Primo Levi, I sommersi e i salvati

Primo Levi ha più volte raccontato i termini della sua storia di scrittore: un giovane ebreo torinese laureato in chimica, «ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza», che coltiva «un moderato e astratto senso di ribellione», partecipa brevemente alla Resistenza, catturato dai fascisti viene deportato a Auschwitz nel febbraio del 1944. Quando viene liberato, un anno dopo, il bisogno di raccontare questa esperienza, di dare a essa un senso attraverso le parole, lo porta a scrivere Se questo è un uomo (1947); continua poi a praticare la letteratura come un «secondo mestiere», ogni fine settimana, mentre lavora come direttore generale in un’azienda di vernici e smalti. Nascono così opere narrative come La tregua (1963) o i racconti de Il sistema periodico (1975).

Nel 1986, un anno prima della improvvisa e drammatica scomparsa (forse un suicidio, ma molti sostengano che potrebbe essersi trattato di un incidente), Levi torna un’ultima volta all’esperienza originaria con I sommersi e i salvati. Stavolta, a decenni di distanza dai fatti, li riassume in un’opera estrema: il risultato di una lunga distillazione dei ricordi che hanno sempre ingombrato la sua esistenza.

COPERTINAUn saggio denso, ricco di riflessioni che – spesso prendendo spunto da episodi narrati in altre opere o inediti – approfondiscono e sviluppano gli argomenti dei vari capitoli. In che modo un ricordo come quello del Lager viene elaborato – ma anche conservato e a volte rimosso – da chi lo ha vissuto ma anche da tutta la collettività umana? Per quale motivo essere stati costretti a una vita degradata, calcolatamente disumana, spinge i sopravvissuti a provare una sorta di vergogna della propria esperienza? Come si possono valutare le responsabilità della persecuzione, e quale è stato il ruolo della “zona grigia”, di quelle persone che a vario titolo assecondavano i nazisti nello sterminio? Perché contro i deportati ormai destinati alla morte si usavano violenze del tutto inutili?

Soprattutto, il tema centrale, che dà il titolo al libro e già veniva formulato in Se questo è un uomo è il seguente: se la logica del Lager era la distruzione, solo chi è perito – i sommersi – può dire di aver vissuto realmente, fino in fondo, questa esperienza; ma solo chi si è salvato è in grado di parlare e di riferirne. Un paradosso dolorosamente presente all’autore, che non manca di mettere in guardia il lettore: «Questo libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro sé stesso».

Per ogni tema, per ogni riflessione, l’autore trova formulazioni pacate, di limpida chiarezza, secondo i percorsi di una mente abituata al procedimento scientifico. E queste formulazioni, il risultato finale di una meditazione dolorosa e necessaria, sono severe, solide:

«Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio: e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità».

Questo libro è per il lettore un’esperienza forte, l’incontro con una voce segnata dall’orrore ma che si sforza, con tutti i suoi mezzi, di cercare un senso, di salvare le ragioni dell’umanità. E per raggiungere questo risultato si serve di linguaggio di tono medio, che rifiuta tutte le lusinghe della retorica e fa di tutto per rendersi trasparente: le parole sono solo un mezzo, al centro sta un’esperienza tragica con tutte le sue conseguenze, che va resa nel migliore dei modi. E proprio questo controllo dà al linguaggio di Primo Levi la sua forza espressiva: la concentrazione sulle cose, su ciò che deve essere detto, è fonte di ordine e chiarezza, motivi ispiratori di una vita e di una scrittura.

Un libro che va al di là della letteratura, un monito al lettore perché la sua attenzione sia sempre vigile:

«Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio che dimentichiamo la nostra fragilità esistenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno».

 

Giuliano Galletti

BIBLIOGRAFIA
P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2014.

[immagini tratte da http://www.mondi.it/almanacco/voce/49010  Per la copertina del libro: http://www.temperamente.it/recensioni-3/classici/i-sommersi-i-salvati-levi/]

la chiave di sophia 2022

I limiti etici della biomedicina: dal transumanesimo a Elon Musk

Le nuove frontiere biomediche pongono oggi dei quesiti etici piuttosto importanti: fino a dove si può  spingere il progresso scientifico? Ci sono dei limiti? L’etica che ruolo gioca in tutto ciò? Simili interrogativi sorgono spontanei quando si sente parlare di uomini cyborg come Neil Harbissom, l’artista inglese con l’acromatopsia, ovvero l’incapacità di distinguere i colori, che fattosi impiantare un’antenna nella testa è in grado di trasformare le onde dei colori in onde sonore. L’antenna inoltre, l’eyeborg, si può connettere ad internet attingendo alle informazioni della rete direttamente dal  cervello. 

Tecnologie del genere sono fortemente perseguite e finanziate dal transumanesimo e dal post umanesimo, filosofie per le quali non bisogna porre alcun limite etico-morale all’avanzamento tecnologico e scientifico finalizzato alla nascita del post-umano. 

Ma quali sono i loro principi? I transumanisti, come i famosi Nick Bostrom e David Pearce, hanno stilato una dichiarazione in cui sono scritti i principi di questo movimento di cui è utile riportare il primo punto: 

L’umanità sarà radicalmente trasformata dalla tecnologia del futuro. Si prevede la possibilità di riprogettare la condizione umana in modo di evitare l’inevitabilità del processo di invecchiamento, le limitazioni dell’intelletto umano (e artificiale), un profilo psicologico dettato dalle circostanze piuttosto che dalla volontà individuale, la nostra prigionia sul pianeta terra e la sofferenza in generale1. 

Molti esponenti del transumanesimo sono i veri Re Mida del nostro pianeta, facenti parte della Silicon Valley, la maggior parte abitano la Baia di San Francisco. Personalità del calibro di Elon Musk, ceo di Tesla, azienda specializzata nella produzione di auto elettriche e pannelli fotovoltaici, e Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, finanziano progetti i cui obiettivi sono citati nel primo principio transumanista. Un esempio è costituito da Neuralink: un’azienda fondata da Musk che ha aperto alla possibilità di impiantare un chip nel cervello per migliorare le prestazioni cognitive immagazzinando un numero maggiore di dati a livello mnemonico. 

