Tra realtà e fantascienza. Educare il robot: fallo crescere felice senza che uccida nonna

L’Intelligenza Artificiale viene desiderata, ricercata, temuta, analizzata e discussa. La tematica dell’IA è sempre più al centro del dibattito pubblico, ma, un po’ come tutte le cose di questi tempi, viene spesso affrontata in maniera superficiale e spesso condannata a priori. Tanti film di fantascienza ci vedono soccombere dinnanzi alle nostre stesse creazioni in altri l’IA viene esaltata come mezzo salvifico per superare i nostri limiti: è interessante notare che entrambe le posizioni si pongono comunque in maniera acritica rispetto all’argomento e non affrontano fino in fondo i problemi ad essa connessi.

Un robot non è semplicemente un elettrodomestico in senso stretto tipo un tostapane, un robot dotato di intelligenza non sarebbe solo una cosa, sarebbe il simbolo dell’umanità che riesce a porsi dal lato di Dio ergendosi come capace di generare la vita, sia pure cibernetica. In fondo che l’esistenza abbia una matrice organica o artificiale cambia tutto sommato poco, a ben vedere la stessa distinzione netta tra chimica organica e chimica inorganica è una convenzione, delle catene di amminoacidi a base carbonio non sono poi molto diverse da catene a base di silicio, hanno comportamenti in parte differenti, ma non è che le prime abbiano qualcosa di divino e le seconde no.

Per trattare questa tematica dobbiamo rifarci alla machine ethics o alla robothics cioè a dei settori dell’etica applicata che sono impegnati a fornire regole cognitive e comportamentali a organismi artificiali intelligenti, per fare in modo insomma che il vostro tostapane intelligente nel 2145 non decida di tostare anche voi per colazione. Chi ha letto Isaac Asimov (Io, robot, 1950) ricorderà le tre leggi della robotica:

  • un robot non può recar danno a un essere umano né permettere che, a causa di una propria omissione, un essere umano patisca un danno;
  • un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non violino la prima legge;
  • un robot deve proteggere la propria esistenza, purché l’autodifesa non contrasti con la prima e seconda legge.

Queste leggi per quanto preziose sono incomplete, parzialmente rigide, oscure e troppo semplici rispetto ai dilemmi della vita, già messe in discussione dalle contraddizioni dell’impiego di robot a livello contemporaneo, vedasi al riguardo i droni utilizzati in operazioni militari.

Si è quindi tentato di semplificare ulteriormente le leggi di Asimov per ricondurle a un principio fondamentale che risolvesse tutto:

Rispetta l’umanità e non lederla né attivamente né passivamente”. Altri hanno preferito soluzioni casistiche, indicando cioè esempi di comportamento encomiabili da imitare (aiutare la nonna ad attraversare la strada) o disdicevoli, da evitare (rubare la borsetta a nonna e spingerla sotto un camion). I casi servirebbero come paradigmi ideali di comportamento.

La vera difficoltà etica che si pone e che è ben messa in luce nel film Blade Runner (USA 1982, di Ridley Scott) è pensare una società giusta in cui alcuni abitanti vengono progettati, costruiti e diretti quali schiavi al servizio di una classe superiore, cioè gli esseri umani, e qui viene la contraddizione massima: gli umani non sono superiori bensì potenzialmente inferiori alle macchine o fragili almeno tanto quanto loro.

Inutile dire che delle IA asservite agli umani non potranno che provare una sorta di fraternità, le sofferenze per i torti patiti e una imprevista passione per la libertà le indurrebbero a rintracciare il proprio creatore, a metterlo sotto accusa e infine a generare un sentimento di vendetta.

Certo potremmo creare regole come sistemi di controllo delle IA, che ne so, impiantiamo loro bombe che scoppino a un nostro comando, ma intelligenza e procedure violente finiscono per intaccare quello che ci rende forse tutti senzienti, senzienti davvero, la libertà. Senza libertà è impossibile che macchine antropomorfe imparino a sognare, senza sogni non si creano nuove visioni del futuro, non si crea un senso e quindi non vi è ragione di esistere, possiamo già prevedere un mondo in cui le macchine sono dominate da umani progressisti e dispotici che invidiosi della superiorità delle macchine non potranno che plasmare automi per mantenerli incatenati e infantili, rendendoli inutili a se stessi e all’umanità.

Se vuoi far crescere il tuo robot felice ed evitare che uccida nonna la cosa migliore che puoi fare e possiamo fare come umanità sarà insegnargli a sognare.

