Alla ricerca dei confini del paesaggio attraverso Wittgenstein

Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein pone la tautologia e la contraddizione come situazioni-limite del discorso sensato, ossia come confini non valicabili dell’espressione linguistica del pensiero, perché al di là di essi vi sarebbe semplicemente non-senso. Esse rappresentano quindi i casi marginali della dicibilità; mentre nello spazio tra questi due termini è concepibile una descrizione articolata del mondo.

La tautologia ripete sempre l’identico (piove o non piove) e si dice che è incondizionatamente vera, perché non ha alcuna condizione di verità. Invece, la contraddizione pone e toglie contemporaneamente qualcosa, sotto il medesimo rispetto (piove e non piove) e per questo si dice che non è vera sotto nessuna condizione. Né tautologia né contraddizione sottostanno a delle condizioni, come invece accade alle proposizioni sensate, impedendo di istituire relazioni determinate ad altro. Secondo Wittgenstein questa posizione di confine conferisce ai due termini il carattere di essere privi di senso e tuttavia non insensati, poiché essi continuano ad appartenere al linguaggio, essendo il modo in cui esso dà segno del proprio estinguersi. Nella tautologia e nella contraddizione il dissolversi di ciò che può essere detto, e di come può essere detto, delinea la funzione ambivalente di queste due situazioni: da un lato delimita il dicibile e dall’altro lato si rivolge a ciò che non può essere detto perché semplicemente si mostra. I confini possono significare non solo le frontiere di sensatezza del mondo, ma anche luoghi di indagine, in cui esplorare, oltre il dicibile, quello che non può essere comunicato ma solo mostrato.

Senza approfondire ulteriormente le questioni del Tractatus, tautologia e contraddizione, in quanto limiti del discorso sensato ma non insensate, portano a riflettere e ad insistere sui margini di senso del nostro modo di esprimerci per comprendere il mondo, muovendosi nelle periferie dove forse la sensatezza viene meno ma si intravedono nuove opportunità di ricerca. In questa prospettiva, parallelamente alla funzione-limite di tautologia e contraddizione nel linguaggio, si potrebbe domandare quali sono i confini del paesaggio e quali sono le condizioni di possibilità dei nostri spazi di vita in quanto strutture di senso di una medietà equamente distante dal difetto e dall’eccesso. Se il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni che lo vivono, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni, si può provare a delineare i poli di una zona temperata, entro la quale si esprimono i contesti di vita delle persone, manifestazione della varietà dei patrimoni culturali e naturali e fondamento delle loro specificità.

Come la tautologia, a un livello generale, si associa all’idea di ripetizione della stessa cosa o del medesimo segnale che ha come effetto la realizzazione del massimo ordine, perché in essa non c’è posto per l’irrompere di eventi casuali o disturbanti, nell’ambito del paesaggio l’identità, portata alla sua estrema declinazione, richiama la pretesa di immutabilità di un territorio e della comunità che lo abita. Si parla, ad esempio, di società tradizionali che tramandano pratiche e comportamenti culturali definitivamente codificati. Si parla anche di purezza e incontaminatezza di ambienti naturali e sociali da preservare, che presuppongono un modello archetipo ed edenico. Si pensi, infine, al concetto di tipicità, utilizzato oggi in diversi ambiti tra cui il cibo e l’architettura, come espressione e garanzia di persistente autenticità.

Dall’altra parte dell’identità sta la contraddizione, dove qualcosa è posto e tolto contemporaneamente: tutto pretende di comunicare con tutto e il risultato è il massimo della casualità e del movimento. Le relazioni con ciò che è diverso proliferano incontrollate e le connessioni che è possibile istituire sono tutte equivalenti, spegnendo sul nascere l’emergere di un senso. All’interno del discorso sul paesaggio, la contraddizione viene rappresentata da luoghi che sono non-luoghi, come quegli spazi della provvisorietà descritti da Marc Augé (aeroporti, parchi-divertimento, centri commerciali…), attraverso cui non si possono decifrare relazioni sociali, storie condivise o segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono incentrati soltanto sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata da impermanenza, transitorietà e individualismo.

Tra la monotonia dell’identità e la cacofonia della diversità assoluta, risuona la polifonia del paesaggio. In mezzo a questi due poli risiedono dunque le zone temperate dove si creano le condizioni di possibilità per la costituzione di paesaggi vivibili. Eppure, come la tautologia e la contraddizione fanno parte del discorso sensato, in quanto segni limitanei del suo estinguersi, anche identità e non-luoghi appartengono al paesaggio. Questa posizione di confine conferisce ai due termini di essere le frontiere della vivibilità dei luoghi e tuttavia non invivibili. Essi allora ci invitano a insistere sugli spazi di senso marginali, ma non per questo insensati, e sul senso degli spazi marginali, ma non per questo emarginati.

Umberto Anesi

[Photo credit Qingbao Meng via Unsplash]

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Pensare l’essenza, abitare l’essenziale

A partire dagli anni Novanta gli scavi archeologici condotti in Trentino a Riparo Dalmeri a 1240 m s.l.m. hanno riportato alla luce le testimonianze di vita di gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi del Paleolitico che alla fine delle grandi glaciazioni, per circa 250 anni, risiedettero stagionalmente in un ricovero sottoroccia. Nel corso degli scavi sono state effettuate numerose scoperte tra cui, oltre a una serie di pietre dipinte, l’individuazione di una capanna circolare costituita probabilmente da pali di legno piegati ad arco e ricoperti da frasche o pelli1. L’ipotetica ricostruzione della struttura abitativa effettuata in situ dagli archeologi, delimitata diametralmente da pietre e reperti litici, permette oggi di cogliere nei suoi tratti principali una delle prime forme dell’abitare umano: la capanna, per i nostri antenati preistorici che attraversavano gli altipiani prealpini, era essenzialmente un riparo che offriva protezione provvisoria dal freddo, dal buio e dalle bestie feroci.

