Un grado e mezzo e forse più: è tempo di una presa di coscienza

Perché contrastare il cambiamento climatico è un dovere sempre più urgente di cui la politica non si fa carico.

 

Ha avuto molta eco la notizia del nuovo report1 pubblicato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite, il più importante organismo scientifico dedicato alla ricerca su questo tema. Il rapporto, redatto da 91 autori e che cita migliaia di studi scientifici, fa passare in sostanza due messaggi abbastanza chiari: il primo è che bisogna limitare l’aumento della temperatura media del pianeta a non più di 1.5 gradi per scongiurare rischi catastrofici, il secondo è che bisogna fare presto. Quanto presto? Il rapporto parla di 12 anni: si devono intraprendere da subito misure che limitino l’aumento di temperatura entro il 2030, o per molte aree sarà troppo tardi.

Cosa succederebbe in concreto? Aumenterebbe il numero delle persone colpite da ondate di calore, oltre a estati torride e eventi estremi che renderebbero anche più difficile la coltivazione dei cereali, prima fonte di nutrimento per miliardi di persone. Scomparirebbero le barriere coralline e i loro ecosistemi. Gli oceani si alzerebbero in media di 10 centimetri, rendendo difficile o impossibile la vita a milioni di persone che vivono sulle coste. Tutto ciò comporterebbe migrazioni di massa.
In via teorica quindi la soglia da non oltrepassare sarebbe di 1.5 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, ma la realtà è diversa. L’accordo di Parigi sul clima, il più grande patto tra paesi firmato nel 2015, prevedeva di ridurre le emissioni entro il 2050 in modo da non far aumentare la temperatura più di 2 gradi. L’accordo sul clima è stato un grande passo, ma da allora gli Stati Uniti di Trump si sono sfilati e adesso anche il Brasile potrebbe farlo considerando le posizioni del suo nuovo presidente eletto, il populista di estrema destra Bolsonaro. Ora, alla luce del rapporto IPCC, anche quello che è stato uno storico traguardo, seppur indebolito, appare come non più adeguato.

Ridurre le emissioni ed evitare che il nostro pianeta si scaldi sopra la soglia del grado e mezza è al momento possibile solo se tutto il mondo iniziasse a lavorarci immediatamente. Cosa che comporterebbe un drastico cambio nei metodi di produzione dell’energia, nella gestione dell’agricoltura e dei trasporti. Il rapporto stima che per raggiungere l’obiettivo virtuoso sarebbe necessario una spesa annua pari al 2,5% del Pil mondiale, per 20 anni. Le emissioni così dovrebbero dimezzarsi in soli 12 anni e azzerarsi entro il 2050, per rimanere entro gli 1,5 gradi, o non oltre il 2075 per stare sotto i 2. Ma potrebbe non bastare. Secondo il rapporto i paesi di tutto il mondo dovrebbero inoltre sviluppare una tecnologia, non ancora testata su larga scala, per rimuovere ogni anno miliardi di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera. Per questo stime ottimiste danno infatti già per sforati i 2 gradi nei prossimi decenni, altre addirittura i 3.

Alla luce di questi dati il riscaldamento globale è ancora più chiaro essere la grande minaccia di questo secolo per la Terra. Il fatto è che lo si sa e lo si dice da tempo. Il problema si conosce dalla fine degli anni ’60, ma tra contro rapporti commissionati e confezionati ad arte da giganti degli idrocarburi come Exxon e amministrazioni apertamente contrarie, la sensibilità collettiva si è formata, con difficoltà, in un periodo abbastanza recente.
Non sembra però essere ancora un problema così sentito, da mobilitare masse di elettori e spostare voti. Non è un tema da mettere in agenda e da cavalcare per quasi nessuno. L’Italia ne è la conferma: nell’ultima campagna elettorale le tematiche ambientali sono sparite da programmi e dibattiti. E poi c’è il problema dei media. Si fanno un paio di pagine quando esce una notizia sul riscaldamento globale, in alcuni casi neppure quelle, e poi silenzio. Non fa vendere, e un settore in crisi non se lo può permettere. È un problema perché se la politica non se ne occupa dovrebbero essere i media a formare le coscienze e fa servizio pubblico su una questione così importante.

