Il linguaggio osceno della comunicazione politica populista

Se c’è una cosa che tutti sicuramente impariamo durante la nostra esistenza è che l’oscenità rappresenta qualcosa che stimola contemporaneamente disgusto e interesse. E in fondo, forse, anche piacere. Dall’osceno nasce un nuovo linguaggio simbolico, che viene impiegato per creare un’inedita rappresentazione dell’umanità e della società. Anche grazie al processo di mediatizzazione e piattaformizzazione, tipico del terzo millennio, si può notare come l’oscenità sia diventata via via la forma-regina del linguaggio politico, in particolare quello populista. Analizzando la persona politica di Trump, ad esempio, Žižek, a ragion veduta, afferma:

«Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e contorto, nondimeno un senso – che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni (“vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle”) […]» (S. Žižek, Hegel e il cervello postumano, 2020).

In questo modo l’oscenità è veicolo e strumento non solo di solidarietà, ma anche e soprattutto di riconoscimento. Il senso di riconoscimento, come quello di appartenenza, è essenziale a tutti gli uomini, a tutte le autocoscienze, come direbbe probabilmente Hegel. Tutti desiderano essere inclusi da qualche parte e in qualche cosa. Allora, la politica populista, che forza sul concetto di somiglianza, tende a sfruttare in maniera continuativa, quasi estenuante, un linguaggio performativo tale da ricreare un’immagine organica di popolo, e quindi un’identità collettiva.

Il leader politico populista, attraverso la tecnica della disintermediazione, si racconta come un cittadino ordinario, esattamente come i propri elettori, sia nei suoi discorsi sia nei suoi gesti. Egli ha il carisma e la capacità di intercettare l’umore del suo elettorato, per riproporlo allo stesso in una chiave che nella maggior parte dei casi viola le più basilari norme di decenza, giacché egli parla come parlerebbe il popolo. Il linguaggio osceno sperimentato dalla comunicazione populista instilla il seme dal quale nasce l’idea che il leader politico è e fa ciò che il popolo vuole che sia e che faccia.

Il sentimento del popolo, o meglio risentimento, viene raccolto e politicizzato dalla dinamica populista, la quale, quasi mai lo risolve. Il populismo, infatti, si nutre delle falle che si manifestano all’interno del sistema democratico, tenta sempre di mantenerle e sa che per sopravvivere ha bisogno di un’Opinione Pubblica che percepisca costantemente l’instabilità e il pericolo della crisi.

L’oscenità, non solo piace, ma si eleva a sacro e a pubblico:

«Le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplodono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffermarmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente nella mia intima purezza» (ibidem).

Il popolo crede, perché la politica populista viene coltivata quasi come se fosse una missione di fede, in cui il focus è tutto concentrato sul popolo “vero”, che di conseguenza legittima il potere d’azione del leader stesso. Così, l’osceno populista agita gli elettori contro dei “nemici”, li fomenta contro un malessere che un Altro ha creato. “Nothing’s your fault. It’s them, it’s them, it’s them, probabilmente Trump tornerà a ripeterlo agli statunitensi e al mondo, dopo il recente annuncio della sua ricandidatura alle primarie del 2024. 

Nel frattempo, tutti noi, che formiamo la camaleontica Opinione Pubblica, possiamo riflettere su quanto l’oscenità sia oscena, specialmente nel momento in cui produce discorsi e gesti conflittuali e primitivi di “un me contro un te”, perché essi inevitabilmente ci conducono ad un esito di poteri totalmente asimmetrico. La deriva verso cui si spinge e ci spinge la comunicazione populista, come una bomba, allora, può essere disinnescata dall’uso ragionato e ragionevole del senso di riconoscimento che in modo positivo include, ossia ci dà l’opportunità di percepirci e sostenerci a vicenda anche nella nostra diversità e pluralità, e non elude.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Jon Tyson via Unsplash]

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Democrazia e la grande bugia: da Arendt ad oggi

Curioso come i maggiori pensatori di quella che è considerata, non esattamente a proposito, la prima democrazia del mondo occidentale fossero essenzialmente anti-democratici. Per quanto il modello dell’Atene del V e IV secolo a.C. abbia ispirato tanti politologi dei secoli successivi, infatti, ben pochi filosofi vedevano in una sua versione “estesa”, quindi in una effettiva democrazia, una forma ideale di governo. Senza scomodare l’aristocratico Platone, anche Aristotele diffidava della democrazia, che a suo avviso aveva nel proprio punto di forza, la partecipazione del popolo intero, la sua più grande debolezza: troppo facile, pensava, ingannare le masse e manipolarle con parole suadenti e menzogne, spianando così la strada a qualsiasi dittatore dalla parlantina sufficientemente sciolta e con un minimo di carisma.

Facendo un salto in avanti di più di due millenni, il monito aristotelico risuona nell’analisi di Hannah Arendt sull’origine dei totalitarismi del Novecento: alla base di ogni assolutismo, contemporaneo e non, c’è per la filosofa tedesca una «grande bugia», una menzogna ripetuta all’infinito che diventa mito fondante per il gruppo dapprima esiguo, poi sempre più ampio di seguaci del leader di turno. Per Hitler fu l’esistenza di una lobby ebraica che controllava l’economia mondiale, e che aveva decretato la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e la sua successiva crisi economica; per Stalin fu invece la presenza endemica di agenti capitalisti che arrivavano a lasciarsi morire di fame per fingere l’esistenza di una carestia e minare così la prosperità del comunismo sovietico.