Nel nostro tempo ci è difficile connettere questa dimensione originaria di semplice rifugio delle prime abitazioni alle nostre case ampie, confortevoli e ben arredate, anche perché ormai i pericoli di un ambiente naturale ostile e minaccioso sono stati per lo più allontanati dagli spazi antropizzati e urbani che viviamo. Osservando le case moderne, la natura di riparo tende a scomparire nella complessità costruttiva degli edifici cittadini, nella varietà degli arredamenti e nella decorazione degli interni. Il senso comune ci suggerisce che abitare una casa significa entrarci dentro, mettere dei mobili e affiggere il proprio nome sul campanello, riconoscendo quello spazio come nostro possesso. Vediamo quindi la casa come un edificio tra i tanti, delimitato da muri, composta da una o più stanze arredate e piena di oggetti. Eppure la casa non è solo quello che fisicamente appare, ma è anche un’entità simbolicamente costruita e vissuta come tale da chi la abita, su cui vale la pena riflettere per tentare di risalire a una sua forma originaria e al suo significato essenziale, considerando anche il fatto che essa rappresenta il luogo principale in cui avviene il nostro abitare questo pianeta.

Quando si affronta questo tema da un punto di vista filosofico, viene subito in mente che alcuni pensatori hanno fatto coincidere la ricerca di un luogo e di un’abitazione essenziali in cui soggiornare, lontani dalla civiltà e dall’ambiente cittadino, con lo sviluppo del loro pensiero e con la riflessione sull’essenza delle cose. A questo proposito Leonardo Caffo ha dedicato una parte del saggio Quattro capanne (Nottetempo, 2020) all’analisi delle vicende biografiche di Henry Thoreau e di Ludwig Wittgenstein, che avevano scelto di ritirarsi a vivere in una capanna come esperienza di distacco parziale dal mondo, dagli altri e dalla complessità del presente. Thoreau a metà dell’Ottocento si era stabilito in una baracca nelle foreste di Walden, per “vivere con saggezza e in profondità e per succhiare il midollo della vita”. Wittgenstein, nel secolo successivo, aveva abitato per un certo periodo in un casotto davanti al fiordo norvegese di Skjolden, lontano dal mondo accademico. Si possono aggiungere altri due esempi celebri: quello di Friedrich Nietzsche che, durante le lunghe camminate da eremita nei boschi, immaginava di costruire tra le montagne svizzere dell’Engadina un “canile” (in tedesco “Hundhütte”) in cui rintanarsi per sviluppare a pieno il suo pensiero abissale, e quello di Martin Heidegger che si ritirava periodicamente a meditare nella sua baita a Todtnauberg nella Foresta Nera vicino a Friburgo. 

Le biografie di questi filosofi, che scelsero di vivere la propria abitazione come un rifugio provvisorio, sembrano suggerire che esista un’effettiva corrispondenza tra pensare l’essenza e abitare l’essenziale. Se dunque da un lato le tracce di una capanna del Paleolitico ci riportano alle prime strutture abitative che, nella loro forma originaria, erano principalmente ripari temporanei, dall’altro lato, invece, l’intreccio tra vita e filosofia in alcuni pensatori, come Thoreau, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger, testimonia che talvolta l’indagine filosofica sull’essenza delle cose implichi anche la possibilità di ripensare il concetto di abitazione e di ritornare a una dimora essenziale. La capanna del filosofo, così come quella preistorica, in quanto unità abitativa minima e archetipa, permette quindi di far riemergere il significato originario di casa, che, nella sua forma semplice e basilare, è quello di rifugio e di riparo.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. Cfr. Bassetti M., Cusinato A., Dalmeri G., et. al., Riparo Dalmeri, una capanna di 11.000 anni fa, Archeologia Viva, anno XX, N. 90, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, pp. 68-77.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Martin Heidegger e l’origine dell’opera d’arte

Martin Heidegger ha sempre privilegiato momenti alternativi a quelli dell’argomentazione filosofica tradizionale, quali la meditazione sul linguaggio e sull’esperienza della verità nell’arte. Questo atteggiamento trova espressione nel saggio L’origine dell’opera d’arte, che risale agli anni Trenta ma che viene pubblicato nel 1950. Nello scritto si trova il cuore della riflessione heideggeriana sull’arte attraverso l’indagine sul nesso tra arte e verità, anche se il suo contenuto viene rigorosamente determinato dal problema dell’essere. L’essere rimane infatti la questione da pensare sia nel “primo”, che nel “secondo” Heidegger e la posizione di questo saggio è di fondamentale importanza, poiché in esso il filosofo scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell’essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (svelante).

per Heidegger l’opera d’arte, che si tramanda di epoca in epoca, non è riducibile a un unico significato, ma, al contrario, si può tradurre in modi sempre diversi. Persino la totalità dei significati assunti in tempi diversi non può racchiudere il suo senso ultimo, altrimenti non avrebbe più niente da dirci. Nell’opera d’arte non vi è mai nulla di completamente chiaro: luce e oscurità, velatezza e dis-velatezza, tra loro inscindibili, sono i caratteri che la rendono vibrante e che dispongono l’uomo all’ascolto e alla meraviglia di fronte ad essa. È importante ricordare che il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso come l’annuncio di una ricerca per determinare ciò da cui l’opera d’arte ha origine; esso indica piuttosto che l’opera d’arte è un’origine, nella misura in cui è il mondo che essa stessa apre e illumina. Heidegger tenta dunque una considerazione alternativa rispetto all’estetica tradizionale, che interpreta fenomeni quali bellezza, poesia e arte solamente in riferimento all’uomo come soggetto, levandogli portata ontologica.

Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, seguendo le opinioni comuni accettate, conduce a quello che Heidegger nei primi paragrafi chiama “un circolo vizioso”, da cui però il filosofo non intende uscire, ritenendo coerente sostare in esso e nella contraddizione da esso evidenziata: «Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un riepilogo, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero»1. Per comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger parte allora dal concetto di “cosa”, dato che l’opinione comune considera l’opera d’arte come una cosa, dotata, in più, di valore estetico. Successivamente il filosofo passa alla nozione di mezzo, che sembrerebbe intermedia fra quella di cosa e di opera, per poi scoprire che non è la comprensione della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte che permette di capire il significato della cosa.