Matteo Montagner

 

 

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Filosofia: se serve, a cosa serve e altre cavolate

Al mercato delle chiacchiere vendute a metà prezzo, c’è un banchetto più luccicante degli altri, dinnanzi al quale un banditore enumera con entusiasmo la mercanzia esposta e i vantaggi derivanti dall’acquisto. È il banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi”, dov’è possibile comprare il senso di qualsiasi attività abbia un’utilità, dov’è possibile comprendere finalmente che il senso di qualcosa coincide con la sua utilità immediata. Il venditore è sapiente e di recente ha iniziato a vendere anche il senso della filosofia: a che cosa serve la filosofia? Perché mai qualcuno dovrebbe spendere i migliori anni della propria vita a leggere migliaia di pagine da questa gloriosa storia del pensiero?

Per essere felici, ovviamente.

Non si sa bene come – bisogna già essere grati al mercante di chiacchiere per averci concesso di comprare questa venerabile verità – ma ora finalmente sappiamo che lo studio della filosofia serve a essere felici. Finalmente sappiamo che leggere la Repubblica di Platone, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer o la Fondazione della metafisica dei costumi di Kant serve a diventare persone felici, a pescare gli ingredienti necessari per cucinarsi al volo una vita beata: un po’ di atteggiamento socratico, tendenza ascetica q.b., due manciate di cialtronerie sulla legge morale. Condire a piacere con un pizzico di spirito scientifico e una manciata abbondante di onestà intellettuale.

Per verificare questa verità basta fare una passeggiata tra le aule di una qualsiasi facoltà di Filosofia e godere dello spettacolo di dottori e dottorandi, laureati e laureandi beati che contemplano la propria felicità sotto salici abbondanti.

Anche fuori dalle università, è evidente che la felicità sia diventata finalmente a portata di mano: chiunque può comprarsi un libro o un e-book di un qualche filosofo oppure – meglio ancora – di qualcuno che spiega come diventare felici seguendo questo o quel pensiero.

È forse una delle stronzate con più risonanza tra quelle che la folla mastica e si vomita addosso: lo studio della filosofia non rende felici, non rende beati, non rende migliori. Perché non c’è disciplina il cui studio sia sufficiente per essere felici: non esiste una teoria che dia come esito necessario una vita beata.

La verità venduta al banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi” è, a ben vedere, quel che resta dalla ruminazione di una verità più ampia, autentica e, dunque, difficile da digerire per gli stomaci delicati della folla a cui bastano rapide e sommarie indicazioni, che s’accontenta di ordini camuffati da consigli amorevoli.

Per incamminarsi lungo la propria felicità, non si può fare a meno di confrontarsi con le grandi questioni che pungolano l’umanità dall’inizio dei suoi giorni e la storia della filosofia può essere letta come una serie di tentativi più o meno espliciti di farvi i conti. Lo studio onesto della filosofia mette tuttavia dinnanzi alla necessità di trovare la via di mettere coerentemente in pratica ciò che si pensa, si dice, si scrive.

Se serve a qualcosa, la filosofia serve a interrogarsi sulla maniera migliore per fare della propria vita un tutt’uno con noi stessi, per agire secondo quello che la nostra coscienza ha dinnanzi. La radicale utilità del pensiero filosofico risiede nel fatto che informa la mente in maniera tale da non permetterle di accontentarsi di facili risposte, di ricette spacciate con maestria agli angoli delle strade; in maniera da non permetterle di chiudersi alla ricchezza dei fenomeni che appaiono all’umanità, alle sfide che ciascuno di noi ha da vincere contando, in fondo, soltanto su di sé.

Emanuele Lepore

 

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Un occhio triste ed uno felice

Occhi per vedere, occhi per percepire, occhi per controllare.

Questi occhi. Puntano l’uno in una direzione e l’altro nella direzione opposta.

Cosa vedono i miei occhi?

Iniziamo: cosa sto facendo ora? Sono seduta a questo tavolo. Intorno a me la luce del tramonto. Batto le dita, a tempo, sulla tastiera del pc. Sembra una musica, rintocchi di campane sempre uguali eppure le lettere che sto scrivendo e le parole che sto formando sono diverse.
I miei occhi vedono ciò che io sto facendo: i miei movimenti. Gli occhi vedono ciò che gli altri fanno. Cose e persone poste nello spazio. Gli occhi, diceva qualcuno, chiariscono il senso delle cose che sono.

Un albero ha gli occhi?
Perché un albero ha gli occhi?

La natura indefessa, rigogliosamente piena di vita vive.

Cosa vedo io?

Io vedo un albero con gli occhi che piange. L’occhio destro piange. Di fronte a me vedo la montagna bruciare e l’occhio dell’albero piangere.

La natura si esprime. Racconta il dolore che prova a bruciare e la gioia che prova a picco sul mare.

Forse questa è stata l’estate più brutta per la natura, e forse è per questo che vedo un occhio felice ed uno piangere. Forse è per questo che la chioma è fluente comunque, nonostante tutto ed il frutto è una mela a forma di cuore.