Il punto di forza della grande bugia, per Arendt, è la sua pervasività: eliminando la libera stampa e monopolizzando i restanti strumenti di informazione, specialmente la radio per il regime nazista e la televisione per quello sovietico, il mito prende il posto dei fatti, la realtà viene riscritta secondo l’ideologia dominante, e al popolo non resta altra lente che non sia quella deformata dall’alto. La mancanza di confronto con qualcuno esposto a diversa narrazione e l’isolamento dal resto del mondo sono terreno fertile per la grande bugia, che diventa realtà ufficiale, e quello che prima era un capopopolo seguito da una sparuta minoranza diventa l’atteso condottiero capace di liberare le masse da una minaccia da lui stesso inventata e paventata.

Si potrebbe essere indotti a pensare che, in una società pluralista come la nostra, in cui molte e diverse voci si accavallano e si inseguono offrendo fin troppe versioni degli stessi avvenimenti, un rischio del genere sia quantomai lontano, eppure gli ultimi avvenimenti di Washington smentiscono una versione così ottimistica. Vedere migliaia di persone prendere d’assalto il Campidoglio, riunirsi in tutta la città invocando un golpe nel cuore di quella che è ancora la più grande democrazia occidentale, e in seguito organizzarsi online per un successivo raid in concomitanza con l’insediamento del nuovo Presidente eletto, sarebbe già di per sé sconcertante, ma lo diviene ancora di più studiando le motivazioni dei manifestanti. I complottisti di QAnon che vedono in Trump un eroe che combatte in segreto contro gruppi di satanisti pedofili e comunisti sono uniti dalla loro “grande bugia”, cui si è unito adesso l’imperituro mito della “vittoria mutilata”, altra contro-narrazione smentita dai fatti che diventa tradizionalmente humus per personaggi autoritari.

La grande bugia sarebbe dovuto essere sconfitta dalla comunicazione, dal confronto, dalla interconnessione, e la virtuale assenza di isolamento avrebbe potuto essere un ottimo vaccino, ma è accaduto invece l’opposto. Gli algoritmi dei social network che determinano i nostri interessi e le nostre opinioni, chiudendoci in tante echo chamber (= camere dell’eco) in cui il nostro pensiero risuona all’infinito rafforzato da quello di altri che portano avanti le nostre stesse idee, finiscono col privarci di uno scambio, di un confronto, di una comunicazione reale. Un gruppo su Facebook o un trend su Twitter non risultano troppo diversi dagli sparuti gruppetti astiosi e violenti che si trovavano nelle birrerie di Monaco negli anni Venti, intenti a discutere di cose che solo loro sapevano, lontani dal “popolo bue” che non vedeva oltre la versione ufficiale dei giornali.

Per quanto possiamo considerarci connessi, ci ritroviamo ancora una volta soli, in esclusiva compagnia dei nostri miti e di sodali che sono in realtà un nostro specchio, alla mercé di chiunque sia in grado di mentire abbastanza bene da convincerci che la sua grande bugia sia in realtà la “grande verità” che i “poteri segreti” ci nascondono.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Marija Zaric via Unsplash]

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Un’America mai così divisa e divisiva: tre riflessioni sulla democrazia

«Insurrection in Washington following Trump encouragement»: questo uno dei titoli che scorre sul canale della CNN nella notte italiana. All’interno di Capitol Hill1, il Congresso si riuniva in sessione plenaria per confermare l’elezione del presidente eletto Joe Biden; all’esterno, migliaia di manifestanti pro Trump si erano radunati per contestare questo passaggio costituzionale formale. Vistosi “tradito” nelle sue richieste di capovolgere il risultato elettorale al Congresso sia dal leader dei repubblicani in Senato Mitch McConnel, sia dal suo vice presidente Mike Pence, Trump ha infiammato i manifestanti confermando la sua narrazione di elezioni truccate, affermando che «Non ammetteremo mai la sconfitta» e che «È la fine del partito repubblicano, non la nostra». Poco dopo, quegli stessi manifestanti hanno sfondato i cordoni della polizia e preso d’assedio il palazzo, riuscendo a entrare e ad arrivare praticamente indisturbati all’interno delle aule parlamentari e dei rappresentanti.

Migliaia di persone si erano riunite – con il benvenuto dello stesso Trump – per quella che si pensava fosse la sua passerella d’uscita, e che si è invece trasformata nella macchia più imbarazzante al processo elettivo democratico americano. Era addirittura dal 1814 che il parlamento americano non veniva violato, a quell’epoca dagli inglesi. I manifestanti, divenuti rivoltosi, si sono scagliati anche contro i giornalisti. Se, da un lato, si sono viste scene tragicomiche con persone travestite da vichinghi, a petto nudo o vestiti di sole bandiere (per non parlare di un Batman ripreso tra il fumo dei fumogeni che Nolan ha probabilmente applaudito dalla sua poltrona); dall’altro si è assistito alla presenza di vari gruppi di estrema destra – ognuno con i suoi simboli e i suoi rituali – che hanno risposto in forze alla chiamata di Trump con propositi molto più violenti. Vesti da guerriglia urbana, dotati di armi da fuoco, maschere antigas e – confermato dalle forze dell’ordine – pipe bomb2. Questo mostra un’organizzazione che va ben oltre il semplice e sacrosanto diritto a manifestare sancito dal primo emendamento ma piuttosto una predisposizione allo scontro e alla resistenza. Si sono riconosciuti, tra gli altri, il gruppo Qanon (l’uomo vestito da vichingo la cui foto ha fatto il giro del mondo è uno “sciamano” di questo gruppo) e quello dei Proud Boys: gli “hooligans trumpisti” il cui leader è stato da poco arrestato mentre bruciava una bandiera dei BLM e dai quali Trump ha impiegato molto tempo per prendere ufficialmente (?) le distanze.