Heidegger abbandona quindi le opinioni correnti sulla cosità dell’opera d’arte, poiché è la stessa opera d’arte che rivela l’essere cosa della cosa ed è sempre in virtù di essa che si svela l’essenza del mezzo. La tesi di Heidegger è che, nello stesso momento in cui si è in presenza di un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose. Possiamo affermare, a questo punto, che l’arte è il porsi in opera della verità: «È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità»2. Se l’arte ha dunque fondamentalmente a che fare con la verità, di conseguenza la meditazione sull’arte assume i lineamenti di una speculazione ontologica che realizza una riformulazione del problema dell’essere e dell’ente. L’arte, secondo il filosofo, è un evento che fonda la verità come accadimento, ovvero come qualcosa che si dà storicamente. A ben vedere, allora, l’opera d’arte non appartiene semplicemente a un mondo, ma lo istituisce ed è alla base della sua fondazione.

Questa fondazione o apertura, però, rappresenta soltanto uno dei due momenti, inscindibili e correlati tra loro, di quell’evento di verità che è l’opera d’arte, quello che Heidegger chiama “Mondo”. Infatti, nel suo semplice schiudersi e venire alla luce, l’opera d’arte porta con sé il suo mondo storico e il suo fondamento, ciò che chiama “Terra”. La Terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo, attorno al quale si dispiegano i rapporti che costituiscono l’abitare storico: «Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»3. Il rapporto tra Mondo e Terra viene visto da Heidegger come una lotta. «Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intedesse come contesa e rissa»4 poiché entrambi gli elementi occorrono l’uno all’altro per potersi manifestare: il Mondo necessita del terreno su cui edificarsi, mentre la Terra, per potersi indirettamente svelare, abbisogna del Mondo.

Questa lotta tra Mondo e Terra, che si gioca nell’alternarsi di nascondimento e di svelamento, costituisce, secondo il pensatore tedesco, l’essenza della verità. Si tratta della verità intesa come non-nascondimento, «nel ripensamento della parola greca a-lètheia»5 o, secondo il termine tedesco che usa Heidegger, “Lichtung”: verità nel senso di spazio illuminato all’interno di una zona oscura. Nell’uso heideggeriano del termine “Lichtung” c’è il rimando metaforico alla radura del bosco rischiarata dai raggi del sole e alla foresta buia. Infatti Heidegger insiste non solo sulla luminosità, ma anche sull’oscurità che la circonda.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, p 4
2-3-4-5. Ivi, p. 23, p. 31, p. 34, p. 36

[Photo credit unsplash.com]

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Riflessione sugli scarponi da montagna in chiave heideggeriana

L’uomo del Similaun, la mummia dell’Età del Rame (3300-3100 a.C.) ritrovata nel 1991 tra i ghiacci disciolti della Ötztal in Tirolo e conservata oggi al Museo di Bolzano, indossava un ampio corredo di oggetti che, come l’equipaggiamento di un alpinista moderno, gli avrebbe permesso di attraversare le vette montane in condizioni ambientali estreme. 

Il copricapo in pelo, come gli odierni berretti da montagna, asciugava il sudore tenendo calda la testa. La gerla consentiva di trasportare carichi, lasciando libere le mani, e aveva un telaio in legno simile a quello degli zaini da trekking. Il pugnale di selce era sempre a portata di mano come il coltellino svizzero tascabile. Alcuni rimedi vegetali costituivano un kit di pronto soccorso ante littteram. Le scarpe erano costruite con imbottitura interna e rivestimento esterno idrorepellente, e con strisce di pelle nella parte inferiore per non scivolare, come gli scarponi da montagna di oggi, morbidi e allo stesso tempo robusti, che hanno suole scolpite per aderire al terreno. Da quanto appena descritto sembra che, fin dai tempi più antichi, il rapporto uomo-montagna si esprima anche attraverso gli strumenti utilizzati per affrontare la verticalità lungo sentieri impervi. Si potrebbe quindi tentare una riflessione su un mezzo comune per andare in montagna, come, ad esempio, un paio di scarponi, facendo emergere alcuni aspetti significativi dell’esperienza della vetta, caratterizzata dalla fatica e dalla pericolosità dell’ascensione. 

Gli scarponi vengono utilizzati soprattutto in alta quota e sono tra gli oggetti che maggiormente rappresentano la pratica dell’alpinismo nell’immaginario popolare. Si tratta di scarpe rinforzate che appartengono all’equipaggiamento da montagna e militare e che consentono un cammino agevole su terreni difficili. Sono fondamentali per percorrere sentieri franosi, perché proteggono la caviglia e hanno la suola dentellata adatta per affrontare ghiaioni, nevai e rocce bagnate. Tuttavia, evidenziare solamente il valore d’uso e le caratteristiche tecniche degli scarponi, rimarcando il vantaggio che essi offrono di proteggere i piedi dalle asperità, non permette di comprendere la loro essenza in relazione all’esperienza della montagna e, per usare un’espressione di Martin Heidegger, non consente di disvelare «l’esser-mezzo» di questo “mezzo”. Pertanto, richiamando la riflessione heideggeriana sull’arte come messa in opera della verità, esposta nel saggio L’origine dell’opera d’arte, potrebbe risultare più significativo esaminare una rappresentazione artistica di un paio di scarponi da montagna.

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Prendiamo, ad esempio, il dipinto 1895-1915 dell’artista trentino Domenico Ferrari1 che mostra degli scarponi militari abbandonati in mezzo alla neve, usati probabilmente da un soldato per attraversare i pendii nevosi delle cime che dominano silenziose lo sfondo di una seconda cornice. Una targhetta, lasciata lì vicino, rievoca l’orizzonte temporale di una giovane esistenza stroncata durante la Grande Guerra che lo scioglimento dei ghiacci ha riportato alla luce. Nel dipinto il cristallino candore del ghiaccio conserva i resti materiali di una vita ma, osservando l’opera, non siamo in grado di stabilire da dove giungano quegli scarponi dimenticati. Intorno non c’è nulla che spieghi perché essi si trovino in mezzo a uno spazio bianco avvolto nel silenzio. 