I roghi che hanno colpito e purtroppo colpiscono ancora le montagne del Lazio, della Campania e di tutto il sud Italia, sono il simbolo di questa estate rovente. Roghi, roghi ovunque ed opere incessanti di spegnimento. Ecco ciò che vedo: la natura risponde alla tristezza con le mele a forma di cuore, frutto del pezzato dell’uomo che ogni anno si manifesta in una piccola scintilla che incendia tutto, ogni cosa. Ovunque.

E cosa non riesco a vedere?

L’umanità.

***

Quello che avete appena letto è un esercizio su base filosofica. Il disegno ha rappresentato lo stimolo mediante cui ho verbalizzato i miei pensieri. Li ho elencati e li ho elaborati in forma scritta. Ho provato a dare forma e dimensione agli spunti che ho tratto dalla visione del disegno. Il risultato vuole essere un tentativo di calare la riflessione filosofica nel quotidiano, affrontando uno o più temi senza dare una giusta direzione perché il pensiero unidirezionale non è il pensiero personale. Scaricate il disegno e provate a fare l’esercizio! I pensieri in movimento sono l’unica cosa che non possiamo trascurare.

La tavola è di Daniela Lambiase, pedagogista ed illustratrice per popfilosofia.it, con cui ho condiviso la costruzione dell’esercizio.

Anita Santalucia

Brevi storie di comportamenti altri: un ricordo

Le storie che leggerete nelle prossime righe e nei prossimi paragrafi meritano di venir qui raccolte e ricordate affinché non si creda che in una società totalitaria, come quella che si ebbe in Germania negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta del Novecento, l’unico comportamento possibile fosse quello massificante. Un comportamento altro fu talora possibile. E si trattò di un comportamento umano.

Non credo di essermi mai soffermata sull’utilità sociale e politica che delle cartoline, o qualunque altra cosa simile, possano assumere in particolari circostanze storiche. Nella Berlino del 1940, dipinta nel film Alone in Berlin (tratto da una storia vera), delle cartoline riportanti ora il Fürher ora la città divengono lo strumento con il quale è possibile condurre una resistenza silenziosa ma incrollabile. All’indomani dell’occupazione nazista di Parigi, una lettera della Wehrmacht notifica a Otto e Anna Quangel la morte del loro unico figlio sul fronte francese. Munito di guanti per non lasciare traccia, Otto decide di scrivere dei messaggi contro il regime nazista sul retro di svariate cartoline, depositandole in luoghi strategici della città con la speranza di ridestare quella capacità di pensare criticamente che i suoi concittadini sembravano avere ormai perduto. Delle duecentoottantacinque cartoline scritte, diciotto non verranno mai consegnate all’ispettore della Gestapo Escherich; un dato tutt’altro che insignificante. Nonostante lo spettatore venga messo a conoscenza di tale dato solo nelle battute finali del film, esso è il cuore stesso dell’intera storia. Diciotto persone dimostrarono che la loro umanità non era stata schiacciata dal peso della macchina totalitaria, così impegnata a massificare e atomizzare l’essere umano.

Vorremmo leggere di più di questi “qualcuno” che si comportarono in maniera così banale, così disarmante, in un universo in cui la banalità poteva diventare ciò che propriamente è umano. La storia di Otto e Anna, per quanto rara, non è la sola ad esserci stata tramandata, seppur con tono sommesso e scarso pubblico.

Ne è un esempio la storia di Anton Schmidt, sergente della Wehrmacht, il quale comandava in Polonia una pattuglia che si occupava dei soldati tedeschi staccati dalle loro unità di appartenenza. Costui, la cui figura nel dopoguerra venne citata in molti documenti in lingua yiddish, si imbatté in partigiani ebrei cui fornì documenti falsi e camion militari senza alcuna richiesta di denaro in cambio. Ai tempi si parlò anche di un artigiano che preferì lasciar distruggere la sua attività indipendente e impiegarsi in una fabbrica come operaio piuttosto che iscriversi al partito nazista. Senza contare chi preferì rinunciare alla carriera accademica piuttosto che prestare giuramento a Hitler, o i molti operai, soprattutto berlinesi, e alcuni intellettuali socialisti, che aiutarono come poterono i loro conoscenti ebrei. Poi ci furono due ragazzi, figli di contadini, arruolati a forza nelle SS alla fine della guerra che si rifiutarono di firmare; furono condannati a morte e in un’ultima lettera ai genitori confessarono di preferire questo amaro destino piuttosto che partecipare alle azioni delle SS, ormai ben note.