Rimane tuttora da chiarire come sia possibile che i rivoltosi siano riusciti ad entrare con così tanta facilità a Capitol, che dovrebbe essere uno tra gli edifici più inaccessibili al mondo. Molte immagini hanno mostrato una resistenza leggera da parte delle forze dell’ordine, mentre in qualche caso isolato è stata invece molto dura: una donna ha perso la vita per un colpo d’arma da fuoco in dinamiche ancora da chiarire. Successivamente il conto delle vittime sembra essere salito a quattro, oltre a decine di poliziotti e manifestanti feriti e decine di arresti.

Durante l’attacco, Biden ha chiesto pubblicamente a Trump di esortare le persone a desistere, ma i tweet a cui poi il tycoon ha affidato le sue parole hanno lasciato la maggior parte degli osservatori esterrefatti. Per prima cosa Trump ha registrato un video in cui ripeteva di comprendere il nervosismo e il furore dei suoi sostenitori per le elezioni frodate, invitandoli a tornare in pace a casa ma affermando di amarli (per ciò che stavano facendo?) e descrivendole come persone speciali. Poi ha scritto in un secondo tweet: «These are the things and events that happen when a sacred landslide election victory is so unceremoniously & viciously stripped away from great patriots who have been badly & unfairly treated for so long. Go home with love & in peace. Remember this day forever!»3.

Quindi se, da un lato, praticamente tutti i leader americani e internazionali, i reporter, i conduttori televisivi chiedevano a Trump di normalizzare la situazione e, per lo meno, di farsi carico delle conseguenze delle sue parole (nello studio della CNN si è addirittura arrivato a parlare di «domestic terrorism by Trump supporters»); dall’altro, lui non accennava minimamente a prendere le distanze da quanto stava accadendo e, anzi, continuava a infiammare con le sue parole i rivoltosi. Ma Trump ci ha abituato a comportamenti del genere: basti pensare a quando aveva detto che lui potrebbe sparare a qualcuno in mezzo a Fifth Avenue e comunque non perdere voti4.

Ciò che è accaduto nel pomeriggio americano fa molto riflettere, in particolare per la tenuta del sistema democratico occidentale, che si mostra ogni giorno più traballante. Soprattutto,  sono tre i punti che vorrei brevemente affrontare.
Innanzitutto, abbiamo avuto la prova di come sia diventato imperativo smettere di sottovalutare fake news e gruppi estremisti. I rivoltosi di Capitol sono veramente convinti che Biden abbia rubato e frodato le elezioni (nonostante gli oltre cinquanta ricorsi persi da Trump, anche davanti alla Corte Suprema con sei seggi su nove repubblicani, tre dei quali nominati dallo stesso Trump). Gli appartenenti a Qanon sono veramente convinti, tra le altre cose, che Hilary Clinton, Biden, Obama, Beyoncé e Madonna comandino il mondo, rapiscano bambini e ne bevano il sangue per rimanere giovani. Gli appartenenti ai Proud Boys sono veramente disposti alla guerriglia urbana per impedire a Biden di “rubare la poltrona” a Trump. E queste convinzioni non sono solo colpa di Trump ma anche dell’intero sistema mediato occidentale che per anni ha permesso a qualsiasi politico di qualsiasi Paese di spararla ogni giorno più grossa senza conseguenze, di diffondere impunemente fake news senza essere inchiodato di fronte ai fatti, di de-responsabilizzare la comunicazione. Quest’ultima azione, in particolare, è sotto gli occhi di tutti, ogni giorno: la comunicazione si è trasformata in narrazione. Il populismo e il sovranismo si mantengono in forze grazie ad una narrazione che non ha più nell’informazione il proprio bilanciere, il proprio mediatore, il proprio contraltare. Questo è una comunicazione senza contraddittorio: semplice narrazione, ed è ciò che avviene anche nei nostri salotti televisivi italiani ogni pomeriggio ed ogni sera.

Secondo, dobbiamo porci una domanda seria, che riguarda la totalità del mondo e il futuro di tutti: il capitalismo mondiale ha ancora bisogno della democrazia? A ben guardare, l’ultimo decennio (per lo meno) sta mostrando di no. Al capitalismo imperante (e per certi versi imperialista) sono molto più congeniali gli abiti delle “democrature” che vediamo in Cina, Russia, Turchia, Egitto (ma anche Ungheria, per restare in seno all’Europa). La democrazia, se vuole sopravvivere, necessita di nuovi anticorpi per malattie che sono, appunto, nuove e non possono essere affrontate con mezzi e categorie appartenenti ormai al passato. Lo scontro frontale con i colossi aziendali internazionali, con quelli del web e con quelli della finanza sta sancendo definitivamente la morte dell’apparato democratico come siamo abituati a intenderlo. Al capitalismo del nostro secolo è molto più congeniale un Trump che non crede al riscaldamento globale, che mette in secondo piano i diritti e che cerca di rincorrere solamente lo sviluppo tecnologico ed economico. Forse è arrivato il momento di chiedersi cosa intendiamo con “sviluppo” e a riconoscere che la democrazia, per essere salvata, necessita dell’aiuto di tutti noi, ogni giorno.