Tuttavia, mentre le scarpe servivano realmente al milite come mezzo per camminare, nel dipinto di Ferrari si riesce a cogliere ciò che esse sono nel loro non-utilizzo, riposte ai piedi delle montagne avvolte dalla neve. Infatti gli scarponi solitari testimoniano nel loro abbandono l’appartenenza allo spazio alpino, molto più di quanto essa poteva apparire al soldato che li indossava, percependo i benefici della suola rinforzata e del rivestimento impermeabile. La fatica dei numerosi tragitti percorsi in alta quota si manifesta nella robusta pesantezza degli scarponi. Il pericolo della salita e della discesa, lungo pendii rocciosi battuti dal vento, affiora dall’usura del rivestimento esterno. Il tacito richiamo della montagna al trascorrere del tempo passa per il cuoio inumidito delle calzature. Dagli scarponi abbandonati promana la trepidazione di non sopravvivere alla tormenta, di non riuscire a tornare giù a valle, l’angoscia della prossimità alla morte

Con lo scioglimento dei ghiacci le calzature di un cacciatore dell’Età del Rame e di un soldato dell’Età contemporanea sono tornate alla luce offrendo l’occasione per riflettere sull’atavico rapporto uomo-montagna. Gli scarponi, che riconosciamo abitualmente per il loro valore d’uso, nell’opera d’arte hanno disvelato il mondo alpino di cui fanno parte. Essi appartengono alla montagna che li ha custoditi coprendoli con la neve. La loro essenza non si esprime quindi nella possibilità che essi offrono di camminare, proteggendo i piedi dalle asperità, ma, più a fondo, nella capacità di evocare l’esperienza estrema della vetta, segnata dal pericolo personale che si corre cercando di stare appresso al limite senza oltrepassarlo.

 

Umberto Anesi

 

NOTE
1.  La lettura del quadro di Ferrari riprende parafrasando l’interpretazione heideggeriana delle Scarpe di Van Gogh in M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, pp. 18-21.

[Photo credit copertina: unsplash.com. Opera nel testo: Domenico Ferrari, “1895-1915”, 2008, Acrilico, 120 x 60 cm]

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Da Diogene il Cinico una riflessione sulla ricerca interiore e l’aspetto esteriore

Nel IV secolo a.C. un vecchio logoro e seminudo si aggirava di giorno per le strade di Atene con una lanterna accesa pronunciando la frase “cerco l’uomo”. La ricerca di Diogene di Sinope rappresentava una aperta provocazione nei confronti degli ateniesi, che si erano abbandonati allo sfarzo e al lusso, e richiamava la necessità di ritrovare l’uomo autentico nella sua naturale spontaneità, spogliato dagli orpelli e dagli ornamenti. Nonostante non ci siano pervenuti gli scritti di Diogene, i suoi atteggiamenti estremi hanno generato una serie di aneddoti biografici, riprodotti varie volte anche nella storia dell’arte. Da un punto di vista iconografico, la sua figura è facilmente riconoscibile poiché ricorrono spesso quegli elementi che rimandano al suo stile di vita semplice e al modo polemico con cui egli si presentava agli altri, permettendo ancora oggi di cogliere il valore universale della sua riflessione sull’uomo e sulla società.

In particolare, nell’affresco della Scuola di Atene dipinto da Raffaello agli inizi del Cinquecento, Diogene compare nella grande sala dove sono collocati i filosofi greci antichi, tra cui primeggiano Platone e Aristotele. Vale la pena riprendere i principali elementi che caratterizzano l’immagine di Diogene nel dipinto, perché riconducono ad alcuni passaggi del suo pensiero, che suggeriscono una stretta relazione tra il suo aspetto esteriore e la sua riflessione interiore. Il pensatore, vestito con una corta tunica azzurra, è seduto in modo scomposto su una gradinata mentre legge un testo con il mantello gettato a terra e una ciotola al suo fianco. I pochi capelli e la barba sono arruffati e il corpo, esposto alla vista degli altri, mostra i segni evidenti della vecchiaia.

La posizione stravaccata sulle scale, come quella di un animale, rimanda al soprannome irrisorio “cane” con cui veniva chiamato Diogene dai concittadini per la mancanza di pudore e per la condotta di vita basata sui bisogni essenziali. In realtà, il filosofo accettava di buon grado l’appellativo, poiché il suo comportamento ferino serviva a mettere davanti agli occhi di tutti l’esplicita opposizione alle finte buone maniere e alle costruzioni sociali che allontanavano gli uomini da rapporti veri e genuini. La barba scarmigliata, i radi capelli spettinati e la pelle avvizzita lasciano intendere una volontaria distanza dalla cura del corpo come strumento indispensabile per avere successo. Diogene è vestito con un abito semplice che lo lascia in parte scoperto, mentre il mantello logoro, che gli serviva anche da coperta per la notte, è gettato sugli scalini. Lo scarno abbigliamento è espressione di un distacco volontario da tutto ciò che nel vestire oltrepassa la necessità di coprirsi dal freddo e si può interpretare come opposizione alla moda del tempo, vista sia come espressione di distinzione o omologazione sociale, sia come opera di mascheramento o di adornamento del corpo.

La ciotola crepata al fianco del filosofo accenna al bisogno naturale di ogni persona di sfamarsi in contrapposizione da un lato alla predilezione di alimenti raffinati e alla ricerca ossessiva di diete sofisticate, e dall’altro allo sfrenato e ingordo consumo del cibo che al giorno d’oggi si esprime con la locuzione inglese all you can eat. Il testo che il filosofo è intento a leggere con attenzione, anche se non ne conosciamo il contenuto, testimonia che egli non disdegna affatto la conoscenza e non tralascia lo studio, nonostante la profonda avversione nei confronti della civilizzazione. Nell’opera di Raffaello non compare, invece, nessun accenno alla famosa botte che, secondo i racconti biografici, Diogene aveva scelto come dimora. Anche in questo caso, possiamo interpretare la volontà di vivere fuori dalle mura domestiche come forma di estraniazione dalla società civile urbanizzata che aveva perso un rapporto immediato con la natura.