Molto più conosciuta è la storia degli Scholl, Hans e Sophie, due studenti dell’Università di Monaco che, ispirati dal loro insegnante Kurt Huber, distribuirono dei manifesti in cui Hitler veniva definito un assassino di massa. Essi facevano parte di un gruppo, denominato La Rosa Bianca, che operò dal giugno 1942 al febbraio 1943, opponendosi in modo non violento alla Germania nazista. Del gruppo facevano parte anche Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. Scrissero sei opuscoli prima di venire arrestati, all’interno dei quali si rivolgevano all’intelligentia tedesca, sperando di farle aprire gli occhi sugli orrori perpetrati dai nazisti ed esprimendo il loro desiderio di un’Europa a regime federalista improntata a valori cristiani di giustizia e tolleranza.

Sul piano pratico le azioni e le resistenze di queste persone non ebbero alcun valore. Non poterono niente, ma dimostrarono di aver sempre saputo distinguere il bene dal male. Un pensiero inquietante invade la mente e si fa strada l’impraticabile idea del cosa sarebbe successo, dell’aspetto che la Germania avrebbe assunto, se ci fossero state più persone simili a queste e più storie da raccontare. Ma la macchina totalitaria è progettata per colmare quello che è il suo tallone d’Achille, la più vera natura umana, o almeno per escogitare raffinate strategie con cui indebolirlo e affamarlo. Di una di queste ci dà ragione un medico della Wehrmacht, Peter Bamm. Assistette senza far nulla insieme ad altri commilitoni all’omicidio di un gruppo di ebrei di Sebastopoli nei locali contigui a quelli in cui costoro vennero prelevati e collocati a forza sui furgoni a gas. Riferisce che chiunque si fosse opposto agli Einsatzgrouppen, ovvero alle unità addette allo sterminio nell’Europa dell’Est, sarebbe scomparso in poche ore senza alcuna traccia. Un regime totalitario, se ben costruito, è consapevole di dover togliere agli esseri umani la possibilità di una morte degna, eroica e tragica1. Ogni tipo di oppositore scompare nel nulla, la sua figura cade in un limbo da cui non c’è memoria o redenzione. La macchina totalitaria priva l’atto della morte della possibilità di acquisire un carattere grandioso e tragico rendendola un gesto privo di senso, impraticabile perché inutile.

Eppure, come potrebbe essere insignificante un gesto ispirato e profondamente mosso dalla propria capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male e dal rifiuto di venir schiacciati e resi pallide ombre di se stessi. Dalla confessione di Bamm emerge un senso di facile resa, che nasconde la vuotezza di quella maggioranza di tedeschi che si sottomise. Ma alcuni no, non lo fecero. A loro vanno queste parole colme di gratitudine:

«È vero che il regime hitleriano cercava di creare vuoti di oblio ove scomparisse ogni differenza tra il bene e il male, ma come i febbrili tentativi compiuti dai nazisti dal giugno 1942 in poi per cancellare ogni traccia dei massacri […] furono condannati al fallimento, così anche tutti i loro sforzi di far scomparire gli oppositori “di nascosto, nell’anonimo”, furono vani. I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano; qualcuno resterà sempre in vita per raccontare». 

E perciò nulla può mai essere “praticamente inutile”, almeno non a lunga scadenza2.

Sonia Cominassi

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013, p. 239.
2. Ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Questione di occhi e di me e di te

  • Vuoi essere me? Io sono te, e tu sei me. Ci stai?
  • Non siamo vestite uguali: non siamo la stessa persona?
  • I miei occhi, forse, sono i tuoi.
  • Io non ho occhi. Occhi che dicano: piacere, io sono…

Siamo così differenti gli uni dagli altri che comprendere fino in fondo cosa sia l’altro, è una sfida.

Fino a che punto possiamo dirci uguale ad un altro? L’uguaglianza e la similarità sono due concetti così lontani?

No, gli occhi sono lo specchio dell’anima. E se ciò è vero, perché chi ha gli occhi ha una nuvola dietro ed, invece, dietro a chi non ha gli occhi, vedo un sole?

Chi ha gli occhi non è detto che sia felice.

COSA SIGNIFICA ESSERE ME?

La tavola di oggi è estremamente interessante. Potrebbe parlare di presentificazione, annullamento, vita interiore, vita trasparente. Un elemento in comune sono gli occhi. Il gioco di decidere chi voler essere è curioso: io vedo (con gli occhi) le differenze tra le due figure, le somiglianze, le espressioni, ciò che vuole raccontare. Immagino mondi e cose tramite gli occhi. Questi sono meravigliosi. La letteratura del Duecento e del Trecento si è focalizzata proprio sugli occhi come specchio di chi siamo. Occhi dell’amore, occhi attraverso i quali si vedeva Amore. Occhi come specchio.

ED OCCHI CHI SI GUARDA NEGLI OCCHI?