Terzo, risulta necessario riconoscere che la grande spaccatura tra mondo virtuale e realtà può avere conseguenze, anche molto pesanti, per tutti. I rivoltosi di Capitol (come tutti i negazionisti, sovranisti e populisti di tutto il mondo) sono rimasti intrappolati e imbottigliati dagli algoritmi dei social network in bolle virtuali che sono sempre più distaccate dalla realtà. Queste si nutrono di teorie del complotto che a prima vista possono anche apparire innocue (il NWO, la terra piatta ecc.) ma che invece alimentano bias cognitivi e sentieri di ragionamento che poi vengono nel tempo reiterati automaticamente e portano alla totale perdita di giudizio e pensiero critico. Questo poi ha inevitabilmente ricadute sulla realtà – che non rispetta quanto essi hanno edificato all’interno delle loro bolle – e anche per questo lo scontro con il reale diventa poi violento e imprevisto, come abbiamo assistito questa notte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. La sede del governo degli USA che comprende Campidoglio, Senato, Camera e Corte Suprema.

2. Bombe artigianali, formate da un cilindro riempito di esplosivo e, solitamente, frammenti taglienti.
3. Letteralmente «Questo è ciò che succede quando una sacra vittoria schiacciante è strappata in modo brutale dalle mani di grandi patrioti che per troppo tempo sono stati trattati ingiustamente e malamente. Tornate a casa con amore e in pace. Ricordiamoci di questo giorno per sempre!» (trad. mia).
4. https://www.ilpost.it/2016/01/25/trump-non-puo-perdere-voti/

[Photo credit  via Unsplash]

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Un anno di Trump tra Twitter e fake news: verità e post-verità

Il 20 gennaio scorso si è celebrato il primo anniversario dell’insediamento di Donald J. Trump come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. I bilanci di questo primo e assurdo anno di amministrazione di The Donald si sprecano e si sprecheranno. Tra analisi sulla politica interna ed estera, Russiagate e immigrazione, sono molti i punti che meritano attenzione. I successi sono stati pochi: la nomina di un giudice della Corte Suprema e la riforma fiscale, mentre le sconfitte vanno dalla fallita abolizione dell’Obamacare alla perdita di un seggio sicuro al senato fino allo shutdown del governo. Quello che più ha stupito di Trump presidente, in questi dodici mesi, è stato però l’atteggiamento che ha quasi sempre tenuto nel dibattito politico e nei suoi rapporti con la stampa. Laddove si pensava che la comunicazione di Trump istrionica, esagerata e infarcita di bugie in campagna elettorale, potesse avere una svolta istituzionale una volta diventato presidente, si è stati ben presto smentiti dall’interessato.

Se torniamo con la memoria al giorno dell’insediamento ci potremmo ricordare che tutto cominciò con una colossale bugia. Trump e la sua amministrazione dissero che la cerimonia era stata un successo, una delle più seguite di tutti i tempi. Le foto del prato semideserto a confronto con quelle dell’insediamento di Obama smentirono quella affermazione, sebbene Trump e i suoi continuassero a proporre un altro tipo di verità.

La realtà alternativa o post verità è stata una costante prima nella campagna elettorale e poi nella presidenza Trump. Bugie dette non solo per promettere cose irrealizzabili o infuocare gli animi della base, ma per creare una narrazione del “noi” contro “voi” che ha polarizzato l’opinione pubblica e ha garantito a The Donald il sostegno di quelli che l’hanno votato. Dire la verità non è più un asset così vantaggioso, meglio costruirsene una.

Trump da quando si è candidato ha rotto costantemente le regole della dialettica tra uomini politici. Lo ha fatto un po’ consciamente e un po’ di puro istinto, quello per la battuta pesante, per la risposta arrogante e per il contrattacco come forma di difesa. Nessun presidente ha mai preso così sul personale le critiche al proprio operato o all’operato della propria amministrazione. E l’opinione pubblica americana non è stata tenera con nessun presidente, escluso forse il primo Obama.

Il presidente ha bollato ogni critica a sé e ai suoi collaboratori come fake, falsa, e ha iniziato a chiamare tutti i media critici fake news media, dalla Cnn a New York Times e Washington Post, meno il conservatore Fox News ritenuto invece affidabile. Trump ha accusato questi giornali e canali televisivi non solo di essere faziosi e schierati con i democratici, ma di inventarsi notizie con il proposito di screditarlo. Il tutto l’ha riassunto con la frase, più volte pronunciata: “You are fake news!”, riferita ai media sgraditi.

Un altro punto della presidenza Trump da sottolineare è il massiccio e sregolato uso di Twitter. Trump nel suo primo anno ha scritto 2595 tweet dal suo account personale e solo 2 da quello ufficiale @POTUS. Su Twitter Trump ha dettato l’agenda politica, ha criticato e insultato i democratici come i repubblicani non allineati e ha cercato di gettare discredito sulla stampa americana come sull’inchiesta che lo coinvolge. Il presidente è parso più volte preso da un raptus incontrollato che lo ha portato ha twittare più volte in pochi minuti, magari dopo essere venuto a conoscenza di qualcosa a lui sgradito dalla televisione.

Ha scritto ciclicamente che Hillary Clinton è corrotta e meriterebbe la galera, ha retwittato video falsi e islamofobi e un altro in cui, fuori da un ring di wrestling, mette al tappeto un uomo, che ha però il logo della Cnn sulla testa. Solo per citare alcune delle sue uscite social più famose.

L’impulsività e la litigiosità di Trump sui social, quando cioè è lasciato solo e libero di esprimersi, contrasta con i discorsi che fa invece leggendo dal gobbo. I secondi, come l’ultimo sullo stato dell’Unione, risultano molto più normali. Alla luce anche di questo, oltre che della sua e della dieta, hanno fatto dubitare a molti della salute e della stabilità mentale del presidente. Per fugare questi dubbi Trump si è fatto visitare recentemente e il suo medico ha fatto sapere che il presidente è in forma.