Per contrastare l’invecchiamento invece Google nel 2013 ha istituito Calico, che si occupa di ricerca nel campo delle biotecnologie e in particolare dello studio del DNA. O ancora, come non citare la Mind up loading, processo che permetterebbe di “copiare” il nostro sistema cerebrale e “caricarlo” in un supporto artificiale come un computer o un robot, raggiungendo così l’immortalità. Oggi queste ricerche vanno a vantaggio dei malati, come il chip di Neuralink che verrà impiegato in  persone con il Parkinson, l’epilessia e problemi neurologici. Lo spinoso problema etico è dato dalle finalità esplicitamente potenziative di questi studi e atte al superamento addirittura della morte; la malattia è semplicemente un mezzo, quindi, e non il fine della ricerca scientifica in ambito medico come conferma l’ultimo punto della dichiarazione transumanista a cui si ispirano queste aziende: “Il  Transumanesimo è fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti2

La preoccupazione dunque non riguarda tanto le tecnologie che possono certamente condurre a un miglioramento della vita umana, quanto piuttosto alla diffusione di un’ideologia che successivamente può radicarsi in cultura, di un superamento a qualsiasi costo di quel limite che contribuisce a rendere umana la persona. Da un punto di vista filosofico, nel tentativo di andare oltre l’uomo si sta procedendo verso la sua disumanizzazione, intendendo questo termine con il suo significato etimologico “dis-umanizzare” cioè togliere all’humanum ciò che gli è proprio, quel limite fisico e  psicologico facente parte della struttura ontologica dell’humanum stesso. A ciò va aggiunto, analizzando oggi la società, che la spiritualità, facente parte anch’essa dell’humanum, sta scomparendo sia perché si sta imponendo una weltanschaung (determinata visione filosofica del mondo e dell’uomo) a-spirituale a favore di una concezione del mondo meramente materialistica sia perché quella capacità dell’uomo di percepire il Trascendentale si sta dissolvendo piuttosto velocemente. Le cause sono molteplici, sono emerse infatti nella contemporaneità delle correnti di  pensiero parallele che convergendo hanno contribuito a una simile decadenza: la crisi di identità  del soggetto, il relativismo che ha portato alla perdita della ricerca dell’Assoluto e infine la percezione  dell’uomo, la creatura per eccellenza, nel sentirsi Dio. Si è manifestato pertanto un clima di antiumanesimo che trova terreno fertile nel trans-umanesimo e nel post-umanesimo. Risultano interessanti dunque le parole di Papa Francesco nel Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita: “La correlazione e l’integrazione fra la vita vivente e la vita vissuta non possono essere rimosse a vantaggio di un semplice calcolo ideologico delle prestazioni funzionali e dei costi  sostenibili.”

 

Veronica Zanini

 

Sono Veronica Zanini, laureata in Scienze Religiose con indirizzo specialistico in bioetica. Lavoro come insegnante di religione alla scuola primaria dell’istituto D. Manin di Ca’Savio e collaboro come guida all’isola di San Lazzaro degli Armeni (VE).
Dallo scorso anno sono vicepresidente dell’associazione culturale Gremio di Bioetica.
Scrivo per diversi giornali e siti  come per la rubrica “Lo splendore della vita” del settimanale Gente Veneta, per la rivista dell’associazione ProVita&Famiglia, mensilmente pubblico per nanoda.com e in passato per Orwell.live; l’ultimo articolo è stato pubblicato per solotablet.it.
Negli anni ho tenuto diverse conferenze sul transumanesimo e il postumanesimo di cui una dal titolo “Ho visto cose che voi umani..”potenziamento dell’uomo, eugenetica e trans umanesimo recensita da Avvenire.

 

NOTE:
1. Principi Transumanisti in http://www.transumanisti.it/
2. Ibid.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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L’intelligenza è un obbligo morale

«Sembriamo essere lontanissimi dal renderci conto che un’azione può essere chiamata buona, in maniera intelligente, solo se contribuisce a un buon fine; che è obbligo morale […] scoprire […] se una data azione conduca a un fine positivo o negativo»

J. Erskine, L’obbligo morale di essere intelligenti, 2015.

Non solo coraggio, umiltà, altruismo, tenacia e bontà. L’ecosistema di ideali in cui l’uomo vive – e a cui può attingere – è molto più ampio. Un esempio? Pensiamo all’intelligenza. Ovvero a ciò che ci permette «di entrare in empatia con altri tempi, altri luoghi, altre tradizioni…» (ivi), che può trasformare la paura in possibilità. Quell’intelligenza che Platone identificava con la virtù opposta al peccato, cioè all’ignoranza. Che Einstein definiva come capacità di cambiare, di virare rotta, quando necessario. Quella stessa intelligenza che per John Erskine deve diventare un obbligo morale.

«Se non impicchiamo più i ladri o non frustiamo più gli studenti, non è perché consideriamo con meno asprezza il furto o la pigrizia, ma perché l’intelligenza ha trovato metodi migliori per indirizzare verso onestà e intraprendenza» (ivi).

L’obbligo morale di essere intelligenti è un pamphlet pubblicato nel 1915. Uno scritto che scatena una potente eco nel dibattito culturale americano della prima metà del Novecento. Erskine (1879-1951), professore di letteratura inglese alla Columbia University, circa cento anni fa racconta qui una breve storia di questa «virtù» tra paradossi, superstizioni e diffamazioni. Lo fa partendo dall’eredità anglosassone, che la definisce come qualcosa da cui guardarsi bene, per arrivare a John Milton (1608-1674), il filosofo britannico che nel suo Paradiso perduto la chiama il «maggior pregio del Diavolo».
Se, come dice Erskine, il coraggio e l’audacia ci vengono spesso in soccorso nel dare voce ad azioni “buone”, è altrettanto vero che forse ci farebbe bene imparare a distinguere tra virtù e virtù. E, per esempio, a riconoscere nell’intelligenza, come capacità di discernimento, un utile alleato.

La letteratura inglese ha proposto una forte diffidenza nei confronti della mente. Erskine prende ad esempio i personaggi prodotti dalla penna di Shakespeare: quelli intelligenti erano spesso figure malvagie oppure tragiche vittime. Esseri umani come Riccardo, Iago o Edmund hanno manifestato una certa rottura con la bontà. E quelli saggi e riflessivi come Amleto ci hanno fatto capire che pensare spesso porta a complicarci l’esistenza.
Proprio per questo Shakespeare premia invece personaggi come Bassanio, il Duca Orsino o Florizel. Seri e assennati, ma sprovvisti di una particolare intelligenza. Dall’altra parte troviamo Ofelia, Giulietta, Desdemona, Ero, Cordelia, Miranda, Perdita «amabili per altre qualità rispetto all’intelletto» (ivi), e il gruppo oscuro formato da Lady Macbeth, Cleopatra e Goneril «intelligenti e perfide».

Lo scrittore inglese Charles Kingsley (1819-75), considerando la stupidità parente stretta della condotta morale e l’ingegno il primo passo verso un mondo di guai, ci ha lasciato un pensiero un po’ inquietante: «Sii buona, dolce fanciulla, e lascia esser intelligente chi vuole» (ivi). Ma ancora, nei romanzi di Fielding, Walter Scott, Thackeray e Dickens l’eroe è sempre qualcuno dal carattere buono ma goffo. Un individuo salvato dal caso o dalla provvidenza divina e solo raramente dal proprio ingegno.