Riconoscere l’altro come se stesso è uno sforzo che l’intera umanità dovrebbe fare, ma è uno sforzo che l’uomo non riesce sempre a fare dato che tutto ciò implica uno sforzo, appunto, che non sempre si riesce a sopportare. Questo è Derrida. Parafrasato, semplificato ma è Derrida. Guardare negli occhi qualcuno e dire: eccomi! Dietro a tutto questo vi è quel concetto di presentificazione che è molto interessante. rendersi visibili all’altro è scoprire ciò che siamo noi e ciò che noi siamo per l’altro.

Eppure siamo diversi.

Quanto la diversità conti in questo genere di cose è fondamentale. Si è l’altro perché si è soprattutto se stessi con le proprie turbolenze che raccontano come, tutto sommato, quegli occhi fissi, quelle guance colorite e quelle labbra sorridenti, possono anche non dire sole, gioia, luce.

***

Quello che avete appena letto è un esercizio su base filosofica. Il disegno ha rappresentato lo stimolo mediante cui ho verbalizzato i miei pensieri. Li ho elencati e li ho elaborati in forma scritta. Ho provato a dare forma e dimensione agli spunti che ho tratto dalla visione del disegno. Il risultato vuole essere un tentativo di calare la riflessione filosofica nel quotidiano, affrontando uno o più temi senza dare una giusta direzione perché il pensiero unidirezionale non è il pensiero personale. Scaricate il disegno e provate a fare l’esercizio! I pensieri in movimento sono l’unica cosa che non possiamo trascurare.

La tavola è di Daniela Lambiase, pedagogista ed illustratrice per popfilosofia.it, con cui ho condiviso la costruzione dell’esercizio.

Anita Santalucia

 

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Empatia, un trampolino dall’io al tu

La filosofia ha come tratto peculiare che la distingue da tutte le altre scienze l’analisi di fenomeni solitamente considerati ovvi e scontati. Una di queste ovvietà, che sotto la lente filosofica non risulta ovvia per nulla, è il meccanismo dell’empatia. Edith Stein, fenomenologa e santa, nella sua tesi dedicata appunto al problema dell’empatia introduce il problema immaginandosi che: «Un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore», per poi chiedersi «che cos’è questo rendersi conto?». Certo la situazione qui descritta è familiare a tutti, nella sua semplicità il movimento empatico è fondamentale nel costruirsi delle relazioni umane, al punto che l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di interpretare le curve di una bocca e l’aggrottarsi di alcune rughe del viso, può essere indizio di disturbi psicologici.

La dinamica empatica potrebbe essere descritta come un uscire da sé per farsi momentaneamente altro e infine ritornare in sé. L’io trova in un elemento del viso dell’altro un trampolino per lanciarsi nella soggettività altrui, interpretando il suo mondo interiore mentre si immedesima. In quanto richiede una certa dose di interpretazione o riempimento di senso, l’empatia è sottoposta alla possibilità dell’errore. Gli errori di questo genere sono fonte di malintesi e incomprensioni, ciò avviene ad esempio quando l’io torna ad imporsi sull’altro proiettando su di esso il proprio stato d’animo. Come quando all’io innamorato il mondo sembra un posto migliore, al contrario se triste, tutto pare congiurare contro la sua speranza di momenti più felici.

Questa situazione ci porta a toccare un elemento centrale del rapporto empatico: l’io deve dislocare il proprio punto di vista per poter aderire all’altro, deve cioè abdicare la propria sovranità per poter essere veramente presso l’altro. Diventando marginale a sé, l’io non accede però al puro vissuto altrui – questo rimane sempre misterioso e inaccessibile – viene a trovarsi invece in una zona grigia, sospeso tra l’io e il tu. Quando ad esempio osserviamo un acrobata rischiare la vita camminando su un filo sospeso in aria, l’empatia ci permette di provare uno spettro di emozioni legate a ciò che vediamo proprio in quanto il nostro punto di vista si è spostato dal suo centro abituale in direzione dell’acrobata. Diventandosi anche per un breve attimo estraneo l’io marginalizza, relativizza le emozioni che accompagnano normalmente il flusso dei suoi vissuti, consentendo una breve parentesi dal rapporto solitamente ermetico dell’io con sé stesso.

Il movimento descritto a partire dall’esempio dell’acrobata sembra essere il nucleo che permette a tutte le situazioni spettacolari di funzionare, persino quando la risoluzione è garantita come nel caso di un film già visto o un libro già letto. L’intrattenimento, il divertissement che richiede l’empatia, è in questo senso un esercizio salubre per l’individuo.

L’empatia quindi è da considerare una di quelle forze umanizzatrici che vanno esercitate, preservate, favorite, per impedire come è successo e come può sempre succedere che l’individuo – per utilizzare le parole di Levinas – rimanga inchiodato a sé stesso.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

Salviamo la soldatessa Speranza

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Durante alcune lezioni il professor Umberto Galimberti in antitesi alla figura cristiana della speranza era solito sbottare dicendo «La Speranza è l’ultima figura dell’impotenza cristiana».