Esclusa per il momento l’ipotesi che il presidente degli Stati uniti d’America non sia totalmente sano di mente, resta il fatto che agendo come ha fatto nell’ultimo anno Trump ha cambiato il dibattito pubblico americano. Attaccando per non essere attaccato, insultando per primo o in risposta ad altrui offesa di certo non è riuscito a essere il presidente di tutti anzi. Forse Trump è sia la causa che l’effetto dell’odio e dell’intolleranza che vediamo riversata quotidianamente nella rete.

Di certo un presidente così, con questo modo di comunicare non si era mai visto. E anche i sondaggi che mostrano la politica Usa sempre più polarizzata tra destra e sinistra fotografano probabilmente sia la causa che l’effetto di un dibattito non sano. Sarà Trump un prodotto di questi tempi, chi lo sa. Forse non starà cambiando l’America, ma di sicuro il modo in cui si vive la politica.

Tommaso Meo

 

Letture consigliate per approfondire:
NY Daily News, Trump is a madman
Il Post, Il primo anno di Donald Trump da presidente, in cifre

 

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Città santa, città martire

Tra gli stretti vicoli di Gerusalemme, seminascosta dai palazzi fatti costruire da Ṣalāḥ ad-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (l’italiano Saladino), sorge la Basilica del Santo Sepolcro, la chiesa costruita sul luogo dove tradizione vuole che morì, fu sepolto e risorse Gesù Cristo. Sulla facciata, elemento curioso, si nota una scala di legno: di anno in anno la scala rimane, per quanto abbia evidentemente cessato la propria utilità. La ragione è il cosiddetto Status Quo: la Basilica è amministrata da diverse confessioni cristiane, con compiti e aree severamente divisi per ognuna. Nessuno sa, però, chi abbia messo la scala sulla facciata e nessuno sa quindi a chi spetti toglierla; col rischio di sconfinare nel terreno di competenza altrui, tutti hanno preferito lasciare la scala dov’era, e dov’è tutt’ora. Una simile dinamica può apparire assurda in qualunque altro contesto, ma non certo al Santo Sepolcro: solo pochi anni fa, un frate francescano e un monaco ortodosso hanno iniziato una rissa perché uno dei due, spazzando, è finito a pulire il territorio dell’altro.

Questa è Gerusalemme: la Città Santa, perla del Medio Oriente, terra sacra per le tre maggiori religioni monoteiste del pianeta, crocevia di culture, lingue, popoli e nazioni, eppure spazio diviso e settorializzato come nessun altro al mondo. Ogni etnia, ogni religione e perfino ogni confessione di queste ha un suo quartiere, immediatamente identificabile dalle bandiere fieramente appese a case e luoghi di culto, territori marcati e difesi che testimoniano nella pietra il fragile ma secolarmente stabile equilibrio creatosi tra le molte anime della città. Gerusalemme è costantemente sul piatto di una bilancia, e ogni minimo cambiamento può causare ripercussioni e stravolgimenti, spesso e volentieri violenti, prima di un nuovo, sofferto assestamento.

Con tutta la grazia, l’attenzione e la delicatezza di cui ha dato ampia dimostrazione nel suo primo anno di presidenza, Donald Trump ha deciso di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv, capitale riconosciuta dello Stato di Israele, a Gerusalemme, la capitale storica del Regno di Israele, rivendicata da sempre da movimenti sionisti e neo-sionisti sempre più presenti (e violenti) sul territorio. Il trasferimento, chiaramente, non è una mera questione di indirizzo civico: con questa mossa, di fatto, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti riconoscono in Gerusalemme la capitale dello Stato di Israele, sfidando ogni sanzione internazionale sull’occupazione militare ancora in corso, sugli insediamenti abusivi, sulla politica di apartheid promossa da Israele, e destabilizzando ulteriormente un Mondo Arabo mai così vicino al punto di deflagrazione.

Gerusalemme è sì la città del Gran Re, sede del Tempio di Salomone (o di ciò che ne resta: il Muro Occidentale), ma è anche il luogo della manifestazione della salvezza per i cristiani, e quello da cui il profeta Muhammad ascese fisicamente al cielo per i musulmani. Unica al mondo, è città santa per tutti e conseguentemente città contesa, come testimoniano secoli di Crociate e guerre. Toccare Gerusalemme è toccare il mondo intero, e una simile decisione da parte di Trump, che appoggia così esplicitamente i movimenti sionisti, non rischia solo di alienargli le simpatie degli storici alleati turchi e sauditi, ma anche e soprattutto di dare fuoco a quella grande polveriera che è ormai tutta l’area mediorientale, scatenando nuovi conflitti internazionali e intestini. Il lampedusiano «Tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è»1 non trova posto in una realtà, in una città, che si fonda su delicatissimi equilibri tessuti in secoli di conflitto e in fiumi di sangue versato, in conquiste e in trattati. Anche quel surrogato di pace così faticosamente conquistato a Gerusalemme può andare in pezzi come cristallo a causa di una singola decisione mossa parimenti da ignoranza e arroganza.

Per il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, e per molti altri, la pace nel mondo dipendeva, in modo quasi mistico, dalla pace in Terra Santa, una pace oggi un po’ più lontana di quanto non lo fosse ieri. Non resta che associarsi alla supplica di uno dei salmi più belli consegnatici dalla tradizione ebraica, il 121/122: «Chiedete pace per Gerusalemme: sia pace a chi ti ama, pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici».

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1 cfr. Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958. 

