Volata via.

Quando mi ha detto che te ne saresti andata, che le metastasi erano ovunque, ho sentito lo stomaco attorcigliarsi. Ho sentito il terreno cedere e sono caduta.
Non tu, tutti, ma non tu.
Se chiudo gli occhi mi ritrovo ad aprire per la milionesima volta quella porta d’entrata e vedo te, quel sorriso e gli occhi azzurri, quel viso contornato da capelli impeccabili.Mi chiedi ancora una volta se voglio la cioccolata e la risposta non importava, perché me la facevi lo stesso.
Tu, detentrice dei segreti miei e suoi, tu complice, tu mia compagna fidata durante le liti.
Tu.
Non sono stati i primi quattro anni di terapia, non sono stati i pomeriggi a letto per la spossatezza. Credo che a farmi affrontare la realtà agghiacciante del dover accettare di doverti perdere sia stata la parrucca. Non eri tu. In quel momento ho compreso che avrei dovuto far di tutto per farti sapere chi sei stata per me.
Per otto anni ti sei presa cura di me, mi hai regalato una casa dove sentirmi al sicuro, un letto dove poter dormire senza paura, mi hai regalato il più grande amico che avrò mai nella vita, mi hai donato il più prezioso dei sorrisi.
E ancora oggi, ad anni di distanza dal giorno in cui te ne sei andata, mi chiedo perché tale fortuna sia capitata a me.
È vero, sono le persone migliori ad andarsene e io voglio, nel mio piccolo, raccontare quanta meraviglia mi hai mostrato, la vita che mi hai donato.

A me, semplice estranea, capitata per caso per restare con te fino all’ultimo amorevole sguardo d’intesa.
Credo che i tuoi ultimi mesi siano stati i più difficili, non per la malattia, non per noi che abbiamo dovuto accettare di doverti salutare ma per te, quando la sofferenza più grande era percepire il nostro dolore straziante.
Tu eri così, prima pensavi al benessere di chi amavi; per tutto l’arco del tempo trascorso accanto a te, mi hai sempre fatta sentire amata, in ogni caso, senza riserve.
E in quei maledetti due mesi d’estate che ti hanno portata via, la tua preoccupazione siamo rimasti noi: il non poter mangiare in cucina con noi, il dolore nel vedere le nostre lacrime scorrere incessanti, il nostro non riuscire a concepire che qualcosa potesse portarti via per sempre.
Parlare di te è estremamente difficile, perché da quando non ci sei tu quel lettone non è più lo stesso, la cucina non è più la stessa; fa freddo, perché, e lo sappiamo tutti in fondo, il calore eri tu.
Scrivo a te per mostrare al mondo quella piccola parte di te che ho amato con quanta più forza ho avuto. Scrivo a te per raccontare che la forza vuol dire lottare, si, ma anche comprendere quando lasciare la presa.
Tu, la terapia, il tuo correre da me, il tuo prepararmi il pranzo, la cioccolata, il tuo asciugarmi le lacrime e riuscire con un amore infinito a farmi accettare ciò che trovavo ingiusto, il tuo proteggermi.
Ti porterò con me, ovunque andrò, il tuo sguardo, l’amore, la gentilezza, la nobilità del tuo animo, mi accompagneranno.
Mi hai dato parte del buono che dentro mi porto.
Sarai sempre quella farfalla morta sbattendo le ali, che si muovevano per farti giungere a noi.

Un tumore non è unicamente un ammasso di cellule “cattive”. NO. Un tumore è un tornado che spazza via qualsiasi cosa si trovi nel suo raggio distruttivo. Un tumore prosciuga lentamente l’animo, logorando tutti coloro che ne sono coinvolti.
Un tumore è quel parassita che subdolamente priva gli individui della propria esistenza, riducendoli a non riconoscersi, costringendoli, il più delle volte, a lasciare da soli coloro che amano.
Un tumore ti fa conoscere realtà che avresti voluto ignorare, ma ti porta a comprendere che immenso dono possa essere la vita.
Un tumore non è fatto di sorrisi, si nutre di pianti e dolore, di accettazione della morte, dell’attesa massacrante di un addio non voluto, ma che si sa arriverà.
E sono storie di uomini e donne incredibili a far comprender realmente l’entità dei danni causati da un male di questo tipo, tutto il resto è solo l’ennesima bugia raccontata al fine di mascherare l’atrocità delle macerie lasciate dal suo passaggio.