Da vero giovane nietzschiano, studente di Filosofia seduto sui banchi di qualche aula di San Sebastiano esultavo per queste bordate tirate a fondo campo in delle uggiose giornate di autunno fatte di alta marea e piogge battenti.

Del resto non serve scomodare il professor Galimberti per dire quanto la “Speranza” come figura sia del tutto svalutata anche nella cultura popolare: famoso è per esempio il detto “Chi di speranza vive disperato muore”. È questa un’immagine abbastanza grottesca che rimanda a tutte le speranze umane che inevitabilmente deflagrano di fronte all’implosione di ogni senso data dalla morte come ben descritto da Heidegger e dagli Esistenzialisti francesi, l’idea in questo caso turpe che la speranza che ha attraversato i nostri corpi mentre aspettavamo Babbo Natale e i regali sotto l’albero, la Felicità, il Futuro, finiscano inevitabilmente nella liberazione del post mortem. La Speranza viene usata come immagine di un mondo che non appartiene a nessuno, un mondo senza litigi. Dove è viva la luce è anche viva l’oscurità, nello stesso luogo dove esultano i vincitori si disperano anche i vinti, il desiderio egoista di mantenere la pace genera la guerra. L’odio nasce per proteggere l’amore. Tutto questo sorgerebbe da un unico male, morbo, chiamatelo come vi pare anche noto come “Speranza”, l’idea di far saltare in aria il Soldato o la Soldatessa Speranza nasce dall’idea di creare un mondo di soli vincitori, un mondo di sola pace, un mondo di solo amore, cose che possono sembrare puramente utopiche, ma che vengono portate avanti da anni da studiosi illustri come il Professor Vero Tarca sui banchi di Filosofia Teoretica, un sogno perfetto per tutta l’Eternità.

È un bellissimo ragionamento, peccato che la speranza − anzi, dobbiamo chiamare col suo nome la nostra Soldatessa − non nasce nell’alveo della cultura cristiana. Diamole un nome, il suo nome è Elpìs. Nell’opera del poeta greco Esiodo Le opere e i giorni essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora (letteralmente “tutti i doni”), donna creata da Efesto. Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità fu più forte e la donna aprì il vaso facendo così uscire tutti i mali; soltanto Elpìs rimase dentro perché Pandora riuscì a richiudere il vaso. Solo un dono non riuscì ad uscire dal vaso: la speranza.

Nella mitologia romana l’equivalente di Elpìs è la Spes.

«Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell’orcio
per volere di Zeus e gioco che aduna le nubi».

Esiodo non ha mai spiegato il motivo per il quale Elpìs è l’unico dono a rimanere all’interno del vaso di Pandora, ma è davvero interessante come sia proprio Elpìs a rimanere all’interno del vaso, come qualcosa che resta in qualche modo celato e nel contempo ancora inattuato, l’unica cosa che resta in possesso di Pandora che in questo caso simboleggia l’intera umanità.

Elpìs andrebbe recuperata perché in essa alberga l’ottimismo dell’umanità, il suo continuo tentativo di superare i propri limiti cercando di proiettare e tramandare la propria voce al di là dell’ovatta del tempo, provando a spezzare la dimensione entropica dell’universo gettandoci, anche laicamente, oltre il concetto di limite che come ben ci ricorda Heidegger è la morte, l’orizzonte della nostra esistenza.

La Speranza è un concetto che si tramanda ed è un dono che spezza l’illusione di vivere consegnandoci una vita più autentica nella convinzione che il domani sarà migliore dell’oggi, è il motore della Storia collettiva dell’umanità che se non se ne fa carico finisce per negare se stessa. Il Nichilismo ci consegna un mondo che in fondo è destinato al nulla, ci sottolinea che la morte finisce per essere l’implosione di ogni senso e pretende di sollevare il velo di illusioni che abbiamo costruito per continuare a vivere, ma dimentica che l’umanità è anche segnata dall’incedere del progresso, del tentativo di superare i propri limiti e che la vita spesso è un viaggio che possiamo accettare di percorrere sentendoci sconfitti ancora prima di partire o invece provando ad accettarne le difficoltà, le strade che si interrompono, gli ostacoli, ma anche vedendone la bellezza, la gioia e sostenendo che essa resta comunque un’opportunità sempre aperta al nostro miglioramento e alla nostra crescita individuale e come specie.

Come scrive Bloch:

«L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono».