Per gli antichi, tuttavia, le cose stavano diversamente. La nostra storia, per Erskine, tradirebbe una sorta di conflitto fra carattere e intelletto che per i Greci, ad esempio, sarebbe stato incomprensibile. Loro, infatti, considerano l’intelligenza tanto importante da dedicarle più termini. Dalla phronesis, l’intelligenza ma anche la saggezza, e, talvolta, la prudenza; al logos, cioè la parola, il discorso, il significato, il ragionamento, la ragione, e quindi il pensiero (che per il filosofo esistenzialista Martin Heidegger coincideva con la capacità di conservare, accogliere, ascoltare); al nous, la facoltà di comprendere, di guardare in profondità.

Per Erskine, illudersi che gli uomini siano uniti da un affetto primordiale è un clamoroso errore. Al contrario, sarebbero proprio i nostri affetti a dividerci. «Mettiamo radici nello spazio/tempo contingente e ci innamoriamo della nostra posizione, dei costumi e della lingua che ci hanno accompagnato dalla nascita» (ivi). Secondo l’autore, è invece l’intelligenza a unire l’umanità, permettendoci di entrare in empatia con il mondo che ci circonda. Quell’intelligenza a cui dovremmo guardare un po’ più spesso, non tanto per le risposte che potrebbe aiutarci a raggiungere «ma perché crediamo che sia la vita […]. La amiamo come amiamo la virtù, per se stessa, e crediamo che si tratti soltanto di un altro nome di quest’ultima» (ivi).

E se le cose stanno così forse potremmo iniziare a riconoscere all’intelligenza il valore e il primato che merita. Forse, è davvero arrivato il momento di rendere l’intelligenza un obbligo morale.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Frank Vessia via Unsplash]

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L’eterno conflitto tra bene e male: il caso di Lucifer Morningstar

L’uomo e il libero arbitrio, la relazione tra male e bene, il rapporto con la divinità sono solo alcuni dei temi affrontati dalla serie televisiva americana Lucifer Morningstar giunta nel 2019 alla sua quarta stagione. Protagonista della produzione cinematografica è nientemeno che Lucifero, il diavolo che tutti conosciamo attraverso i racconti della Bibbia, incarnazione del male e del peccato, nonché re dell’inferno a seguito della ribellione contro il padre Dio.

Giunto sulla terra per una sorta di “vacanza” dal calore infernale, il Lucifer di Netflix apre un lussuoso locale a Los Angeles: il Lux e si dedica ad una vita di svago e dissolutezza, come si addice ad un vero diavolo. Ben presto, tuttavia, si trova a dover fare i conti con sentimenti prettamente umani quali l’odio, l’amore, l’amicizia, scoprendo cosa significhi vivere tra gli uomini, intrecciare con loro delle relazioni, percepirne le fragilità e i desideri, assimilandosi per molti versi al loro modo di vivere. Da ciò nasce un Lucifero davvero molto umanizzato, un personaggio che pur conservando una visione e una conoscenza divina del mondo richiama subito la simpatia dello spettatore per la somiglianza con se stesso, con le proprie aspirazioni e paure e forse con i propri lati più oscuri.

In Lucifero convivono infatti bene e male, giusto e sbagliato, in una sorta di eterno conflitto tra loro. La natura del protagonista, incarnazione del male per eccellenza, lo porta ad essere un personaggio diabolico per molti versi, ma allo stesso tempo c’è in lui una forte tensione ad essere buono, come si nota nella sua decisione di entrare in polizia e aiutare la detective Chloe a catturare gli assassini. In un certo senso Lucifer non si arrende alla propria natura di diavolo, ma riscopre qualcosa di profondo, antico, che lo spinge a compiere buone azioni a modo suo, con i propri limiti e le proprie storture infernali.

Sembra quasi che il regista voglia insinuare il dubbio nello spettatore: quanto conta la nostra vera natura rispetto alle nostre scelte? Il bene e il male sono qualcosa di imprescindibile oppure l’uomo, con il libero arbitrio, ha la facoltà di scegliere chi o cosa vuole essere?

Stando al personaggio incarnato dall’attore Tom Ellis il male come entità pura non esiste, se non nella volontà del singolo di piegarsi ad esso e perseguirlo con i propri fini malvagi. Siamo noi che, attraverso le nostre azioni quotidiane, ci rendiamo ladri, malviventi, cattivi partners, abbracciando in un certo senso il nostro lato oscuro che ha il sopravvento su di noi.

Allo stesso modo anche Lucifer si trova in uno degli episodi più significativi della quarta stagione a dover affrontare l’altro se stesso, a scegliere chi effettivamente vuole essere, forse non potendosi liberare dell’altra metà malvagia, ma almeno riuscendo a controllarla, nel momento in cui viene affermata. È lì che nasce il dialogo con sé, il perdono verso il proprio io, anche per quegli aspetti che accettiamo di meno, che ci sembrano mostruosi, ma che in qualche modo fanno parte della nostra natura. «Credi che la persona che sto cercando di essere quando sono a lavoro sia disonesta?» chiederà Lucifer a Chloe, in preda ad una sorta di crisi di identità. «Ti piace il lavoro?» risponderà a lui la detective; «Credo che se quello che fai e chi sei sul lavoro ti fa stare bene, tu sai che è reale»1.

In conclusione siamo noi a giocare le nostre carte, a muovere le fila della nostra vita, se persino il diavolo è riuscito a provare dei sentimenti di amore e pietà, perché non credere che sia possibile cambiare e accettarsi di più! Si tratta dunque di scegliere la giusta prospettiva, perché in fondo «abbiamo tutti dei dolori che nascondiamo, che non siamo pronti a condividere con il mondo». Come dice Amenadiel, fratello di Lucifer, ma la tensione a migliorarsi può essere più forte e decisiva di qualsiasi fardello innato o di qualunque abitudine e carattere precostituito.

 

Anna Tieppo

 

NOTE 
 1. Stagione IV, Episodio VI

[Nell’immagine di copertina un fotogramma tratto dalla serie]

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Sibilla Aleramo: il femminismo che nasce dal racconto di sé

Vi sono argomenti che divengono iconici di un tempo storico. Ai posteri, il nostro tempo diverrà sinonimo delle molte battaglie che abbiamo intrapreso, o anche solo ignorato, come quella del clima, o ancora del femminismo. Il rischio che corrono gli argomenti iconici di un’epoca è che non siano più incisivi e urgenti come dovrebbero essere. La gente diviene come anestetizzata a certe tematiche e restia a continuare ad ascoltare o a formare un pensiero autonomo su di essi. Uno di questi è, indubbiamente, il tema del femminismo. Se, da una parte, sono stati fatti passi da gigante rispetto al passato, ancora si è ben lontani dal raggiungere la piena parità fra uomo e donna. 