Questa breve descrizione del dipinto permette di interpretare gli elementi iconografici che caratterizzano la figura di Diogene come manifestazioni estreme di rifiuto del lusso e dello sfarzo della società in cui viveva. La pelle avvizzita, la barba arruffata, l’abito lacero, la scodella rotta e la postura scomposta mostrano come il filosofo cinico non accetti alcuna mediazione, opponendo il suo comportamento in-decoroso a un’idea di decoro che gli ateniesi esprimevano solamente in termini estetici, ossia come ostentazione di ornamenti che nascondevano l’uomo in quanto essere naturale. Per questo motivo, attraverso l’immagine in-decorosa di sé stesso, ancora oggi Diogene suggerisce che ricerca interiore e aspetto esteriore non siano affatto due domini separati. Il decoro, quindi, non rappresenta unicamente una categoria estetica, che rimanda alla forma esteriore dell’ornamento (la decorazione), ma assume anche una valenza etica che riguarda gli atteggiamenti appropriati e dignitosi da adottare quando stiamo insieme ad altre persone.

 

Umberto Anesi

 

[Photo credit pinterest]

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Perdere il sentiero: una chiave di lettura del rapporto tra uomo e foresta

Come afferma lo studioso Mauro Agnoletti1, la maggior parte delle foreste nella penisola italiana sono il prodotto storico della modificazione del paesaggio da parte dell’uomo. Tuttavia, camminando nel folto di un bosco, si percepisce la sensazione di trovarsi immersi in qualcosa di radicalmente altro e primigenio rispetto ai nostri ambienti di vita quotidiana, soprattutto se smarriamo la direzione e ci troviamo perduti nel silenzio e nella penombra. Vale la pena, pertanto, tentare una riflessione sul rapporto tra uomo e foresta per arrivare a una comprensione di come esso si manifesti quando perdiamo il sentiero tra gli alberi fitti.

Quando si affronta questo tema da un punto di vista filosofico, viene subito in mente il pensiero di Martin Heidegger poiché le foreste vicino alla sua baita di montagna a Todtnauberg giocano un ruolo significativo per lo sviluppo della sua filosofia, caratterizzata da un lessico improntato sull’esperienza del camminare lungo i sentieri nei boschi. Questa particolarità appare evidente nell’opera Holzwege (1950), che viene tradotto in italiano come Sentieri interrotti, ma che letteralmente significherebbe “sentieri (Wege) del bosco”, poiché la parola Holz (legno) anticamente indicava il bosco. Gli Holzwege, precisa Heidegger, sono sentieri del pensiero che iniziano al limitare della foresta e si snodano nel fitto degli alberi in cui procedendo si fa esperienza. La metafora nasce dalle passeggiate che il filosofo compiva nelle foreste e serve a sottolineare che, come nella selva si avanza con la possibilità di perdere la via principale, così il pensiero umano non deve fissare una meta definitiva, bensì procedere in un continuo sviamento, errando e tentando percorsi impervi.

Oltre all’importanza dei concetti filosofici appena accennati, la metafora heideggeriana suggerisce che lo sviamento nel folto degli alberi sia anche una manifestazione del rapporto originario tra uomo e foresta. Seguire un sentiero che si inoltra tra le piante rappresenta un’esperienza affascinante ma, allo stesso tempo, inquietante. Infatti, se da un lato ci attira la possibilità di entrare in un ambiente naturale molto diverso da quello in cui normalmente abitiamo, dall’altro si percepisce il rischio di perdersi in un luogo dominato dal silenzio e dalle ombre, in cui mancano i normali punti di riferimento.
Tuttavia, il senso di smarrimento fisico e mentale che si può provare errando nei boschi, oggi viene mitigato dal fatto che la maggior parte di essi non sono affatto luoghi naturali incontaminati, ma frutto dell’interazione tra uomo e natura nel corso del tempo e della modificazione del paesaggio legata alla silvicoltura e alla gestione del patrimonio boschivo in chiave economica e turistica. Per questo motivo la comprensione del rapporto originario tra uomo e foresta, inteso come perdita del sentiero e dei punti di riferimento, non può tenere conto solo delle foreste che compongono il paesaggio attuale, ma dovrebbe risalire a un’epoca primordiale, in cui l’ambiente naturale e selvaggio dominava gli spazi dove vivevano le prime comunità umane.

A questo proposito una traccia della relazione atavica tra uomo e foresta è riscontrabile nelle fiabe che abbiamo ascoltato da piccoli, in cui accade spesso che i protagonisti si perdono nel bosco e, dopo numerose peripezie, riescono a uscirne, solitamente arricchiti sia in senso morale che materiale. Infatti, come ha ipotizzato lo studioso Vladimir Propp nel saggio Le radici storiche dei racconti di fate (1946), gli elementi costitutivi delle fiabe, che ancora oggi si raccontano ai bambini prima di andare a dormire, risalirebbero ai riti primitivi delle prime comunità umane. Le fiabe popolari sarebbero il ricordo di antiche cerimonie con cui i clan celebravano riti di iniziazione legati al transito dei giovani dall’infanzia all’età adulta. Durante questi riti i ragazzi venivano sottoposti a numerose prove che prevedevano di affrontare le avversità dell’ambiente naturale e selvaggio che li circondava. Tra queste prove c’era anche quella che riguardava il passaggio nella foresta scura, lo smarrimento del sentiero, il ritrovamento della capanna dello sciamano e, infine, il ritorno al villaggio, non più infanti, bensì adulti.

In conclusione, se da un lato nella filosofia di Heidegger viene esplicitata la prossimità tra pensiero errante e luogo silvestre mediante la metafora dei sentieri interrotti nel bosco, dall’altro lato gli studi antropologici di Propp mostrano che nelle comunità primitive la foresta aveva il significato di un luogo magico in cui ritualmente si entrava per uscirne arricchiti. Entrambi gli autori, partendo da prospettive teoriche diverse, suggeriscono che lo smarrimento nel fitto degli alberi rappresenti un modo attraverso cui si rivela ancora oggi l’ancestrale rapporto tra uomo e foresta.

 

Umberto Anesi

 

NOTE
1. Cfr. M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Laterza, Bari-Roma 2018.