In un lungo e documentato articolo su Valigia Blu, Angelo Romano ripercorre la storia del dibattito sul clima e dei momenti che potevano essere risolutivi e non lo sono stati. Romano cita una frase dura e illuminante di un giornalista del New York Times, Nathaniel Rich, che già 30 anni fa, occupandosi della questione ambientale, scriveva: «Gli esseri umani, che si tratti di organizzazioni globali, democrazie, industrie, partiti politici o individui, non sono in grado di sacrificare la convenienza attuale per prevenire un danno imposto alle generazioni future». Decenni dopo continua a prevalere l’agenda dell’immediato, non una visione di futuro. E meno male che sarebbe la sfida del nostro tempo.

 

Tommaso Meo

 

NOTE
1. Questo il rapporto del IPCC – Intergovernmental panel on climate change.

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Le carceri in Italia e una riforma bloccata

La fine della scorsa legislatura ha determinato l’abbandono della legge sullo ius soli, per la quale non è stato fatto nessun tentativo di approvazione in extremis. In aula non servirebbe neppure tornasse la riforma delle carceri, ma potrebbe fare la stessa fine. La legge delega del 23 giugno 2017 imponeva al Governo di riformare, secondo direttive del parlamento, l’ordinamento carcerario. Dei quattro decreti attuativi nati dopo mesi di lavoro e in chiusura di legislatura, solo uno sembrava avere possibilità approvazione. È quello che aumenta la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere.

La situazione anche per questo decreto è attualmente, e da mesi ormai, in fase di stallo perché il governo Gentiloni non si è preso la responsabilità politica di approvarlo e ora, dopo le nuove elezioni, con la crisi di governo e dovendosi ancora insediare le commissioni, la questione è ancora più complicata. Molti politici, tra cui il presidente del Senato Roberto Fico, spingono per una sua approvazione nella commissione speciale, ma questa non ha voluto mettere il decreto in calendario. I margini di manovra sembrano quindi molto stretti, a meno di un colpo di mano del governo. Il governo Gentiloni, ancora in carica per gli affari correnti, avrebbe potuto decidere di approvare il decreto attuativo senza aspettare un passaggio nella commissione speciale, secondo alcuni costituzionalisti, ma difficilmente avrebbe potuto farlo per non essere accusato di questa forzatura. Inoltre la delega scade il 3 agosto e si vanificherebbero anni di lavoro.

La riforma dell’ordinamento penitenziario sarebbe una scelta di buonsenso, che andrebbe a modificare e attualizzare la vigente legislazione del 1975. L’Italia è stata già condannata nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani, proprio per le condizioni carcerarie disumane del nostro paese. Ma secondo una buona parte delle forze politiche, dai 5Stelle alla Lega, la riforma sarebbe solo uno “svuota carceri”, o alternativamente una misura “salva ladri”.

Vediamo allora cosa prevede la riforma. Iniziando col dire come già accennato, che i problemi e temi di discussioni previsti erano molti di più di quelli confluiti nel decreto attuativo in attesa di approvazione. Quelli più sensibili riguardavano tabù come la possibilità dei carcerati di avere una vita sessuale in carcere. Tra i punti più importanti toccati dalla riforma ci sono invece il miglioramento dell’assistenza sanitaria, l’equiparazione della malattia psichica a quella fisica e l’aumento da due a quattro delle ore d’aria in carcere, le ore che i detenuti possono passare in cortile, per capirsi. Fondamentali anche gli articoli che prevedono l’allargamento della possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione e la modifica dell’articolo 4 bis, quello che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del titolo di reato. Sono tutte misure volte al miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati, a tutelarne la dignità umana e a facilitare un loro ritorno in società.

