Dottore, mi fa male il mondo

Ci sono molte lezioni che potremmo trarre dalla attuale pandemia di Covid-19, un nuovo tipo di Coronavirus che è diventato in breve tempo il microrganismo più famoso del pianeta. Si potrebbe riflettere sul reale annullamento delle distanze, in un mondo in cui la Cina è effettivamente dietro l’angolo e in cui le frontiere tra Stato e Stato tornano ad essere finalmente quel che sono realmente, linee immaginarie che con dogane e posti di blocco non fermano certo la natura. Potremmo riscoprire una comune umanità nella paura della morte che ci rende tutti simili, che si sia impegnati a razziare un supermercato in cerca dell’ultima bottiglia di disinfettante per mani o su un gommone in procinto di attraversare il Mediterraneo. C’è un altro aspetto, però, più sottile ma più intrigante, da poter considerare.

In uno dei suoi aforismi contenuti nella raccolta Scorciatoie e raccontini, Umberto Saba interpreta genialmente i vari mal du siecle come strettamente dipendenti dalle patologie sociali con cui convivono, a tal punto che un male diventa il riflesso dell’altro, la malattia medico-biologica dipende da quella socio-politica e viceversa.

Nell’Ottocento, ad esempio, in epoca di trionfo del Romanticismo, immersa in quelli che Saba chiama «sdilinquimenti sentimentali», non poteva che palesarsi una malattia che letteralmente toglie il fiato, come un sospiro d’amore folle, e che con una vittimologia precisa quanto crudele avrebbe dato vita a immortali storie di amore tragico: la tubercolosi. Il Novecento, viceversa, è stato il teatro dei grandi totalitarismi, di ideologie che, nate come folli dottrine seguite da sparute e spesso ridicole minoranze di facinorosi e spiantati, si sono pian piano insinuate nel tessuto sociale fino a uniformarlo totalmente a sé, dando vita a mostruosità inedite nella storia umana; il perfetto controcanto è rappresentato, ovviamente, dal cancro, una piccola cellula impazzita che passa del tutto inosservata fino a che non è cresciuta, si è metastatizzata, e ha invaso l’intero organismo fino a portarlo alla consunzione.

Cosa possiamo dedurre del nuovo secolo appena avviato, da una patologia come il Covid-19? Da un’epidemia cui viene sistematicamente negata la definizione di pandemia nonostante la diffusione intercontinentale, da un’infezione polmonare che, per quanto contagiosa e virulenta, non causa più vittime di una regolare influenza stagionale, ma che ha generato un panico generalizzato in (al momento) quattro continenti?

Il nostro è un secolo che da subito si è imposto come “post”: governato da una politica post-ideologica e da un’economia post-capitalistica, un mondo post-industriale informato dalla post-verità, con sessualità post-binaria e religioni post-dogmatiche, un’epoca che si definisce solo da ciò che non è. Ciò che questo comporta è evidente anche nella gestione (o mancanza di gestione) dell’epidemia in corso: totale mancanza di fiducia nelle fonti istituzionali e professionali, che porta a allarmismi, complottismi, benaltrismi, panico incontrollato e pericolose sottovalutazioni in egual misura; localismi autoreferenziali in cui non si riesce a trovare neanche quel tanto di coordinamento che basterebbe ad affrontare una situazione emergenziale in modo efficace; autorità centrali impreparate e preda del sentimento popolare che si lanciano in procedure prima carenti poi esagerate, sempre parziali e sempre contraddittorie, alimentando la confusione e la sfiducia di cui sopra; media con deontologie professionali quantomeno elastiche che, alla disperata ricerca di quel tanto di fruitori che servono alla loro sopravvivenza, gonfiano notizie, tacciono informazioni, presentano titoli fuorvianti a una popolazione che raramente si disturba a leggere l’intero articolo.

Seguendo le analogie impostate da Saba, potremmo concludere che il male sociale più diffuso è oggi proprio il vuoto, un nulla gonfiato, nutrito, ingigantito e reso minaccioso da discorsi senza contenuto, da promesse elettorali lanciate al vento, dalla progressiva e inesorabile morte delle idee, della conoscenza, dell’arte, della cultura. Lo stesso vuoto che nelle ultime settimane ha svuotato le nostre strade, i nostri teatri, le nostre scuole e università, i nostri negozi, i nostri cinema, i nostri stadi, e che ha riempito le nostre televisioni, i nostri discorsi, i nostri social network, e un poco anche i nostri ospedali. Di nulla, forse, non si muore, ma questo non vuol dire che esista una cura.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credits NASA su unsplash.com]

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L’infanzia come radicamento e riflesso dell’io: Saba e il piccolo Berto

«Berto – gli dissi – non aver paura./Io ti parlo così, sai, ma non oso, o appena, interrogarti. Non sei tu, tornato all’improvviso, il mio tesoro nascosto? Ed io non porto oggi il tuo nome?»1

A chi non è mai capitato di parlare con parole suadenti al piccolo bimbo che risiede in noi, come in questo passo di Saba? Quante volte il fanciullino, crucciato, ci ha spinto a comportarci oltre le convenienze, magari mettendo in atto atteggiamenti poco consoni?