[Photo credit Sebastian Unrau via Unsplash]

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Un paio di scarpe e null’altro. Una lettura di Van Gogh

Nel famoso scritto L’origine dell’opera d’arte del 1935, Martin Heidegger (1889 – 1976) afferma che il quadro di Vincent Van Gogh (1853 -1890), che rappresenta un paio di scarpe da contadino, è un’opera d’arte non perché imita perfettamente delle calzature, ma perché raffigura un attrezzo, colto in un non-funzionamento, capace di aprire un mondo. L’intero mondo del contadino che ha calzato quelle scarpe viene alla luce. Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’opera d’arte ha la capacità di dischiudere la verità sull’ente e questo scaturire della verità che in essa accade può essere colto soltanto a partire dall’opera. Non è chiaro a quale dei tanti quadri di Van Gogh in cui compaiono scarpe Heidegger si riferisca (probabilmente a Vecchie scarpe con lacci del 1886); ciò che più conta per il pensatore, di fronte all’opera d’arte, è la dimensione dell’ascolto e della meditazione e non il giudizio soggettivo che si può dare su di essa.

Nella voluminosa opera Vincent Van Gogh del 1950, il critico d’arte Meyer Schapiro (1904-1906), invece, vede nell’arte il destino personale del pittore olandese, che libera nei suoi quadri tutte le aspirazioni e le angosce contenute nel proprio io, anche se il suicidio rappresenta la chiara e definitiva testimonianza del fallimento di questo tentativo di salvezza attraverso l’arte. All’interno di questa cornice, secondo lo studioso, rientra il modo di Van Gogh di dipingere gli oggetti (come, ad esempio, il paio di scarpe). Il suo io è così attaccato alle cose da riprodurle ostinatamente più volte. Nell’interpretazione di Schapiro, l’artista dipinge oggetti, siano essi fiori, una sedia, un cappello, una pipa o delle calzature, in quanto estensioni del suo essere.

Le riflessioni del filosofo e dello storico dell’arte di fronte al quadro di Van Gogh sono alla base della disputa sorta tra i due studiosi sulla giusta interpretazione e sulla corretta attribuzione delle calzature dipinte dall’artista olandese. La contesa tra Heidegger e Schapiro ha luogo attraverso uno scambio di lettere intorno agli anni sessanta del secolo scorso. La polemica viene innescata dal secondo, che accusa il primo di aver attribuito ingenuamente, e senza troppe precisazioni, la proprietà delle scarpe a un contadino, anche se appartengono allo stesso Van Gogh, trascurando l’importante aspetto della presenza dell’autore nella tela per adattarne il contenuto a una elucubrazione filosofica. Jacques Derrida (1930 – 2004) nel saggio La verità in pittura (1978) tenta di porre fine al problema delle scarpe di Van Gogh contese tra Heidegger e Schapiro. Il filosofo francese non condivide l’esasperato bisogno dei due contendenti di assegnare la proprietà delle scarpe e mette in luce come entrambi commettano diversi errori di interpretazione.

Un paio di scarpe e null’altro. Tuttavia…

È interessante rilevare che dal confronto serrato tra Heidegger e Schapiro emerge la capacità intrinseca di un’opera d’arte di innescare un confronto, seppure con risvolti polemici, tra diverse discipline. La celebre disputa sorta attorno al dipinto di Van Gogh riassume in modo emblematico due particolari punti di vista davanti a un’opera: da un lato un atteggiamento ermeneutico-filosofico e dall’altro un atteggiamento critico-artistico. Si tratta di due modalità diverse di accostarsi a un quadro che ognuno di noi può intraprendere, di volta in volta, senza necessariamente dover propendere in modo definitivo per l’una o per l’altra.

Quando visitiamo una mostra, attraversiamo con calma le sale, indugiando di fronte alle opere che ci colpiscono maggiormente. A volte ci poniamo davanti a una tela lasciando che dall’immagine raffigurata affiori un significato, che diventa fonte d’ispirazione per riflessioni su aspetti particolari della nostra esistenza o su concetti filosofici astratti. In altre parole, entriamo in una dimensione di ascolto, confidando che sia il quadro a parlarci. Altrimenti possiamo provare a definire il dipinto in modo più critico mettendolo in rapporto con altri dello stesso autore o con le vicende biografiche dell’artista, oppure, ancora, con l’epoca in cui è stato dipinto e, più in generale, con l’intera storia dell’arte.

È forse questo uno dei caratteri essenziali dell’opera d’arte, ossia quello di aprirsi liberamente allo sguardo degli spettatori. Un quadro ha la facoltà di generare molteplici rimandi, di volta in volta differenti a seconda del punto di vista da cui si vuole guardare il suo contenuto, diventando lo sfondo su cui stabilire un dialogo culturale vivo e fecondo. Un paio di scarpe dipinte, nel loro semplice mostrarsi all’interno di una cornice, si rende disponibile alle varie interpretazioni di chi osserva, aprendo dei mondi e generando confronti e riflessioni.

 

Umberto Anesi

 

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Guardare il paesaggio, vivere lo spazio alpino: intervista ad Annibale Salsa

Abbiamo incontrato Annibale Salsa a fine luglio durante una sua breve sosta a Trento, prima che ripartisse verso una nuova tappa alpina, e gli abbiamo chiesto di condividere con noi alcuni pensieri sul paesaggio e sulla montagna da un punto di vista filosofico.
Profondo conoscitore e instancabile camminatore delle terre alte e delle vallate alpine, Annibale Salsa è uno dei massimi esperti della cultura e dell’ambiente montano. Alla base delle sue riflessioni si trova un pensiero ermeneutico e fenomenologico, all’interno di un approccio multidisciplinare al paesaggio che spazia dalla filosofia alla storia e dall’antropologia allo studio delle società delle Alpi. Ha insegnato Antropologia filosofica all’Università di Genova ed è stato Presidente del CAI (Club Alpino Italiano). È Presidente del Comitato scientifico di tsm|step Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio di Trento e componente della Fondazione Dolomiti-UNESCO. Ha recentemente pubblicato il breve saggio I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia (Donzelli Editore 2019).

Di fronte a un paesaggio alpino si è tentati spesso, come nel dipinto Viandante sul mare di nebbia di Friedrich (1818), di rimanere assorti in contemplazione, in una posizione sopraelevata, seguendo l’ondulazione dei prati fino alle foreste che, risalendo i pendii, cedono il posto alle cime rocciose. Tuttavia, questo atteggiamento contemplativo, che tende a rimirare la natura, alla stregua di un dipinto all’interno di una cornice, non avviene in modo neutro e ingenuo, ma è frutto di una visione estetica, che si è diffusa nella cultura occidentale, legata a un modo particolare di intendere il rapporto tra uomo e ambiente naturale.