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Nicole Della Pietà

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L’invenzione della madre – Marco Peano

Il cancro. Questo sconosciuto che vorremmo rimanesse tale per tutta la nostra esistenza. Il cancro, non ho paura di chiamarlo col suo nome.

il cancro. Lo scrivo a chiare lettere. Lo leggo con gli occhi sbarrati, con occhi attenti e furiosi. Non sono più colmi di quelle lacrime che mi ha portato. Non sono più spaventati i miei occhi. Io so chi è, io conosco questo mostro.
Lo conosco da vicino, l’ho visto assalire la persona che amavo di più al mondo. L’ho visto invadere la mia vita. L’ho visto annientare. L’ho visto creare distruggendo. L’ho visto nascere per poi uccidere.

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Un ossimoro insopportabile quando cerca di accingersi alla vita, specialmente se si tratta di quella delle persone a cui vogliamo bene. Una battaglia. Una sfida che sembra già persa. Un mondo che sembra già crollato. Un gioco di carte piegate all’indietro. Un filo tagliato.

“L’invenzione della madre”, di Marco Peano è un romanzo che racconta come madre e figlio siano uniti per la vita; proprio per la vita intera, sì, e anche per quella destinata a finire in un tempo più breve della felicità stessa.
Malattia. Amore. Due parole contrastanti, due parole che si escludono a vicenda. Due parole che quando coesistono rendono l’essere umani una piaga indelebile.

Mattia ha ventisei anni ed una vita normale. Una famiglia, una fidanzata, un futuro da costruirsi tassello per tassello. Questo almeno finché al suo mosaico non viene tolto un pezzo, per la precisione quello che tiene in vita la madre, una donna che ha portato con sé il cancro per dieci anni, un’anima destinata a lasciare tutto ciò che ama e che odia. Una persona a cui non rimane grande possibilità di scelta, un essere a cui il destino non ha chiesto cosa volesse fare della sua esistenza. La vicinanza tra malattia e scadere inesorabile del tempo rende il rapporto tra madre e figlio ancora più intenso che nella vita quotidiana: una madre che non è più in grado di proteggere, un figlio che non riesce ad accettare un tragico destino.

Chi riesce ad accettare una definitività alla vita? Chi accetta un limite entro cui vivere chi ama?

Un libro che parla di amore spassionato ed appassionato al tempo stesso. Un libro che parla di un destino ineluttabile che ci piomba addosso e dell’enorme capacità che riusciamo a ricavare da noi stessi per affrontarlo. Un libro che è empatia e realtà al tempo stesso. Un libro che insegna a chi non sa cosa significhi e ricorda a chi ha già combattuto contro situazioni così familiari.
Capita raramente che ci si chieda se valga la pena continuare la propria esistenza allo stesso modo; ad un certo punto qualcosa scava dentro di noi arrivando di colpo. Ad un certo punto il battito del nostro cuore si ferma per poi accelerare senza smettere mai. Ad un certo punto la vita smette di lasciarci imparare autonomamente ed inizia ad insegnarci.
Non c’è prontezza, non c’è capacità di essere migliori degli altri, non si sa mai come essere giusti o sbagliati in questo destino che ci chiede sempre di più rispetto a ciò che pensavamo ci presentasse.
Chemioterapia, radioterapia, cure palliative, metastasi, male incurabile. Le parole di cui prima conoscevi un mero significante, iniziano a farsi strada nei più profondi significati. Cosa vuol dire resistere alla malattia? Conviverci, senza avere mai la percezione di esserne capaci.
Viverla, senza lasciare che ci abiti.