L’urgenza dell’argomento è data da due elementi fondamentali: si tratta, anzitutto, della più grande disparità dell’umanità, poiché le donne costituiscono più della metà della popolazione e dunque della più profonda ingiustizia sociale. In secondo luogo, nonostante le vittorie del femminismo, le violenze sulle donne permangono, evidenziando così il fatto che esso non è diventato uso e costume della nostra società. 

Quando un’idea, un’aspirazione, si svuota di senso, sebbene sia necessaria, è bene allora riprenderne le origini e restituire vigore all’argomento.
In Italia, fra le prime donne che hanno intrapreso la lotta del femminismo, vi è Sibilla Aleramo. Semisconosciuta nell’Italia di oggi, nel 1906 pubblicò il su romanzo autobiografico Una donna, in cui racconta le vicende che l’hanno portata al divorzio. 

La storia di Sibilla Aleramo spiega come il femminismo non sia un capriccio, ma un’esigenza per riconquistare la propria dignità di persona. 

Sibilla Aleramo racconta di essere nata e cresciuta in una famiglia borghese benestante, e che il padre si prese cura della sua educazione e dei suoi studi. A seguito di un trasferimento di tutta la famiglia da Torino in un paese non specificato del Sud Italia, Sibilla comincia a lavorare nella fabbrica del padre, conquistando quell’aria di intraprendenza malvista da tutto il paese. Quando fu costretta a sposare l’uomo che aveva abusato di lei, la vita di Sibilla si appiattisce. «Appartenevo ad un uomo, dunque? Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. […] Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita. Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava»1.

Dalla consapevolezza di potere essere una persona indipendente, Sibilla si riduce al ruolo di moglie, e in un certo senso, conquista un ruolo sociale consentito a una donna; non importa che esso sia causa di una violenza, la figura di Sibilla si normalizza agli occhi della gente del paese. È dunque più scandaloso che una giovane donna lavori in una fabbrica ma non che sposi l’uomo che l’ha stuprata. 

La nascita di un figlio porta finalmente un po’ di luce nella sua vita e in quella del marito, fino a quando quest’ultimo non diventa violento e inizia a segregarla in casa, perché sospetta di un suo tradimento, mai avvenuto in realtà. Sibilla giunge a tentare il suicidio; racconta addirittura che il marito e la cognata la ingiuriano, mentre lei sta per perdere i sensi, dopo aver bevuto un’intera boccetta di laudano. 

Il femminismo, cioè la possibilità di non vedersi negata la propria dimensione di essere umano, affonda le sue radici nel dolore, nelle ferite inferte dai mariti, nel soffocamento delle proprie aspirazioni. Il femminismo nasce come un’alternativa al suicidio, o a una vita sottomessa. Ciò che permette a Sibilla di riscoprire la sua sfera di donna, oltrepassando quella di moglie, è la scrittura. «E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo; affermavo di ascoltare strani fermenti nel mio intelletto, come un presagio di lontana fioritura»2.
Grazie alla scrittura, Sibilla Aleramo riesce a vivere indipendentemente, lavorando per alcune riviste, e a chiedere il divorzio. Riacquistando la sua dignità di persona, perde quella di madre: come conseguenza del suo desiderio di libertà, il marito le porterà via il figlio e Sibilla non riuscirà più a ricongiungersi a lui.

Il significato del femminismo può essere riassunto così nella vita di Sibilla Aleramo, costretta a dover scegliere fra la propria sfera intima e a quella imposta dalla società. Di fatto, l’affermazione dei diritti delle donne è la riconquista di una dimensione pluralistica della propria vita, in cui è possibile essere moglie e non cosa, lavoratrice e madre. Il ruolo sociale della donna, come è stato inteso nel corso della storia, la riduce a oggetto, a mera funzione che permette l’andamento della società stessa. L’aspetto emotivo o sessuale della donna sono impedimenti all’ingranaggio della civiltà, e per questo devono essere estirpati. 

Sibilla Aleramo sfugge a questo appiattimento grazie alla scrittura, ovvero all’arte che le permette di ricordare la sua profondità; le viene restituita l’autocoscienza. Possiamo così dire che il femminismo nasce come ricordo e racconto di sé, come la capacità di guardarsi da fuori e di decidere della propria vita. 

«Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello […]. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni»3.

 

Fabiana Castellino

 

 

NOTE:
1. S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli Milano 2013, p. 27.
2. Ivi, p. 79.
3. Ivi, p. 80.

 

[immagine tratta da Wikipedia]

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“Lo Specchio” di Tarkowskij: memoria e riflessi di esistenza

“Ja mogu govorit”: io posso parlare. Poche semplici parole pronunciate da un giovane balbuziente che con l’aiuto dell’ipnosi cerca di ritrovare la chiarezza del linguaggio. Si può dire che la poetica di Lo Specchio, quarto lungometraggio di Andrej Tarkowskij basato sui ricordi personali della vita e del passato del regista, sia condensata tutta qui, in questa primissima scena. 

Una pellicola in cui  Tarkowskij prova a narrare se stesso, cercando di fare ordine nei frammenti della memoria e del ricordo di un’infanzia che sembra lontana, ma che inevitabilmente non è che un riflesso del proprio presente. È questo “non detto” che prende vita nel film, rivelando lo stato d’animo di una coscienza che si pone di fronte allo scorrere del tempo e che comprende di aver smarrito la fede e il significato dell’eternità.

Per sfuggire alla fallibilità del linguaggio umano, per sua natura sempre mancante, il regista sceglie una poetica dell’immagine capace di dipingere con intensità  la complessa interiorità umana e l’esistenza, in bilico tra passato, presente e futuro.

I frammenti di vita di Aleksej, protagonista della pellicola e alter ego cinematografico del regista, si cristallizza nel potere evocativo dello specchio: è proprio grazie al riflesso che la sua infanzia e il suo presente si incontrano nel ricordo e nella figura femminile della madre e della moglie. Ormai in fin di vita, l’uomo desidera fare un bilancio della propria esistenza, intrecciando due vicende che nella pellicola arrivano a tratti a sovrapporsi: da una parte l’infanzia e il legame con la madre, dall’altra la separazione dalla moglie e dal figlio quando Aleksej è ormai maturo.

Lo spettatore, fin dai primi fotogrammi, non può che essere confuso, dal momento che Tarkowskij non segue una struttura narrativa tradizionale: la continuità spazio temporale non viene rispettata e ruoli diversi vengono interpretati dagli stessi attori. Ci troviamo così, di fronte allo straniamento, dove non ci sono nessi causali ma un condensato di vita, di cui è difficile ricostruire il prima e il dopo, ma che ci regala scene di rara bellezza cinematografica, grazie alla sublime fotografia di Georgi Reberg.