Capita spesso che, difronte a realtà scomode, non piacevoli o semplicemente contrarie alle nostre aspettative, una parte di noi emerga prepotentemente, imponendo la sua voce e costringendoci ad agire o a reagire in maniera anticonvenzionale. Questa parte, eliminate tutte le forme sociali o culturali, spinge l’adulto a comportarsi in maniera tremendamente spontanea e sincera, talvolta mettendolo in un terribile imbarazzo, difronte al prossimo.

Se Freud pone le basi per l’analisi scientifica di tali realtà e dinamiche inconsce, già Pascoli aveva parlato di un “fanciullino” a cui tutte le cose appaiono nuove e che permane in noi anche in età adulta. Dopo di lui, anche Umberto Saba dedica una sezione intera della sua raccolta di poesie alla figura di Berto, il proprio sé bambino, a cui si sente profondamente legato. Egli chiama Berto «l’immagine di me, d’uno di me perduto»2, una parte dell’anima sepolta da anni, dunque, che ritorna alla luce scavando nelle profondità delle sue origini. Con lui parla, meglio, realizza un monologo, dato che Berto ascolta, intervenendo poco o niente, quasi fosse il riflesso di una realtà intangibile, un ricordo sbiadito che talvolta ritorna. Ma in questo dialogare Saba si riscopre, lasciando al lettore due quesiti curiosi: Quanto l’infanzia ha influenzato la sua persona adulta? Quanto di quel bambino è rimasto in lui?

Si tratta di due domande per nulla immediate, che coinvolgono una serie di altri elementi appartenenti a settori come la pedagogia, la psicologia dello sviluppo, il cognitivismo.

Ormai la maggior parte degli psicologi concorda nel ritenere che l’infanzia è un momento essenziale nella vita di una persona; un trauma subito da bambino è un trauma che l’uomo adulto si trascina per tutta l’esistenza.

Saba stesso era stato spinto dal proprio psicanalista ad indagare su se stesso bambino, perché lì dovevano essere presenti i nodi dei propri problemi, le fila di molti atteggiamenti inspiegati.

Un uomo come un bambino cresciuto, quello che ci presenta dunque l’autore, sebbene l’adulto si dimentichi completamente di essere stato giovane. «Perché, Berto, in volto t’oscuri? Parla. Io sono, rispose, un morto. Non toccarmi più»3.

Saba parla di un morto perché Berto è stato in un certo senso dimenticato, lasciato latente in una parte dell’uomo che non è possibile vedere, se non dopo un difficile e radicale lavoro su se stessi.

Ma attraverso questa autoanalisi, questa “messa a nudo” di realtà inesplorate è possibile capire molto di sè, l’autore lo mostra nell’ultima poesia della raccolta: Congedo, nella quale sostiene che il bimbo ha comunicato cose importanti all’uomo. L’infanzia, anche secondo Saba, viene dunque ad acquisire un valore portante, quasi i sentimenti provati da piccolo si riproponessero anche nell’adulto, dove in un certo senso vengono cristallizzati.

L’ultima riflessione è opportuno rivolgerla alla questione della permanenza del bimbo nell’adulto. Nonostante Saba più volte ripeta di parlare con un morto, una figura andata perduta, un soffio di vento in una realtà altra, nell’insistenza con cui cerca il dialogo con il fanciullo, egli stesso mostra di credere nella presenza di questa entità nell’uomo adulto. Vale a dire che, per quanto ci possiamo dimenticare di essere stati bambini, una parte di noi continua ad esserlo a suo modo; in alcuni questa parte è più evidente, in altri rimane coperta da uno strato di convenzioni, abitudini e obblighi tipici della vita contemporanea, senza tuttavia scomparire del tutto.

Saba concluderebbe forse con un invito: cerchiamo di rimanere nel profondo dei bambini, nella misura in cui questo significa conservare la propria spontaneità e i sentimenti genuini, non trascurando fino a dimenticare quella parte fanciullina che è in noi.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. U. Saba, Il canzoniere, Einaudi, Torino,ì 2004, p. 391.
2Ivi, p. 388.
3. U. Saba, op. cit., p. 392.