E’ quando il tempo manca che non avvertiamo più il terreno sotto ai nostri piedi. E’ quando l’attimo fugge velocemente che non riusciamo più ad afferrarlo. E’ quando la cima sembra troppo alta che vorremmo scalare come dei robot per raggiungerla. Vivere il distacco e aumentare la vicinanza. Soffrire senza che la persona amata se ne accorga e raccontarle che va tutto bene. Essere forte, nonostante vorresti soltanto piangere di rabbia. Sorriderle, perché vale di più la serenità che può rimanerle di un nostro solo attimo di sfogo.
Lo spegnimento di una vita può darti la sensazione che le luci non sono mai state accese; Marco Peano racconta di un protagonista terrorizzato dall’idea di scoprirsi come non si è mai visto, se dovesse perdere una parte di sé. Un ragazzo che lascia la voglia di vivere a sua giovinezza cercando di ricordare ogni cosa e di portarla con sé per quando non ci sarà più.
Sei consapevole del fatto che non sentirai più certi odori, quelli odori così familiari. Che non ascolterai ancora una volta quella voce. Che non potrai litigare con lei di nuovo. Che non potrai riabbracciarla appena torni a casa. Che non aspetterai un momento più opportuno di altri per dirle che le vuoi bene.
Un bene che ti sembra di non aver mai provato. Un bene che ti sembra non poter conservare più dentro di te.

E’ un romanzo di crescita interiore, un romanzo che parla di amore, quello vero e più puro, quello con la “A” maiuscola.
In un vortice di emozioni, non c’è spazio per la razionalità. In un vortice di paura non c’è spazio per aspettare che passi. In un concentrato di ricordi, cerchi di afferrare la vita che hai paura di dimenticare perdendone un pezzo fondamentale. L’invenzione della madre racconta di un cambiamento di posizione: è uno spostamento tra genitore e figlio, in cui le garanzie di sicurezza le assume il secondo, per la prima volta. Un romanzo che racconta coraggio, un romanzo che racconta forza estrema.

La forza che trovi dentro per affrontare te stesso e chi ami di più. La forza che non eri consapevole di avere. Stupendoti, crescerai, diventando conscio di non voler più fermare gli attimi per un’eternità, ma ringraziando l’enorme possibilità che quel destino tanto crudele – nonostante tutto – ti abbia dato l’occasione di vivere.

“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattia. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”.

Susan Sontag

Cecilia Coletta

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La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

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Ottobre rosa

Spogliandosi come faceva ogni sera una volta tornata dal lavoro, Marta quel giorno avvertì al seno sinistro un lieve dolore e spontaneamente ne cercò con la mano il motivo. Nella penombra della sua camera da letto sentì una protuberanza, una pallina dentro di sé. Non si vedeva nulla, ma ne sentiva i contorni e il fastidio che le provocava muovendo il braccio. Avrebbe dovuto farsi controllare, forse, ma in mezzo a tutti i suoi impegni avrebbe trovato il tempo per farlo? Tipico di noi donne; anteporre i doveri alle nostre esigenze.

Un mese dopo quel nodulo non era scomparso; era lì più grosso di prima a ricordare a Marta che avrebbe dovuto decidere di dedicare un momento alla sua salute. Finalmente decise di sottoporsi ad una mammografia a cui seguirono la visita dal senologo, l’ecografia e la scoperta del tumore; l’esame istologico rilevò un tumore maligno. Marta era malata di cancro al seno.

L’oncologo glielo comunicò riuscendo a guardarla negli occhi: Marta ascoltò quella notizia che le avrebbe cambiato la vita per sempre, che l’avrebbe portata ad armarsi di coraggio per combattere con la grinta di chi non sa arrendersi.

L’incredulità, l’incoscienza, il timore di non poter affrontare una malattia così dura. Il chirurgo rivolse a Marta un’unica domanda: “Ha paura, signora?”. Rispose di non averne, preferì mantenere per sé le sensazioni indomabili che le stavano nascendo dentro.

Ci furono dei momenti in cui avrebbe voluto urlare tutta la rabbia che provava di giorno in giorno, in cui avrebbe voluto lasciarsi andare completamente, senza voler convivere con l’ansia che la travolgeva di continuo; provava un senso di impotenza che la lacerava nel suo intimo più nascosto, rendendola – molto spesso – schiava delle sue paure. Da una parte era consapevole di non avere alternative e di dover accettare ciò che le stava accadendo, ma dall’altra era conscia di dover affrontare tutto questo con la determinazione di guarire. Non si sarebbe arresa, la sua forza sarebbe stata capace di guidarla in un percorso così duro, un percorso in cui non soltanto ci si sente private dello stare bene, ma anche dell’ essere donna: sembra intaccata la femminilità, sembra che il cancro non si porti via soltanto una parte di seno, ma anche una parte della natura femminile.