Nel periodo di lavorazione al film, Tarkowskij stava attraversando un momento difficile dal punto di vista privato: si era appena lasciato dalla prima moglie e allontanato dal figlio, facendo affrontare proprio a quest’ultimo ciò che lui stesso aveva vissuto in prima persona durante l’infanzia, quando il padre se ne era andato di casa.

Sono le situazioni di crisi, come la malattia, a far emergere la necessità di riconsiderare la propria esistenza: da qui le sequenze del film si susseguono, come fossero libere associazioni del regista, reminiscenze che si condensano in immagini e voci fuori campo che sembrano uscire da un sogno. Realtà, ricordo, immaginazione? Non possiamo dirlo con certezza, ma quel che sappiamo è che lo stato d’animo di Aleksej (Tarkowskij) emerge chiaramente in ogni scena della pellicola, rivelando quella nostalgia creativa, che solo un vero artista riesce ad esprimere. 

Da una parte il rapporto affettivo con la madre, dall’altra l’assenza della figura paterna, che nel film si trasforma non solo in presenza fisica nei ricordi d’ infanzia mediante le immagini, ma anche in presenza spirituale attraverso una voce fuori campo che recita le poesie di Arsenij Tarkowskij. 

I versi di Pervye svidanija (Primi incontri, 1962), poesia dedicata al primo amore del poeta, dialogano con le immagini e fanno da cornice alla sofferenza della giovane moglie, in attesa che il marito faccia ritorno dalla propria famiglia. La donna, infatti, rientra sconsolata nella propria dimora, dopo esser stata tratta in inganno dall’arrivo di un giovane medico sconosciuto: 

Dei nostri incontri ogni momento noi 
festeggiavamo come epifania, 
soli nell’universo tutto. Tu 
più ardita e lieve di un battito d’ala 
su per la scala, come un capogiro 
volavi sulla soglia, conducendomi 
tra l’umido lilla, dentro il tuo regno 
che sta dall’altra parte dello specchio

Lo Specchio è la ricerca umana dell’identità, attraverso quei frammenti di tempo e memoria che ognuno di noi è chiamato a cercare di ricostruire e ordinare nella propria esistenza. Definito troppo incomprensibile e spirituale dal Comitato Statale per la Cinematografia, il film ha ricevuto un grande apprezzamento da parte della critica e del pubblico. Una pellicola in cui l’elemento autobiografico diventa a tratti il pretesto per una riflessione che travalica la singola individualità e rivela il suo carattere storico: le immagini di repertorio della seconda guerra mondiale e della bomba atomica diventano così, schegge di vetro attraverso cui può riflettersi una vicenda esistenziale capace di accomunare intere generazioni.

 

Greta Esposito

 

[immagine tratta da Pixabay; Credits a Simedblack]

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Una prospettiva etico-filosofica della magia

La magia oggi non riveste alcun ruolo nella cultura. È scaduta a prodotto di nicchia per creduloni e ambito di perizia per ciarlatani. L’unica magia che si salva è quella oggetto di studio dell’antropologia. È di qui che dobbiamo passare se vogliamo interrogarci sull’eventualità che la magia abbia ancora qualcosa da dirci.

L’universo del pensiero magico potrebbe avere un importante messaggio filosofico da darci. Esso ha a che fare con una domanda cruciale: perché la mente umana, fin dalle sue manifestazioni più remote, ha creato un mondo simbolico immenso? Dall’oscuro serbatoio dei pensieri umani in cui germinano sogni di gloria e incubi di dissolvimento si espande un cosmo di proiezioni cariche di inesauribili contenuti. Questo accade almeno da quando alcuni esseri umani hanno iniziato a trasferire i loro pensieri sui dipinti all’interno delle caverne in cui vivevano. Un mondo in cui magia, spiritualità e conoscenza erano solo sfaccettature della stessa impresa: la fabbricazione di senso.

Il pensiero magico ha sempre accompagnato la vita degli umani, ma ad un certo punto non ce l’ha più fatta, non è riuscito a sopravvivere a due fatali eventi: l’Inquisizione e la Rivoluzione scientifica. Il mondo è cambiato molto da allora, per molti aspetti in meglio, ma non per tutti. Ma torniamo all’antropologia.
Dobbiamo a Frazer, agli inizi del ‘900, il primo importante approccio antropologico alla magia. Sebbene laureato in giurisprudenza, Frazer era molto più interessato agli studi sul folclore e sulle culture cosiddette “primitive”. La sua più famosa opera è Il ramo d’oro1, in cui partì dall’idea di confrontare la singolare pratica, secondo un’antica leggenda italica, di sottrarre un ramo dall’albero nel santuario della dea Diana, a Nemi, per poi procedere all’uccisione del sacerdote in carica e prenderne il posto. Da qui continuò allargando l’indagine su pratiche magiche in culture di tutto il mondo.
Il suo lavoro diventò il punto di riferimento, nonché di critica, per molti autori successivi, come Wittgenstein2 , ad esempio, il quale denunciò come l’idea di “selvaggio” e il punto di vista sulla magia fossero permeati di forte etnocentrismo. Fatto sta che sia Frazer, sia Wittgenstein, ma in generale l’antropologia, sentirono il bisogno di esplorare e spiegare la magia perché fondamentalmente, da un bel po’, non siamo più in grado di capirla. Eppure lei era qui, in mezzo a noi, è stata lume della nostra relazione con il mondo fino qualche secolo fa.
Ma che cos’è la magia? Detto con le parole di Guidorizzi, la magia è “un orientamento del pensiero” che si presenta «come visione obliqua e perturbante del mondo, come una possibile risposta al tentativo di indirizzare la realtà affidandone la guida all’Uomo»3.

La magia come guarda al mondo? In questa risposta credo risieda il potenziale valore etico di questa modalità del pensiero. Secondo la magia l’universo è un tessuto la cui fitta trama lega tutti gli elementi, visibili e invisibili. Potremmo dire che la magia vede a priori quei collegamenti che la scienza cerca di discernere man mano, organizzandoli in termini deterministici. Nella magia tutto è connesso e le formule magiche servono a sollecitare l’intercessione di forze occulte per fini pratici umani.