[immagine tratta da google immagini]

 

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Umberto Saba, “Ernesto”

«Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere, con tranquilla innocenza, il mondo meraviglioso» (da Storia di una libreria, 1948).

Quando Umberto Saba (1883-1957), alla fine degli anni Quaranta, scrive queste parole è ormai da tempo un poeta famoso. Da cinquant’anni si dedica fedelmente al Canzoniere, l’opera della vita, in cui si propone di dare un fedele ritratto di se stesso uomo tra gli altri umani. Ha vissuto a lungo e ha cercato di indagare con ogni mezzo le motivazioni profonde delle sue azioni, si è sforzato di dare un senso, attraverso le parole, ai suoi irrimediabili «O mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante rose a nascondere un abisso!». Ha praticato quella che chiama “poesia onesta”, attenta al reale, autentica e sincera, saldamente legata alla grande tradizione letteraria e lontana dalle febbrili sperimentazioni del Novecento.

Poi, nel 1953, durante un ricovero in una clinica di Roma, il suo intento di tornare a un’epoca lontana, di ripercorrerla con la consapevolezza che gli viene da una lunga esperienza, si realizza in un piccolo capolavoro: il breve romanzo Ernesto, scritto in libertà, senza destinarlo alla pubblicazione, e rimasto incompiuto (fu rivelato al pubblico solo nel 1975, molti anni dopo la sua morte).Saba copertina - La chiave di Sophia

Ernesto è un ragazzo di circa sedici anni, che vive nella Trieste di fine Ottocento e lavora come praticante nella ditta del signor Wilder, grande commerciante di farina. All’inizio del romanzo ha appena conosciuto un giovane uomo che lo sta timidamente corteggiando; poco dopo, Ernesto si dà a lui senza esitare: «voleva far contento, dar piacere al suo amico, e provare egli stesso una sensazione nuova, desiderata appunto per la sua novità e stranezza». I due cominciano una relazione, ma Ernesto comincia a capire quante cose lo separano dal suo compagno.

Un giorno Ernesto si reca dal barbiere, che decide di sua iniziativa di radergli per la prima volta la barba. Per lui è come il segno di una maturità raggiunta, e d’impulso si reca da una prostituta provando «un grande piacere, ma che non gli riuscì nuovo. Gli parve di averlo provato già altre volte, di saperlo da sempre, da prima ancora della sua nascita».

Ernesto si convince di dover lasciare il suo posto di lavoro, anche perché non trova altro modo per troncare con l’uomo. Così scrive una lettera insolente al suo principale, che lo caccia via. Quando la madre viene a saperlo, Ernesto è costretto a rivelarle il vero motivo per cui non vuole tornare da Wilder. È una confessione di straordinaria intensità, che spinge per la prima volta la madre a un vero moto di affetto nei suoi confronti.

In un ultimo episodio, Ernesto si reca a un concerto del violinista Ondricek; in questa occasione conosce il quindicenne Ilio, un bellissimo studente di violino. Nel momento in cui, incontratisi per caso un’altra volta, si danno un appuntamento, la storia si interrompe.

È evidente che il personaggio di Ernesto è una proiezione di Saba stesso: diversi elementi della storia (come il difficile rapporto con la madre lasciata dal marito, l’abbandono precoce degli studi, un noioso lavoro) sono ricalcati sulla biografia dell’autore. Ma il racconto è affidato a un narratore esterno, ormai vecchio, che rievoca la storia molti anni dopo: come per segnare una distanza, ma allo stesso tempo partecipare fino in fondo alle vicende narrate. Anche il linguaggio gioca sulla distanza, alternando un limpido italiano letterario nella narrazione, e nei dialoghi il dialetto triestino o un italiano più colloquiale a seconda dei personaggi.

Ma l’incanto del romanzo sta tutto nel giovane protagonista: un futuro poeta ancora ignoto a se stesso, sempre aperto al mondo, sempre capace di «giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando resistenze ed inibizioni, senza perifrasi o giri inutili di parole». La sincerità con cui Saba si ritrae è la stessa del personaggio, semplice e incapace di fingere: «la sua forza e la sua debolezza stavano nel mostrarsi, fin dove possibile, quale veramente era».

Saba trascorse gli ultimi anni giocando con lui, con la libertà che gli derivava dalla scelta di non pubblicare la sua storia e di riservarla a pochi amici, «i soli per i quali il racconto è stato “osato”: pochi – si è detto – tre o quattro in tutto». È una fortuna, per i lettori d’oggi, essere ammessi a questa felice, ristretta cerchia.

Giuliano Galletti