Il nostro colloquio ha avuto inizio rilevando che il termine paesaggio ha una genesi storica ben precisa, connessa allo sviluppo della disciplina estetica tra ‘700 e ‘800. Annibale Salsa, quale influenza ha esercitato l’estetica del bello e la tendenza a ridurre l’estetico all’artistico sul nostro modo di intendere e vedere il paesaggio, in particolare quello alpino?

Il filosofo tedesco Gottlieb Baumgarten, esponente di spicco del pensiero settecentesco, ha impresso una svolta epocale alla nozione di estetica. Muovendo infatti dalla sua riflessione, la parola estetica incomincerà a riferirsi alla nozione di “bello”, modificando sensibilmente il significato d’uso del termine greco aísthēsis (αἴσθησις), il quale indicava la “sensazione” tout court, a prescindere dal giudizio di valore. La tradizione successiva, da Immanuel Kant e dalla sua opera Critica del Giudizio al neo-idealismo italiano, che ha in Benedetto Croce uno dei suoi principali esponenti, condizionerà tutta la cultura e si riverserà anche nella legislazione italiana attraverso la Legge Bottai del 1939 in materia di paesaggio che, non a caso, viene interpretato in senso artistico-monumentale. Per quanto riguarda l’ambito del paesaggio alpino, la rappresentazione iconografica in senso kantiano (“bello e sublime”) riceverà apporti sensibili attraverso la pittura e la poesia del Romanticismo ottocentesco.

Questa interpretazione in senso artistico-monumentale, che separa soggetto attivo e oggetto passivo, ha come effetto rilevante la tendenza a idealizzare il paesaggio, come avviene per l’immagine di una cartolina, e a trascurare gli aspetti del vissuto e dell’interazione tra uomo e ambiente. Come si supera un modello che vede l’uomo come colui che vive con “intorno” la natura e che “guarda” frontalmente il paesaggio? Come oltrepassare l’idea di un paesaggio da un lato e la percezione di un soggetto dall’altro?

Nella tradizione filosofica occidentale, da Platone a Cartesio, la relazione soggetto-oggetto è stata impostata dualisticamente ossia, oltre che in senso gnoseologico, anche in senso ontologico. Pertanto la distinzione non viene posta soltanto come diversificazione di funzioni (osservatore/osservato), ma, soprattutto, sulla base di una separazione sostanziale ipostatizzata. Il superamento della distinzione ontologicosostanzialistica è possibile mediante l’attivazione di una relazione intenzionale noetico-noematica (secondo l’insegnamento della fenomenologia di Edmund Husserl), ricorrendo altresì, in chiave psicologico-fenomenologica, all’empatia (in tedesco Einfühlung), ovvero a quella immedesimazione empatica in cui la separazione soggetto-oggetto si annulla. Per questo parlo di paesaggio quale spazio-di-vita, recuperando la nozione husserliana di “mondo-della-vita” (Lebenswelt).

Questa tua espressione mi sembra cruciale, perché richiama una accezione di paesaggio inclusiva delle persone che lo vivono, dell’ambiente naturale e delle sedimentazioni storico-culturali. Che cosa intendi con l’espressione “il paesaggio è spazio di vita”? Quale significato assume questa espressione, ad esempio, per l’ambiente montano?

Come accennavo prima, riprendo la nozione fenomenologica di “mondo-della-vita”, che, da Husserl (in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1936) a Merleau-Ponty (in Fenomenologia della Percezione del 1945), ha individuato nell’a-priori materiale del mondo della vita il Welt – il mondo naturale, sociale, personale – in cui l’uomo è immerso in forma originaria (quindi, spazio-di-vita). L’ambiente montano, pertanto, non può essere lo stesso, se chi lo vive è un montanaro o un cittadino, in quanto cambia la relazione empatica del vissuto di esperienza. Anche questa è una distinzione funzionale più che ontologica, in quanto, se il cittadino vive la quotidianità del mondo della vita in una “full immersion” con il paesaggio e il mondo dell’alpe, modifica le sue percezioni e le sue rappresentazioni e cambia il paradigma mental-culturale passando dalla “montagna ideale” alla “montagna reale”.

Prendendo spunto dal tuo ultimo lavoro I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia, anche il binomio natura/cultura, nel senso di distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, abbisogna di una chiarificazione…

La distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, più che una distinzione è una re-interpretazione o, se vuoi, una correzione. La parola paesaggio richiama etimologicamente la parola paese, dunque consorzio umano, comunità, costruzione socio-culturale. Ritengo più corretta, sia semanticamente che epistemologicamente, la distinzione fra ambiente naturale e paesaggio culturale.

Se il paesaggio è sempre culturale, siamo nello stesso tempo produttori e prodotti del paesaggio. Appare quindi fondamentale saper mettere in campo azioni che mirino a promuovere e sviluppare la sua conoscenza come componente essenziale dell’identità e come riferimento al senso del vivere i luoghi. Che ruolo può avere l’educazione nel sapere interpretare il paesaggio?

L’educazione al paesaggio mi porta a riflettere sul significato etimologico di educazione come operazione maieutica dell’e-ducere, ossia dell’uscire fuori dalla dimensione dell’ovvio (di ciò che ci si para di fronte ob viam senza venir problematizzato), per incontrare la dimensione dell’autentico. Interpretare il paesaggio significa dunque, fenomenologicamente, compiere un’analisi radicale delle ovvietà, per superare gli stereotipi della cosiddetta “fallacia naturalistica”, aporia di cui è imbevuta una certa vulgata ambientalistico-naturalistica (selvatichezza e deserto verde…).

Seguendo questa tua ultima riflessione, aggiungerei che, per intendere in modo corretto il paesaggio, un’analisi radicale delle apparenti ovvietà e degli stereotipi ideologici non può che essere basata su un dialogo costante tra i diversi saperi teorici e pratici. A questo proposito ti pongo la domanda: quale potrebbe essere il ruolo della filosofia all’interno di un approccio interdisciplinare al paesaggio?