Nella nostra epoca di sapere parcellizzato e fortemente dominato da un approccio riduzionistico, fatichiamo a cogliere la preziosità della complessità che la magia invece dava come presupposto dell’esistenza. È proprio l’incapacità di vedere la complessità che ci porta a infliggere danni ormai irreversibili all’ecosistema, insensibili alle intime connessioni che tengono in vita il nostro pianeta e noi stessi.
Molte analogie e contrapposizioni sono state evidenziate tra magia e scienza. La seconda, lungo tutto il corso della sua emancipazione, si è resa autonoma proprio a partire dalla magia. Il primo a voler depurare un approccio “proto-scientifico” da uno magico fu Ippocrate, il quale affermò che ogni malattia ha una causa naturale e le pratiche di cura basate su esorcismi, ad esempio, sono fuorvianti se non dannose. In questo caso la superstizione, come la chiamiamo noi ora, era il risvolto di una modalità di visione iper-connessa. Il fatto è che se tutto è potenzialmente interconnesso, è possibile che il risultato sia il caos. Vedere lo spirito maligno al posto di un difetto di conduzione nervosa a carico del cervello, come aveva già compreso Ippocrate nel caso dell’epilessia, distoglieva da più concrete possibilità di cura. Questo accade purtroppo ancora oggi, quando persone che professano poteri guaritivi anti-scientifici arrivano a plagiare alcuni malati, con il risultato di allontanarli da possibilità di cura più efficaci. I veri maghi di un tempo – naturalmente esistevano anche gli impostori – non erano affatto dei ciarlatani: la magia era piuttosto una forma di sapere pre-scientifico.

Dunque, è chiaro che la capacità di orientarsi nella realtà deve essere un compromesso tra una visione eccessivamente “iperconnessa” e una totalmente “sconnessa”, cioè riduzionista e anti-complessa.
Un altro grande pensatore che si dedicò all’antropologia fu Ernesto de Martino. Muovendosi da un background filosofico, egli si approcciò allo studio della magia con l’intento di comprenderne lo sfondo esistenziale. Anche lui la confrontò con la scienza, definendo quest’ultima come un sapere che ha gradualmente ritirato la “psichicità” dalla naturalità4.
Tutte le proiezioni che la mente magica vedeva stagliarsi nell’universo, la scienza le ha man mano dissipate, lasciando solo la materia con le sue connessioni causali. Chiarezza al prezzo della perdita di complessità. La magia, per de Martino, è una risposta all’angoscia prodotta dall’incertezza della propria presenza, quotidianamente messa alla prova dal rischio di scomparire.
Insomma, è lo stesso motivo per cui esiste la filosofia.

La magia è la risposta al rischio di non esserci e lo sciamano è il grande esploratore del limite, colui che possiede le virtù per sfidare il rischio, portarsi alle soglie del caos e porsi come ordinatore della labilità.
E noi progrediti occidentali, digiuni di pratiche collettive e sguarniti di visioni di armonia universale, come ci poniamo di fronte alla nostra angoscia di scomparire? La scienza è preziosa, ma non possiede i requisiti per placare la nostra naturale inquietudine. La magia si è estinta, certamente aveva i suoi difetti, ma non la filosofia. È lei che ci può ancora guidare nell’esplorazione del perduto terreno delle sconfinate connessioni tra gli elementi del cosmo, costruendo significati, mentre la scienza è ormai fondamentale per scartare alcune connessioni rivelatesi fuorvianti. Un approccio complesso alla realtà sulla scorta della capacità “visiva” del pensiero magico è quanto di più etico la filosofia può desumere dalla storia della magia. Con una certa urgenza, oserei dire, visto che cogliere la complessità è la premessa per salvarci.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Editori, 1992, Roma.
2 Note sul Ramo d’oro di Frazer. Ludwig Wittgenstein. Adelphi, 1975, Milano.
3 G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Il Mulino, 2015, Bologna.
4 E. de Martino, Il pensiero magico. Prologomeni a una storia di magismo, Boringhieri, 1973, Torino.

[Immagine tratta da Google immagini]

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La filosofia polimorfa alla prova della città

Una filosofia polimorfa tiene conto dei piani diversi su cui si articola il reale. Non è quindi antropocentrica né concettuale, ma applicata, e considera la realtà come un campo su cui agiscono forze diverse non sempre gerarchicamente organizzabili. Un campo può essere una determinata porzione di spazio e di tempo mentre le forze, per esempio, diversi apparati percettivi e vite mentali. La città è un campo di applicazione sui generis del caso appena citato.

L’esercizio è quello di considerare la città come un organismo vivente, che include la natura. La città vive e le esistenze che ospita possono osservarla in modo radicalmente diverso. Secondo Anna Maria Ortese «nelle voci di molti uccelli, forse anche dei più lieti risuona a volte questa nota accorata, quest’alta e tiepida malinconia a cui non sembra esservi spiegazione»1. Quanto segue è un tentativo di spiegare questa intuizione geniale.
La malinconia degli animali, e di tutti coloro che non rispettano il canone di “normalità” imposto da una maldestra ontologia sociale, deriva da quello che possiamo definire “antropocentrismo del progetto”. In tutte le fasi della progettazione, infatti, non si tiene conto dell’impatto della costruzione di mondo sui micro-mondi. La città è un insieme di Umwelten, di mondi-ambienti, che tentano di organizzarsi armonicamente. L’armonia è un’arma a doppio taglio perché, come la globalizzazione, se mal gestita può sfociare in arroganza: un punto di vista, come quello dell’architetto o del politico, governerà loro malgrado anche i coni visivi delle forme di vita che si abiteranno uno spazio progettato da altri.

La sfida di Milano Animal City è dunque questa: tentare di progettare in modo tale che lo sguardo dell’altro diventi parte integrante del progetto stesso. Ciò costituirebbe un esercizio di depotenziamento della posizione antropocentrica: «bussare a tutte le porte, raccogliere tutte le voci di un evento che ci ha lasciati, e quando non le voci gli scritti in ogni corteccia d’albero o in ogni dura pietra quando, non pure, nelle risuonanti e sempre uguali narrazioni del mare»2.

L’antropocentrismo è l’oggetto più indecostruibile della filosofia. E forse si potrebbe domandare: tentare di uscirvi non è antropocentrico a sua volta? No: almeno più di quanto una doppia negazione non sia un’affermazione. L’antropocentrismo è nei suoi effetti morali, metafisici e scientifici devastanti. Un primo modo di superarlo è esercitarsi nell’attività di progetto dal punto di vista dell’altro.

L’antropocentrismo descrive una forma di vita: un’umanità chiusa nei quattro errori di Nietzsche descritti ne La gaia scienza: 1) vedersi sempre e solo incompiutamente; 2) attribuirsi qualità immaginarie; 3) sentirsi in una falsa condizione gerarchica rispetto alla natura e agli animali; 4) inventare sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate. Cosa segue? La fine dell’umanità come concetto e non come oggetto. Quel volto umano tracciato sulla sabbia che sta per essere investita da un’onda, come raccontava Foucault. Caduta una narrazione ne occorre un’altra “postumana”, antagonista a quella superomistica proposta dallo stesso Nietzsche. Il postumano è un’umanità “aperta”. L’umano è in continuità ontologica con la natura e non ha una posizione speciale nel mondo. Tende a ibridarsi e modificarsi con i suoi stessi prodotti tecnologici, modificando i suoi predicati e la sua essenza, divenendo un’opera aperta (come la definiva Umberto Eco) contrapposta all’opera chiusa dell’umanesimo.