Anche quando perdiamo la fiducia e la voglia di vivere, le difficoltà ci appaiono come insormontabili e il dolore troppo per continuare nel nostro cammino è importante sapere che dentro ognuno di noi come nello scrigno di Pandora la Soldatessa Speranza continua a combattere per noi, continua a sussurrarci che possiamo farcela, essa non può agire attivamente e sta a noi riscoprirla e in qualche modo “salvarla”, conservarla e quando è giunto il nostro tempo consegnarla a chi verrà dopo perché solo in questa condizione si cela il più intimo segreto per una vita più autentica e per la realizzazione di un mondo migliore.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”

Ecco quella che forse è la citazione più conosciuta dell’opera teatrale di Bertolt Brecht Vita di Galileo. Quando ho letto per la prima volta questa pièce pensavo significasse che una terra è sventurata e che pertanto avesse bisogno di un eroe in grado salvarla. Altrimenti, colpita dalla cattiva sorte, come avrebbe potuto risollevarsi da sé?Recentemente però mi è capitato di rileggere questo libro e mi sono resa conto che la citazione – che mi ha sempre colpita in modo particolare – aveva assunto un significato ben diverso.

Mi sono chiesta infatti perché dovesse essere sventurata una terra che ha bisogno di degli eroi ed ho pensato al fatto che aver bisogno di eroi significa ricercare un Altro che possa sciogliere una situazione per noi. In questo fatidico Altro ci troviamo a riversare una serie di caratteristiche positive che lo rendono in grado di ergersi al di sopra delle difficoltà.
In altre parole se attendiamo la venuta di un eroe, stiamo aspettando un deus ex machina che si cali in una situazione e la riesca ad ordinare. Un po’ come quando Gotham City in preda alle rapine o al Joker invoca Batman affinché possa ristabilire l’ordine.
Riconoscendo di non essere in grado di salvarsi da sola decide di abbandonarsi totalmente ad esso.

Non avrebbe nemmeno senso per un cittadino qualunque provare ad avanzare una soluzione; comparandosi infatti all’eroe di turno si renderebbe conto di essere imperfetto e limitato sia nelle risorse che fisicamente. Come può anche solo pensare dunque di essere in grado di proporre una soluzione efficacie al problema? Di certo risulterà fallace, momentanea e forse potrà persino fallire.

In una situazione del genere si crea anche una sorta di dipendenza. Consideriamo sempre l’esempio di Batman: dopo momenti di relativa tranquillità sopraggiunge una crisi che le istituzioni esistenti non sono in grado di affrontare. A questo punto piomba il panico, nessuno sembra sapere come comportarsi o come reagire, e la cosa veramente interessante è che non bisogna saperlo fare dal momento in cui si è certi arriverà un terzo a ristabilire l’ordine. La cosa più razionale da fare a questo punto, si rivela gettare la spugna e smettere di lottare.

È a questo punto che appare lampante il perché non bisogna voler costruire degli eroi. In questo modo il singolo si trova ad annullarsi, smette di considerarsi un soggetto attivo ed in grado di elaborare delle soluzioni; si sente abbandonato a se stesso e si lascia andare alla deriva, attendendo qualcuno che lo riporti sulla retta via.

Sperare in una nuova figura politica che riesca a portare dei cambiamenti radicali oppure attendere una svolta nella nostra vita sono atteggiamenti diffusi, assimilabili all’attesa della venuta millenaristica di un eroe. Questi però alienano il singolo e lo spogliano dalla sua capacità creativa di trovare nuove soluzioni e di analizzare le situazioni, rendendolo costantemente dipendente da terzi. A questo punto − riprendendo Albert Camus quando nel suo saggio L’uomo in rivolta scriveva: «La vera passione del ventesimo secolo è la servitù» − è opportuno chiederci se siamo sicuri di volere sia anche quella del nostro secolo.

Lisa Bin

Lisa Bin, 1996. Studentessa presso l’Università di Trieste iscritta al secondo anno di Storia e Filosofia. Ama il judo e lo pratica da una vita. Tra le sue passioni c’è sicuramente la lettura, anche se la sua passione più grande al momento è la filosofia.

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Vita e Morale: una dura scelta