[Immagine tratta dall’archivio personale dell’autore]

 

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Dewey e la democrazia radicale, tra complessità e intenzionalità comune

La società umana si evolve nel segno della complessità. I saperi diventano più settorializzati e corrispondentemente meno accessibili e possiamo raffigurarci la crescita della complessità come una moltiplicazione di vocabolari i quali, a mano a mano che si sviluppano, diventano reciprocamente intraducibili, se vogliono mantenere la propria specificità. Una delle conseguenze più lampanti di tale processo è la frammentazione dell’opinione pubblica, cristallizzata in spaccature politiche a tratti mai tanto evidenti, che trova casa nell’individualismo montante nelle nuove generazioni, che si spinge fin nel cuore di quei mezzi che, idealmente, rispondono a un crescente bisogno di connessione e comunicazione (leggi: social media, ma anche l’internet in generale), ma che finiscono per rimanere intrappolati nelle distorsioni cognitive che ci portiamo appresso.

Parallelamente a tale frattura, possiamo riconoscere un trend interno al processo democratico che ha progressivamente allontanato l’elettorato dal legislatore e (a tratti) dalla figura dell’esperto, alleanza sempre più frequente e ben esemplificata dai numerosi governi tecnici cui abbiamo assistito nel recente passato.

Il tema fu portato al grande pubblico grazie al dibattito tra il filosofo americano John Dewey e il giornalista Walter Lippmann: quest’ultimo negava che il pubblico avrebbe potuto mantenere il proprio ruolo privilegiato all’interno della democrazia, poiché l’avvento dei mass media lo stava rendendo sempre più manipolabile e di conseguenza incapace di prendere decisioni autonome. La soluzione? Virare verso la tecnocrazia.

Nulla di tutto ciò suonerà particolarmente nuovo al lettore; Dewey fu un accanito difensore della democrazia, e propose utili riflessioni in proposito: nel suo Comunità e potere1, egli si concentra in particolar modo sulla transizione tra ciò che egli chiama «Grande Società» e la «Grande Comunità». Nel prosieguo dell’esposizione, tenterò di rendere intelligibile questo passaggio e di come questo si agganci alle tematiche attuali.

Innanzitutto, la democrazia per l’autore americano è da intendersi come etica, riprendendo l’idea greca di ethos come insieme di costumi, norme, atteggiamenti, sentimenti e aspirazioni che caratterizzano la vita di un popolo. Lo Stato non deve le proprie origini a una qualche causa trascendentale, bensì al fatto che la comunità di persone, diventando più numerosa e di conseguenza più vulnerabile alle manchevolezze dei propri membri, decide di tutelarsi dalle conseguenze indirette delle azioni individuali; vengono eletti dei pubblici ufficiali affinché gli interessi comuni vengano protetti e gli ufficiali, a loro volta, vengono vigilati dal pubblico, il quale controlla i loro appetiti egoistici attraverso il meccanismo dell’elezione periodica.

Il processo decisionale, tuttavia, non è riuscito a tenere il passo di una crescente complessità. Quella natura processuale della democrazia, ben descritta da Tocqueville nel suo La democrazia in America, si è ridotta progressivamente alla conta delle preferenze degli elettori, come su di un pallottoliere. Non che la democrazia come calderone di tutto ciò che porta alla definizione, sempre dinamica e a circolo aperto, di quelle opinioni sulle quali gli elettori si esprimono, sia venuta a mancare; ma il battage dell’expertise ha oscurato ulteriormente tale processualità, spostando i riflettori sulla figura dell’esperto e lasciando al pubblico il “mero” esercizio del voto.

Questo scollamento tra policy makers e pubblico annebbia la visione d’insieme: in primo luogo, come il recente caso Trump ammonisce, problematiche scientificamente ovvie – il riscaldamento globale – possono essere così lontane dalla coscienza del pubblico, che la sola conoscenza accademica non riesce a smuovere l’impasse. Rischiamo di alimentare un intellettualismo privo di braccia. In seconda battuta, la figura stessa dell’intellettuale e dell’esperto è stata a tratti sopravvalutata, non quanto alla risoluzione di teoremi o ad avanzamenti nanotecnologici, bensì quanto alla risoluzione di problemi pratici; attualmente, impieghiamo risorse mentali vergognosamente insufficienti per rispondere alla difficoltà dalle sfide contemporanee.

Allontanandosi da qualsiasi contrattualismo semplicistico, la società per Dewey non è un aggregato di individui, non una necessaria frizione di soggetti: si tratta di un organismo che agisce, guidato da intenzioni comuni. All’intenzione è pregiudiziale la comunicazione; di conseguenza, un volere diviso si rispecchia in una trasmissione di saperi altrettanto frammentaria. «Abbiamo strumenti materiali di comunicazione che non abbiamo mai avuto nel passato; ma i pensieri e le aspirazioni conformi a tali strumenti non si comunicano e quindi non diventano comuni a tutti. Senza tale comunicazione d’idee il pubblico rimarrà oscuro e informe, cercandosi spasmodicamente, ma afferrando e trattenendo la sua ombra anziché la sua sostanza. Finché la Grande Società non si convertirà in una Grande Comunità, il Pubblico rimarrà in uno stato di eclisse. […] La nostra non è una Babilonia delle lingue, bensì dei segni e dei simboli, in mancanza dei quali è impossibile un’esperienza comune»2.

Queste parole sono cariche di suggestioni e lasciano aperte molte questioni. Quali sono “i pensieri e le aspirazioni” dell’interconnessione contemporanea, forse la comunicazione universale, oltreché istantanea ed efficiente? Quali le forme che realizzano un’esperienza comune, oggi che abbiamo innalzato algoritmi a cementare le nostre tensioni monadiche? La complessità avanza, la velocità incalza, ma la dimensione dell’umano ci richiede di ritornare pazientemente sui nostri passi e di confrontarci con le questioni che ci toccano più da vicino: la nostra capacità di costruire in comune, accordando l’intenzione dei singoli a una visione più ampia, smuovendo le coscienze dal proprio torpore individuale, stando attenti a non sacrificare la ricchezza della particolarità singolare.