Qui rientra Milano Animal City. Un esperimento in cui si fa esercizio di questo “dopo” usando l’urbanistica. In questa intercapedine si apre un nuovo spazio per quella filosofia dell’architettura che è l’idea secondo cui per progettare nuove forme di vita (filosofia) si debbano concepire diverse strutture per la vita (urbanistica). È un progetto più metafisico che etico. Per troppo tempo si è creduto (si pensi ad Adolf Loos che non annoverava gli architetti tra gli esseri umani) che il progetto fosse un atto divino: una creazione di mondo a cui poi altri si sarebbero dovuti adeguare. Oggi i tempi sono invece maturi per comprendere che progettare significa creare vita comune: la domanda è come vedrei il mondo se non fossi chi sono?

Ecco dunque che la progettazione della città diventa un atto corale: visioni molteplici che tentano di ricongiungersi entro la parola “intersoggettività”. Dobbiamo prepararci a una nuova epoca: quel postumanesimo già in atto in cui nuove forme di vita vivono insieme in una ritrovata alleanza.

 

Leonardo Caffo

 

NOTE
1. A. M. Ortese, Le Piccole Persone, Adelphi, Milano 2016, p. 16
2. Ivi, p. 17

 

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Binswanger, “Il caso Ellen West” e il vissuto di fine del mondo

L’idea focale su cui s’impernia l’analisi di Binswanger è che nell’insorgenza psicopatologica non ci sono soltanto sintomi da individuare e cure da somministrare, ma vi sono anche modalità esistenziali da ascoltare, che descrivono la situazione attuale di un’autentica presenza umana. In questo modo il sinto­mo psicopatologico non è più semplice indice di una disfunzione psicologica o organica, ma diventa una vera e propria prospettiva di progettazione del mondo, che invece di annichilire la presenza umana, la orienta e la ingabbia entro inevadibili categorie mortifere.

Nel vissuto psicopatologico la presenza umana si ritrova quindi tumulata in uno stato controverso, e in questo permane lasciando il sofferente in una condizione paradossale di esser-gettato-nel-mondo. Tale condizione non permette alla presenza di porsi oltre di essa con un’azione  personale che la dinamizzi, e il mondo non risulta più sorretto da significati differenti da quelli del disturbo. Si può dire che il mondo sia “finito”, trascinando con sé ogni cosa tranne l’individuo sofferente, che si ritrova da solo a contemplare lo sfacelo universale. Questo tipo di vissuto è esperibile nei momenti in cui l’energia morale umana, che sempre intende oltrepassare la pietra e le stelle mute in un va­lore, si flette su se stessa e s’ingrigisce fino a non comprendersi più in alcun modo, se non con le cate­gorie del deserto e della sofferenza sorda e inestirpabile.

È questa la condizione lamentata da Ellen West, quando sostiene che ogni cosa è vuota, che nulla ha più un suo senso, che ovunque non aleggia altro che morte. La gravità del suo lugubre sentore è accentuata dalla sua radicale incapacità di emanciparsene, giacché questo ha assoggettato al suo domi­nio ogni possibilità di prassi esistenziale positiva. Ella denuncia una tensione insostenibile, che da una parte la trascina verso l’abisso, in un mondo sepolcrale e stagnante, e dall’altra invece la attrae verso regioni eteree, letterarie e ambiziose, dove lei ha sempre sperato di dimorare; ma più mitizza que­sta dimensione di speranza, più la tenebra la trascina sul fondo. Il suo corpo è ingombro di organi e ma­teria, il cibo la appesantisce e la fa sprofondare, la sua femminilità è smorzata da una idealità di legge­rezza che cozza con le sue necessità biologiche. Il passato è una terra di rimpianti e dolori che la tormen­tano; il futuro è bugiardo e assurdamente crudele; e il presente sembra un’eternità immota che non lascia spazio al cambiamento. Quando poi ella scopre di non poter accedere alla grazia del mondo spirituale, mercé l’ineluttabilità del suo incanutire e la paura di farsi sgraziata, la morte diventa per lei l’unico obiettivo contemplabile. I vissuti esistenziali di Ellen si muovono essenzialmente attorno a queste immagini, che pur dilaniandole il corpo e l’anima, le lasciano tutta la lucidità di una donna intelli­gente, che troppo bene comprende la sofferenza angustiante cui è condannata.

Per ricavare una diagnosi soddisfacente e per poter proporre una terapia efficace che sappia realmente incontrare le esigenze della presenza ingrigita di Ellen, il dottor Binswanger dapprima si concentra sulle metafore utilizzate dalla paziente per spiegare il suo malessere, e in seguito avanza un approccio di tipo antropologico, andando a ricostruire e ad analizzare l’intera storia della paziente alla luce di quanto intuito dall’analisi delle sue espressioni. Per lo psichiatra difatti «le interpretazioni psicoanalitiche si rivelano quali particolari interpretazioni simboliche sul terreno della comprensione antropoanalitica»1, nel senso che la psicoanalisi è un momento della ricostruzione del fatto antropologico, ossia della presenza umana considerata. Senza riconoscere il senso esistenziale di un individuo e delle modalità con cui ci-è non si può comprendere la maniera con cui questi interpreta il mondo, poiché Mondo e Sé sono intercambiabili – l’uno determina l’altro attraverso l’attività interpretante e agente del secondo. È la teo­ria schopenhaueriana del soggetto che consente all’oggetto di apparire come fenomeno nella catena causale degli eventi. Il valore, i vissuti e il nome del Sé si rivelano una volta che il suo Mondo è stato messo in luce, e per farlo occorre percorrerlo da un polo all’altro per poi coglierlo nella sua essenza principale. Battendo anche questo percorso, la terapia psichiatrica può dirsi completa, poiché, in accordo col dottor Binswnager, esso compensa la sterilità della psicoanalisi più “organica”.