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Marta si sottopose all’operazione a cui seguirono sei sedute di chemioterapia; perse tutti i capelli ed insieme ogni residuo di forza. Avrebbe voluto che finissero presto, quanto desiderava iniziare la sua rinascita! Ogni seduta di chemioterapia, per Marta, era come imboccare un nuovo tunnel, inconsapevole di cosa la aspettasse, vi entrava con angoscia e tensione, accettando ogni giorno il fatto di non poter tornare indietro. La nausea, il vomito, i dolori alle ossa e il forte mal di testa, il cuoio capelluto che sembrava pulsare e il costante timore che “lui” – quel cancro – avrebbe potuto riapparire o addirittura esserci già.

In quello stesso periodo, Marta non si fermò mai, non rinunciò mai al suo lavoro, con l’esclusione dei giorni in cui i dolori non la lasciavano in pace nemmeno per un momento. Investì come sempre nella sua attività, fece la moglie, fece la mamma. Madre e figlia passarono tanti momenti insieme per sostenersi a vicenda: riuscivano ad ironizzare sulla testa pelata di Marta, cercavano di ridere anche quando sembrava impossibile, usavano quel dolore trasformandolo in una forza capace di sconfiggere ogni difficoltà.

I mesi passarono, le sedute di radioterapia conclusero la sua battaglia, caratterizzata da molta paura e altrettanto amore.

Marta guarì nove anni fa, proprio nel mese di ottobre iniziò la sua rinascita. Marta imparò a tirare fuori una forza che aveva dimenticato di possedere, Marta imparò ad amarsi e prendersi cura di sé”

Il mese di ottobre non coincide unicamente con la vittoria di Marta sul cancro, ma è anche il mese dedicato alla prevenzione per il tumore al seno.

Solitamente all’interno della nostra rubrica si parla di violenza sulle donne e si denuncia tale questione sociale, ancora troppo sottovalutata. Tuttavia questa settimana faremo un’eccezione, occupandoci di una malattia diffusa che riguarda, oggi, tante – e aggiungerei troppe – di noi.

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Il tumore al seno è causato dal moltiplicarsi di cellule cancerogene della ghiandola mammaria e ci sono vari tipi di tumore della mammella: il primo per frequenza è il carcinoma.

La AIRC, Associazione Italiana per la Ricerca del Cancro, fornisce alcuni dati sull’incidenza dei tumori e due di questi mi hanno profondamente colpita: un uomo su due e una donna su tre si ammalerà di tumore della mammella e il questo tipo di cancro si posiziona al secondo posto dei tumori più comuni.

La decisione di dedicare il mese di Ottobre al nastro rosa è della Lilt, Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, che persegue ormai questa battaglia da anni arrivando alla XXI edizione. Grazie a questo progetto per tutto il mese sarà possibile effettuare visite al seno e controlli clinici in tutti gli ambulatori Lilt gratuitamente.

Un’altra associazione sensibile a questo tema è “Pink is Good”, progetto della Fondazione Umberto Veronesi, che quest’anno collabora con PittaRosso, nuovo brand di Pittarello Calzature, promuovendo un’iniziativa particolare: il rosso che simboleggia la marca verrà sostituito con il color rosa, sia nelle shopper istituzionali sia con una spilla che verrà indossata da tutto il personale.

La collaborazione non si ferma a delle spille: PittaRosso ha organizzato la “PittaRosso Pink Parade”: una camminata di beneficenza di 5 chilometri, che si terrà a Milano il 26 ottobre 2014, il cui ricavato sarà devoluto alla Fondazione a sostegno del progetto.

Nel nostro piccolo possiamo dare il nostro contributo con un gesto semplicissimo: cambiare la nostra foto profilo di Whatsapp, Facebook o altri social network con l’immagine-simbolo del tumore al seno: il nastro rosa.

Con questo articolo vorrei invitare ogni donna a non rimandare i controlli periodici. Se diagnosticato in tempo, il tumore della mammella può essere sconfitto nell’85% dei casi.

Armiamoci, difendiamoci attraverso prevenzione ed informazione. Pronte a sconfiggerlo, la consapevolezza di come affrontarlo e prevenirlo è il primo passo verso la rinascita.

IO DICO BASTA. E TU? Si dipinge di rosa.

 Katia Maistro

 

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