Recentemente mi è capitato di leggere un’ intervista di Shady Hamadi per il Fatto Quotidiano, realizzata intervistando Mazen AlHummada, ingegnere petrolifero che lavorava per una compagnia d’estrazione francese che aveva appalti a Dar Al Zour, in Siria. Nel suo triste resoconto ci racconta di essere stato arrestato due volte a causa di una manifestazione nel 2011: «In entrambe le occasioni, la prigione è stata una passeggiata: solo calci e bastonate», spiega, «per uscirne in piedi bastava la promessa all’ufficiale di non “prendere più parte alle manifestazioni dei terroristi”, così ci chiamavano le autorità». E precisa: «Noi volevamo, allora come oggi, un Paese per tutti i siriani».
Ciò che lascia senza parole sono i fatti successivi: venuto a conoscenza di un suo imminente arresto si trasferisce a Damasco. Qui si dà da fare per procurare aiuti umanitari per la popolazione e nel 2013, quando aiuta una dottoressa dei sobborghi a trovare del latte in polvere di cui aveva bisogno, viene arrestato. Senza sapere le accuse del suo arresto, per settimane condivide una cella di 12 metri per 7 con altre 170 persone fino a che non viene condotto davanti ad un ufficiale che gli intima di confessare i suoi crimini: traffico d’armi, lotta armata e terrorismo, tutti puniti con la morte.
I resoconti della sua prigionia sonno terribili: appeso a 40 centimetri da terra sotto il sole cocente per ore mentre veniva bastonato con ferri arroventati; un minuto di tempo per andare in bagno ogni 12 ore (pena la morte), per raggiungerlo dovevano attraversare due ali di guardie che picchiavano i detenuti; racconta che la tortura peggiore è stata quando «mi hanno stretto i genitali e mi hanno sodomizzato con una staffa di ferro». E ancora: «morivano almeno due persone al giorno dall’asfissia e le condizioni igieniche nella cella. A turno, dovevo tirare fuori i corpi e gettarli nell’angolo della spazzatura».
Infine, quando non riesce a mettersi sull’attenti in segno di rispetto durante una visita del capo del carcere alle celle a causa delle botte ricevute, viene trasferito nell’ospedale militare di Damasco, sezione 601, dove prenderà il nome di “numero 1858”. Un luogo in cui i prigionieri erano a disposizione di medici ed infermieri per vari tipi di iniezioni. Qui i carcerieri lo obbligarono a urinare sui cadaveri ammassati in bagno.

La prima reazione che ho avuto è stata quella di pensare: “siamo nel 2017 e ancora capitano queste cose, com’è possibile?”.
Poi mi sono reso conto di come il mio interrogativo non potesse essere posto in maniera più errata: ogni volta che pensiamo: “siamo nell’anno xxxx e…” pecchiamo di superficialità per almeno due volte. La prima, forse meno grave, è quella di preservare il gesto estraniandolo dal tempo e quindi in qualche modo − e forse paradossalmente − attenuando i fatti invece di conferire loro più gravità. La seconda, ben più pervasiva e incidente nella nostra vita, è quella di non solo dare per scontato che ci sia un progresso nella storia dell’uomo, ma che questo progresso coinvolga anche la nostra morale, la nostra etica. Come a dire che gli uomini contemporanei hanno più elementi morali a loro disposizione per capire non solo che questi fatti non dovrebbero accadere, ma che il motivo è che essi siano sbagliati.
Ma chi l’ha detto? Ogni volta che pensiamo che con lo scorrere degli anni gli uomini non solo possano ma addirittura debbano evolversi moralmente − a mio modo di vedere − commettiamo una grandissima violenza nei confronti della nostra umanità. Ed è questa una delle cause per cui, ad esempio, abbiamo dovuto aspettare fino al 5 settembre 1981 per vedere finalmente abrogate le disposizioni in merito al delitto d’onore in Italia.
Ogni volta che affermiamo “i tempi non erano ancora maturi” apriamo uno spiraglio alla possibilità che per ottenere dei diritti ci siano un tempo ed un luogo adatti. Adatti! Come un clima per una specie di animale o un colore per un mobile. Ogni tempo è adatto! E questo perché esso non esiste, almeno non nella misura in cui scandisca una fantomatica evoluzione, un dispiegarsi di possibilità che forse, magari, chissà io e te non siamo poi così diversi.
Umani, troppo poco umani, per scherzare con Nietzsche.

Andiamo ancora più in profondità: è così necessaria una morale? A guardar bene, quanto detto fin qui non fa altro che presupporre ciò che cerca di negare, perché è ancora inserito in un contesto morale. Riproduce la superficialità capovolgendola.
Detto in altri termini: necessito di una categoria in cui inserire questi fatti per non doverli compiere? Sono cioè obbligato a pensare che essi siano sbagliati per discostarmi da essi? (e viceversa, dovrò compiere solo azioni giuste perché sono tali?) E poi: giuste e sbagliate per chi? Per me? Per gli altri?
Riprendiamo Nietzsche: egli ci conduce attraverso un’analisi genealogica della morale e ne individua la natura psicologica e la genesi storica, che conducono ad una sua considerazione come evidente di per sé nella storia dell’uomo. Sono i valori etici e le motivazioni umane, troppo umane, a creare una morale che non è altro che uno strumento di dominio. Affidarsi alla morale significa negare la nostra capacità di saper scegliere sulla base dell’accettazione della vita. Sapendo che, comunque vada, panta rei.

Massimiliano Mattiuzzo

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