Il caso di Ellen presenta però alcune anomalie: come si espone nella terza parte del libro, inerente all’a­nalisi clinica della paziente, il suo disturbo non è classificabile sotto nessuna categoria particolare. Non si tratta di affezione da idea delirante, giacché questa è sostenuta dall’individuo, mentre Ellen combatte la sua ossessione; non si tratta di isterismo, poiché la donna non maschera angosciosamente il suo dolore; né si tratta di una depressione acuta, in quanto non si riscontra il tipico sentimento di colpe­volezza e del non-poter-riparare-a. È a questo punto che Binswanger propone un quesito tanto fa­scinoso quanto terrificante: si tratta «di sviluppo di personalità psicopatica o di processo schizofrenico»2? Egli opta per la seconda possibilità, seppur con alcune riserve, ma rimane il fatto che la prima è stata contemplata. E l’espressione utilizzata si riferisce alla possibilità di incarnare un ruolo an­tropologico, una personalità appunto, circoscritta e definita secondo i vissuti psicopatologici, ma che non soffre di una specifica malattia mentale. Se nel vissuto schizofrenico l’associatività di pensieri e di parole risulta sconnessa e lacunosa, in Ellen la lucidità di pensiero, di linguaggio e di emotività si man­tengono intatte, ma vengono compromesse da un dolore innominato e profondissimo che si richiama al vissuto mortifero sopra citato. Questo non è dunque un vissuto esistenziale che affligge solo il malato, ma si configura come un rischio tipicamente antropologico, in cui può scivolare chiunque non riesca a trovare la forza di plasmare e interpretare il mondo secondo la sua propria “esistenzialità”. Le modalità di crollo sono innumerevoli, ma nessuna è definitiva, e lo stesso dottor Binswanger non riesce a risalire all’origine del male. Sembra soltanto postularlo, suggerendo che Ellen è sempre stata tale e che di­versamente non poteva essere.

Ellen West si avvelenò il 4 aprile 1921, all’età di 33 anni. Il suicidio era diventato per Ellen l’unico mez­zo per affermare la sua libertà sul mondo infernale cui era costretta. Per riconquistare se stessa, dovette eliminarsi. In un certo senso non ha rinunciato a realizzare la sua presenza, ma come sostiene il dottor Binswanger, l’ha invece confermata nell’unico modo che le rimaneva plausibile: il suicidio era quanto di più conseguente ci si poteva aspettare da una presenza umana così addolorata e incurabile. Resta il documento di una storia tremenda e circolare, che si lascia osser­vare solo da oltre i suoi confini, facendoci intuire gli aspetti più fragili e oscuri della nostra es­senza più intima: la possibilità di non potersi realizzare, a causa della subordinazione a un pensiero che vuole disperatamente contraddire l’ineluttabile; o la possibilità di trovarsi costretti ad affer­marsi solamente tramite la morte.

 

Leonardo Albano

NOTE:
1. L. BINSWANGER, Il caso Ellen West, Einaudi, 2011, p. 136
2. Ivi, p. 190

 

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Tra realtà e fantascienza. Educare il robot: fallo crescere felice senza che uccida nonna

L’Intelligenza Artificiale viene desiderata, ricercata, temuta, analizzata e discussa. La tematica dell’IA è sempre più al centro del dibattito pubblico, ma, un po’ come tutte le cose di questi tempi, viene spesso affrontata in maniera superficiale e spesso condannata a priori. Tanti film di fantascienza ci vedono soccombere dinnanzi alle nostre stesse creazioni in altri l’IA viene esaltata come mezzo salvifico per superare i nostri limiti: è interessante notare che entrambe le posizioni si pongono comunque in maniera acritica rispetto all’argomento e non affrontano fino in fondo i problemi ad essa connessi.

Un robot non è semplicemente un elettrodomestico in senso stretto tipo un tostapane, un robot dotato di intelligenza non sarebbe solo una cosa, sarebbe il simbolo dell’umanità che riesce a porsi dal lato di Dio ergendosi come capace di generare la vita, sia pure cibernetica. In fondo che l’esistenza abbia una matrice organica o artificiale cambia tutto sommato poco, a ben vedere la stessa distinzione netta tra chimica organica e chimica inorganica è una convenzione, delle catene di amminoacidi a base carbonio non sono poi molto diverse da catene a base di silicio, hanno comportamenti in parte differenti, ma non è che le prime abbiano qualcosa di divino e le seconde no.

Per trattare questa tematica dobbiamo rifarci alla machine ethics o alla robothics cioè a dei settori dell’etica applicata che sono impegnati a fornire regole cognitive e comportamentali a organismi artificiali intelligenti, per fare in modo insomma che il vostro tostapane intelligente nel 2145 non decida di tostare anche voi per colazione. Chi ha letto Isaac Asimov (Io, robot, 1950) ricorderà le tre leggi della robotica:

  • un robot non può recar danno a un essere umano né permettere che, a causa di una propria omissione, un essere umano patisca un danno;
  • un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non violino la prima legge;
  • un robot deve proteggere la propria esistenza, purché l’autodifesa non contrasti con la prima e seconda legge.

Queste leggi per quanto preziose sono incomplete, parzialmente rigide, oscure e troppo semplici rispetto ai dilemmi della vita, già messe in discussione dalle contraddizioni dell’impiego di robot a livello contemporaneo, vedasi al riguardo i droni utilizzati in operazioni militari.

Si è quindi tentato di semplificare ulteriormente le leggi di Asimov per ricondurle a un principio fondamentale che risolvesse tutto:

Rispetta l’umanità e non lederla né attivamente né passivamente”. Altri hanno preferito soluzioni casistiche, indicando cioè esempi di comportamento encomiabili da imitare (aiutare la nonna ad attraversare la strada) o disdicevoli, da evitare (rubare la borsetta a nonna e spingerla sotto un camion). I casi servirebbero come paradigmi ideali di comportamento.

La vera difficoltà etica che si pone e che è ben messa in luce nel film Blade Runner (USA 1982, di Ridley Scott) è pensare una società giusta in cui alcuni abitanti vengono progettati, costruiti e diretti quali schiavi al servizio di una classe superiore, cioè gli esseri umani, e qui viene la contraddizione massima: gli umani non sono superiori bensì potenzialmente inferiori alle macchine o fragili almeno tanto quanto loro.

Inutile dire che delle IA asservite agli umani non potranno che provare una sorta di fraternità, le sofferenze per i torti patiti e una imprevista passione per la libertà le indurrebbero a rintracciare il proprio creatore, a metterlo sotto accusa e infine a generare un sentimento di vendetta.

Certo potremmo creare regole come sistemi di controllo delle IA, che ne so, impiantiamo loro bombe che scoppino a un nostro comando, ma intelligenza e procedure violente finiscono per intaccare quello che ci rende forse tutti senzienti, senzienti davvero, la libertà. Senza libertà è impossibile che macchine antropomorfe imparino a sognare, senza sogni non si creano nuove visioni del futuro, non si crea un senso e quindi non vi è ragione di esistere, possiamo già prevedere un mondo in cui le macchine sono dominate da umani progressisti e dispotici che invidiosi della superiorità delle macchine non potranno che plasmare automi per mantenerli incatenati e infantili, rendendoli inutili a se stessi e all’umanità.

Se vuoi far crescere il tuo robot felice ed evitare che uccida nonna la cosa migliore che puoi fare e possiamo fare come umanità sarà insegnargli a sognare.

Matteo Montagner

 

 

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