L’approccio interdisciplinare al paesaggio è fondamentale e ineludibile, ma è anche impegnativo e contrastato, in quanto incrina rendite di posizione e monopoli accademici iper-settorialistici. La filosofia, in tal senso, dovrebbe riprendere la sua insuperabile funzione di un “sapere dell’Intero”, capace, attraverso una trasversalità rigorosamente epistemologica, di contrastare le derive scientistiche e tecnicistiche che hanno abdicato ad ogni forma di criticità della scienza e della tecnica (sottoporre a critica, dal greco krino κρίνω, giudico). Ogni “dato” è, in ultima analisi, un qualcosa di “preso” attraverso l’atto dell’interpretare e del rappresentare. Compito della filosofia è proprio quello di fornire una cornice ai saperi particolari e di raccordarli nell’ottica di un sapere universale.

Grazie, Annibale, per questo illuminante colloquio sul paesaggio!

 

Umberto Anesi

 

[Photo credit Pixabay]

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Vivere e pensare la montagna. Nietzsche, Segantini e il mezzogiorno sulle Alpi

Agli appassionati della montagna è certamente capitato di camminare solitari a mezzogiorno sotto il sole, quando la luce abbraccia la totalità del paesaggio alpino e i monti segnano il confine tra terra e cielo. È quello il momento più silenzioso del giorno in cui ci si sente sospesi sopra un culmine, come in un sogno a occhi aperti. In questo perfetto equilibrio si possono cogliere movimenti impercettibili di un mondo che solo apparentemente sembra statico: un uccello che sbatte le ali, una lucertola che fugge sotto un sasso.

Quando ci troviamo in quell’istante meridiano tra i monti silenti, possono sorgere pensieri elevati sul senso dell’esistenza e dello stare al mondo. Davanti a un’esperienza così particolare invito gli appassionati di alpinismo a rivedere gli scritti di Friedrich Nietzsche (1844-1900) e le tele di Giovanni Segantini (1858-1899) in cui la montagna gioca un ruolo centrale. Entrambi vagabondi in cerca di una patria elettiva, hanno trascorso lunghi periodi nelle Alpi svizzere, trasformando il paesaggio dell’Engadina in un luogo della mente, fonte di
ispirazioni filosofiche e pittoriche.

In particolare Nietzsche racconta di aver intuito per la prima volta l’eterno ritorno camminando nei boschi di Silvaplana. Il pittore divisionista, invece, nella ricerca della luminosità adatta ai suoi quadri, si era stabilito a Maloja. A distanza di pochi anni e di pochi chilometri, i due autori hanno rappresentato similmente l’esperienza del meriggio in montagna come appare accostando il passo Al meriggio di Così parlò Zarathustra (1885) con la tela Mezzogiorno sulle Alpi (1891) dell’artista trentino. Nell’ora centrale del giorno, quando il sole è allo zenit Zarathustra si stende a riposare nell’erba. La luce assoluta riduce le ombre senza toglierle del tutto, diventando metafora di un passaggio in cui si manifestano la prossimità e la continuità di vita e morte, di veglia e sonno. Quindi per Nietzsche il sole in montagna a mezzogiorno non è immagine dell’essere immobile, eterno e trascendente, ma, al contrario, è un segno discriminante, tra ascesa e declino del giorno, che attesta il divenire. Questa intuizione è evidenziata anche da alcuni movimenti minimi attorno a Zarathustra come il fruscio di una lucertola.

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Mezzogiorno sulle Alpi di Segantini raffigura una pastora in piedi, in equilibrio contro lo sfondo alpino con delle pecore che vagolano attorno. I blu intensi riflettono la purezza dell’aria di montagna, mentre i tratti irregolari di verde fanno percepire la crescita dell’erba; nel cielo si intravedono due uccelli neri. A un primo sguardo, si è tentati di concentrare l’attenzione solo sul volto della ragazza ombreggiato dal cappello, che si volge verso territori inesplorati, mentre lontano compaiono i monti innevati. Segantini sembra porre l’uomo al centro di una natura immobilizzata dalla luminosità cristallina di un caldo mezzogiorno sulle montagne, eppure nella tela ci sono degli elementi che riconducono a una visione del mezzogiorno alpino come un culmine e un passaggio. Gli uccelli in volo richiamano un impercettibile movimento nell’aria e anche le ombre minimizzate dalla luce suggeriscono che l’immobilità del tempo sia solo apparente; infine, la gamba leggermente piegata e il bastone ricurvo della pastora rimandano a un passo successivo oltre la cornice del quadro.

All’interno del paesaggio montano la ragazza e Zarathustra sono protagonisti di una singolare esperienza meridiana dell’eterno divenire delle cose che trova il suo apice quando il sole si trova alla massima altezza sopra le loro teste. Sotto il sole a mezzogiorno sulle Alpi, entrambi vivono un’epifania del mondo come accadimento e dell’esistenza come passaggio da un opposto all’altro. La pastora, accecata dalla luce mentre scruta lontano, e Zarathustra, sdraiato in uno stato tra veglia e sonno, assistono a quella che Nietzsche definisce una “mezza” eternità, sospesi sul culmine di un passaggio in una apparente staticità nell’ora più silenziosa e luminosa del giorno. La sospensione nel quadro di Segantini è testimoniata dalla posa in equilibrio della pastora con la gamba piegata che anticipa il moto successivo, per Zarathustra invece si evince dal dormire con gli occhi aperti in uno stato a metà strada tra sonno e veglia, tra ora mortale e estasi vitale.

Nietzsche e Segantini ci insegnano che la montagna è un luogo fisico e mentale dove poter vivere determinate esperienze che hanno a che fare con il senso dell’esistenza e del mondo. Il mezzogiorno sulle Alpi con il sole a picco rappresenta una di queste esperienze che permette al singolo di cogliere la presenza ineludibile del divenire delle cose e del tempo di fronte alla totalità, apparentemente immobile, di terra e cielo.

 

Umberto Anesi

 

Umberto Anesi, laurea specialistica in Filosofia a Padova e magistrale in Sociologia a Trento, coordina progetti formativi nell’ambito del governo del territorio e del paesaggio. Tra i principali ambiti di ricerca e di interesse il paesaggio come spazio di vita e il senso dell’abitare i luoghi con un approccio multidisciplinare.

[Credits copertina: unsplash.com; credits quadro: Artribune.it]