 

Alessandro Veneri

Mi piace pensare. Cerco di distillare i contenuti che mi attraversano la coscienza, affaccendandomi talvolta per metterli su carta o codici binari. 
Un mantra di questo periodo è sperimentare se le scelte difficili rendano la vita un po’ più facile. In attesa di scoprirlo, le giornate si arricchiscono di studio filosofico, copywriting, passeggiate, e della presenza di cari amici.

 

NOTE:
1. Cfr. J. Dewey, Comunità e Potere, La Nuova Italia, Firenze 1971. L’edizione originale in inglese, dal titolo The public and its problems, è del 1927.
2. J. Dewey, Op. cit., p.112.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Selezionati per voi film: ottobre 2017!

A ottobre l’autunno entra nel vivo e così anche la voglia di tornare al cinema si rinnova, complice un clima più rigido e una proposta cinematografica decisamente più interessante rispetto alla stagione estiva. Ecco i nostri consigli, non perdeteveli!

 

FILM IN USCITA

blade-runner LA CHIAVE DI SOPHIABlade Runner 2049 – Denis Villenueve
“Blade Runner 2049” è uno dei film più attesi di quest’annata cinematografica. Mettere in scena il sequel di una pietra miliare del genere fantascientifico non è stata certo una scommessa facile per il regista Denis Villenueve (autore del recente “Arrival” e di “Sicario”). Dalle prime immagini trapelate dal set possiamo però immaginare che si tratterà di un’opera ad alto tasso spettacolare e con un cast a dir poco strepitoso. Dall’intramontabile Harrison Ford, alla nuova star di Hollywood Ryan Gosling, fino all’attore-cantante Jared Leto visto di recente nel ruolo del Joker in “Suicide Squad”. Se siete amanti del genere è un film a cui non potrete rinunciare. USCITA PREVISTA: 5 OTTOBRE 2017

battaglia-dei-sessi la chiave di sophiaLa battaglia dei sessi  – Jonathan Dayton, Valerie Faris
Dopo l’Oscar conquistato grazie a “La La Land” Emma Stone torna sul grande schermo per impersonare la campionessa di tennis Billie Jean King. Personaggio realmente esistito, che nel 1973 sfidò il tennista Bobby Riggs in un incontro che passò alla storia come una vera e propria “Battaglia dei sessi”. Un inno all’emancipazione femminile, costruito con grande perizia storica e attenzione per i dettagli. Un film di grandi attori e piacevole intrattenimento per riscoprire una delle vicende sportive più appassionanti del secolo scorso. USCITA PREVISTA: 19 OTTOBRE 2017 

finche-ce-prosecco la chiave di sophiaFinché c’è Prosecco c’è speranza – Antonio Padovan
Campagna veneta, colline del Prosecco. L’ispettore Stucky (interpretato da Giuseppe Battiston) è chiamato a investigare su un apparente caso di suicidio: quello del facoltoso conte Desiderio Ancillotto, che si è tolto la vita con un gesto teatrale e improvviso. Tra filari e bollicine, il tenace ispettore si confronterà con bottai, osti, confraternite di saggi bevitori, realizzando che la chiave per risolvere il mistero sta nella peculiare visione della vita che anima la zona. Tratto dal libro omonimo di Fulvio Ervas, il nuovo film del regista Antonio Padovan è un convincente giallo in salsa veneta, sempre in bilico tra il genere crime e la commedia sofisticata. Da non perdere se amate il vino e le storie ambientate nei paesaggi della Marca trevigiana. USCITA PREVISTA: 31 OTTOBRE 2017

 

UN DOCUMENTARIO

una-scomoda-verita-chiave-di-sophiaUna scomoda verità 2 – Al Gore
Undici anni dopo il documentario premio Oscar sul riscaldamento globale, Al Gore torna a parlare della questione ambientale in “Una scomoda verità 2”: primo caso di sequel fatto nel genere documentario che parte dalla politica energetica di Trump e dalla cancellazione degli accordi presi da Obama sull’inquinamento. Un film di estrema attualità che può aiutarci a comprendere in che direzione stia andando il nostro Pianeta, sempre più minacciato dalla mano dell’uomo. Esposizione chiara dei fatti e immagini di grande impatto visivo, rendono il film voluto da Al Gore un ottima cartina di tornasole per comprendere l’attualità e il Mondo in cui viviamo. USCITA PREVISTA: 26 OTTOBRE 2017

 

Alvise Wollner

 

UNA SERIE TV

bojack-horseman_la-chiave-di-sophiaBoJack Horseman
Se un cartone animato diventato serie tv vi fa brillare gli occhi ripensando ai tempi in cui guardavate i classici Disney… beh meglio che stiate lontani da BoJack Horseman. Perché la serie tv di Netflix è in realtà un concentrato di cinismo e malinconia. Protagonista è un cavallo, attore di mezza età che dopo una sitcom di grande successo quando era giovane non ha girato praticamente più nulla e passa il tempo tra rapporti autodistruttivi, sigarette, alcool e chiamate alla sua agente alla ricerca di consolazione.
BoJack Horseman è divertente, acuto, nichilista; fatevi stupire dal cartone meno politically correct mai realizzato.

Lorenzo Gineprini

 

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Il connubio tra politica e cultura

A scuola ci hanno insegnato a non pensare a compartimenti stagni: anche se storia, arte, letteratura e filosofia sono materie separate, è importante capire che in ogni contesto storico esse sono strettamente intrecciate. Ma è possibile rendersene conto quando lo si vive in prima persona?

