismo, cercando la via di mezzo tra gli opposti che lo contraddistinguono.

Eppure nella vita arriva sempre il momento in cui ci si ritrova a fare i conti con se stessi e ad uscire, volenti o nolenti, dagli schemi, a liberare il lupo che è ingabbiato dentro di noi, come per il protagonista Harry che da un momento all’altro, grazie all’incontro fortuito con Hermine, si ritrova a vivere di istinto, di sensazione, di emozioni semplici ma forti: mangia, beve, balla, ride come non faceva da moltissimo tempo e solo grazie a lei.

Hermine è una donna non colta ma molto astuta che vive di passione e istinto ed è in grado di capire Harry dal primo sguardo e di scorgerne i suoi desideri più nascosti.

Questa Hermine l’ho avvertita come un grandissimo occhio che mi ha osservato mentre la leggevo, mentre cercavo di catturarla con l’immaginazione senza però riuscirci; è un personaggio che ci fa vedere, nelle lacerazioni di Harry, i nostri conflitti interiori che, anche se non lo vogliamo ammettere, ci appartengono.

Nonostante questa scoperta, o meglio, il riconoscere il nostro oscuro dualismo, riusciamo alla fine a trovare la via della salvezza proprio seguendo passo passo tutte le contorsioni positive e negative della vita di Harry: egli stesso comincia a capire che la soluzione risiede solo nella forza dell’umorismo, nel prendere la vita per quello che è, un gioco.

Lei deve imparare a ridere, questo è richiesto. Deve comprendere l’umorismo della vita, l’allegria degli impiccati. Deve imparare ad ascoltare questa maledetta musica della radio della vita e ridere di questo strimpellio.

E proprio alla fine di questo viaggio, il lettore, insieme ad Harry, si ritrova pronto per la vita, per affrontarla al meglio perché conosce ormai le regole del gioco e le sue contraddizioni; infatti, dopo l’excursus nel magico teatro solo per pazzi, Harry si rende conto che solo l’umorismo è la chiave di svolta per soprassedere la rigidità delle convenzioni e delle regole, perché

Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge standone al di sopra, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non ci fosse rinuncia: tutte queste esigenze si possono realizzare unicamente con l’umorismo.

Essendoci questa via d’uscita positiva dal mondo della ‘steppa’, Hesse ci tiene a precisare che il libro non tratta la storia di un uomo disperato, ma della guarigione dalla disperazione di un uomo che ha saputo credere nel potere della casualità e si è fatto trasportare dalla passione, riuscendo a capire in extremis che la felicità non può essere data dal rinnegare il proprio dualismo ma dall’assecondarlo.

L’insegnamento forte da trarre da questo capolavoro è che di fronte alla complessità della vita, nelle sue infinite contraddizioni, tra gioie e disgrazie, non bisogna mai prendersi troppo sul serio, perché l’uomo stesso è contraddittorio, caratterizzato da infiniti Io, infinite personalità diverse ed opposte tra loro e solo se si è consapevoli di questa condizione si riuscirà a vivere serenamente.

A colui che abbia visto la scissione del proprio io facciamo vedere che può ricomporre i pezzi in qualunque momento e nell’ordine che più gli aggrada, raggiungendo in tal modo una varietà infinita nel gioco della vita. Come il poeta con un pugno di personaggi crea un dramma così noi con le figure del nostro io sezionato costruiamo gruppi sempre nuovi con nuovi giochi, nuove tensioni, nuove situazioni. (…) La figura che oggi diventa insopportabile, domani sarà secondaria e innocua. La cara figurina che per un po’ le è parsa condannata alla disdetta, nel gioco successivo la farà principessa. Buon divertimento!

Valeria Genova

[citazioni dal testo Il lupo della steppa di Hermann Hesse]