Brexit, l’elezione di Donald Trump, i timori precedenti le elezioni olandesi, tedesche e francesi, ci ricordano quotidianamente che esiste una fetta di società che non fa mistero di valori ed idee poco moderati. Solo qualche anno fa, l’elezione di personalità come Donald Trump ad una simile carica politica sembrava una prerogativa prettamente italiana e all’estero un’incredulità mista ad orrore spesso regnava di fronte alla continua (ri)elezione di un politico conosciuto per un atteggiamento poco rispettoso nei confronti delle donne.

Ma come ci hanno insegnato a scuola, la storia e dunque la politica non vivono una vita a sé stante: esse si inseriscono in un contesto culturale più ampio. Se siano esse ad influenzare o siano influenzate, è difficile da definire e con ogni probabilità dipende dallo specifico contesto storico.
Analizziamo quello attuale. L’inizio della seconda decade degli anni Duemila ha visto il delinearsi di una subcultura1 che, emersa a ridosso di un periodo di relativo benessere, si vuole porre in antitesi alla cultura di massa. Nel tentativo di differenziarsi dal mainstream (ciò che è convenzionale e maggioritario) riscopre aspetti che erano stati accantonati in nome dello sviluppo tecnologico e del benessere: il retrò e il vintage, l’ambiente e la natura, l’arte e la letteratura.

La storia dell’arte ci insegna che anche le innovazioni artistiche diventano mode: una parabola naturale che non le vede più prerogative di una nicchia di artisti, ma una caratteristica di molti, e che generalmente segna l’inizio del loro declino. In maniera simile, alcuni di questi ‘nuovi’ elementi culturali  hanno progressivamente coinvolto e interessato un numero di persone sempre maggiore. Ad oggi, alcuni di essi definiscono a pieno titolo il profilo culturale della società attuale. Basti pensare che nel 2016, il numero di vinili venduti nel mercato britannico è aumentato del 53% rispetto all’anno precedente2, o che nello stesso anno i musei italiani hanno registrato numeri di visitatori da record, in alcuni casi con un incremento del 70%3 degli ingressi.

Favorita dall’uso pressoché universale di Internet e dei social media, dalla velocità a cui le informazioni circolano e dalla libertà con cui possono essere condivise, questa cultura incontra la politica e se ne lascia influenzare.

L’incontro avviene in un contesto storico-politico dominato da incertezze, in cui le paure spingono a sostenere idee poco moderate, si mettono in dubbio le strutture esistenti ed i traguardi raggiunti, “machismo” e xenofobia ritrovano uno spazio politico proprio. In un quadro simile, il ritorno all’antico e alla natura, tipici del contesto culturale degli anni Dieci, dà convenientemente una risposta alla sensazione di insicurezza generalizzata, permettendo un ritorno alle origini che offre protezione.

Questo incontro in cui politica e cultura si rafforzano l’una con l’altra ha ripercussioni su due piani: quello pubblico e quello privato. Sul piano pubblico l’antitesi al mainstream e la volontà di differenziarsi da esso diventano opposizione di principio a tutto ciò che sembra rappresentare l’establishment. Nell’immagine collettiva il potere costituito ed il sapere riconosciuto diventano necessariamente un nemico che va smascherato: il potere politico tradizionale deve essere combattuto dalle nuove forme di democrazia; il sapere medico viene rinnegato e le sue cure rifiutate in numeri sempre più pericolosamente significativi. La sfera privata diventa l’elemento a cui guardare in cerca di protezione: al riparo da una situazione esterna caotica, la famiglia ritrova una raison d’être nella sua forma più tradizionale, ‘minacciata’ allo stesso tempo da un concetto di unità familiare non più basata sull’unione uomo-donna. Supportata da un nuovo autoritarismo politico4 e dalla ribadita importanza dei legami di sangue, si chiude dentro sé stessa, definisce una netta separazione dei ruoli all’interno del nucleo domestico e, nei casi peggiori, giustifica la violenza di genere, quasi a voler dimostrare che l’indipendenza femminile raggiunta ed il suo riconoscimento siano stati dopotutto una chimera5. Donald Trump non sarebbe potuto diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America, senza il supporto di un contesto culturale che ritiene certi atteggiamenti nei confronti delle donne non così gravi da impedire di vincere le elezioni a colui che illusoriamente si definiva come l’anti-establishment; similarmente, un politico che ritiene che le donne siano “meno intelligenti e dunque si meritino un salario inferiore agli uomini” non si sentirebbe libero di fare certe dichiarazioni in sede di Parlamento Europeo6.

La mancanza di una capacità critica costruttiva è ancora una volta la grande lacuna dell’opinione pubblica, aggravata dalla tendenza a radicalizzare le proprie posizioni. La consapevolezza di certi perversi andamenti culturali e politici non manca completamente: è importante però saperli riconoscere, indagare e spiegare in un più ampio contesto, così da non diventarne involontariamente noi stessi suoi fautori.

Francesca Capano

NOTE:
1. Con il termine ‘subcultura’ si intende un sottoinsieme culturale che si differenzia da un insieme culturale più ampio di cui fa parte (vedi Enciclopedia Treccani).
2. P. Castelluccio, Vinile, record di vendite nel 2016, “Parkett”, gennaio 2017.
3. Dati del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, 2016
4. Russia: Vladimir Putin firma la legge che depenalizza le violenze domestiche, “Huffington Post”, febbraio 2017
5. L. Melandri, L’eterno ritorno di patria, famiglia e autoritarismo, “Internazionale”, novembre 2016
6. F. Mochi, Europarlamento, intervento choc: “Donne meno intelligenti, devono guadagnare meno”, “Adkronos”, marzo 2017

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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