Alcuni dati sulle carceri in Italia: secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione le carceri italiane hanno parecchi problemi. A cominciare dal sovraffollamento: a marzo 2018 la popolazione carceraria era di 58.223 persone, 8.000 in più dei posti disponibili. Sempre nel rapporto emerge che i suicidi siano in aumento. Il tasso di suicidi (numero dei morti ogni 10 mila persone) è salito dall’8,3% del 2008 al 9,1% del 2017: in numeri assoluti significa passare da 46 morti del 2008 a 52 morti del 2017. I dati dicono anche che i detenuti che abbiano usufruito di misure detentive alternative abbiano una recidiva molto minore.

Un’occasione mancata?
Il quadro non è incoraggiante e proprio per questo la riforma dell’ordinamento era attesa da tempo sia dai carcerati che da chi se ne occupa, compresi glia avvocati penalisti e gli esperti di diritto. Proprio gli avvocati penalisti hanno indetto uno sciopero delle udienze a inizio maggio, in concomitanza di una manifestazione a Roma a favore della riforma.
In attesa che si sblocchi la situazione o si conosca la fine del progetto di riforma, molti di coloro che seguono i detenuti e si occupano delle condizioni carcerarie dicono che comunque si potesse fare di più, ma il rischio è che ancora una volta anche il minimo venga rimandato.

 

Tommaso Meo

 

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Del titolismo e della lingua di plastica

Ho appena finito di leggere un libro di Luca Sofri, giornalista e peraltro direttore del Post, dal titolo Notizie che non lo erano. Il libro è molto interessante e parla di giornali e giornalismo, tramite le notizie, inesatte o proprio false, date dalla macchina dell’informazione. È una lettura piacevole oltre che molto indicata per chiunque faccia o voglia fare informazione, oltre che a tutti coloro che vogliano imparare di più sul funzionamento delle notizie virali e fasulle. In generale è anche una critica all’informazione odierna e a quella italiana in particolare, di carta o online poco cambia. In parole povere la tesi principale di Sofri (il libro è del 2015 ma attualissimo) è che le maggiori fake news di cui tanto si parla siano prodotte dai grandi media (generalisti si diceva una volta), o creandole, o male interpretando o fidandosi troppo di siti o comunicati stampa inaffidabili. Non facendo cioè il proprio lavoro di filtro, giudizio e selezione. Queste notizie scorrette subiscono poi l’amplificazione che la rete ai giorni nostri dà, diventando virali e venendo quindi riprese nuovamente dai grandi media (“La notizia che fa il giro del web… non ci crederete mai! Clicca qui!”).

Ci sono tanti temi rilevanti nel libro e magari ne sviscererò di più in un altro momento, intanto mi occuperò brevemente di due a mio avviso tanto banali quanto importanti, e così consolidati nella prassi giornalistica italiana tanto che è difficile e importante insieme trattarne. Sto parlando dei titoli dei giornali e del linguaggio improprio, scandalistico e manipolativo che li caratterizza. In realtà è un grande tema unico che si ricollega a un discorso molto più ampio sulla mancanza di accuratezza e sulla tendenza sensazionalistica di molti giornali al giorno d’oggi.

Riassumo così: i giornali sono in crisi e hanno bisogno di vendite e di click per attirare inserzionisti, questo si traduce in maggiore velocità delle news, che comporta più trascuratezza, e in molti casi in veri e propri clickbaits online (letteralmente “ami per i click”, notizie a volte false, a volte esagerate per ottenere più contatti). Tradotto: il linguaggio che si usa nei titoli se non è solamente sciatto, banale o semplicemente stupido, è anche degno dei migliori (o peggiori a seconda dei gusti) tabloids o giornali scandalistici, da cui le grandi testate, consapevolmente o meno, stanno traendo spunto per aumentare i fatturati. Questo tema dei titoli (il “titolismo”) è particolarmente importante perché, come è confermato da diversi studi, i titoli sono in molti casi l’unico approccio che abbiamo con la notizia; gli articoli che leggiamo per intero sono cioè una minima parte rispetto ai titoli che ci capitano sotto gli occhi. Gran parte della nostra idea di realtà ci è quindi fornita da una, massimo due righe, più occhiello ed eventuale sommario.

La mia idea è che ci voglia molta attenzione quando si fa un titolo, molta precisione, un lessico preciso e non banale, oltre a una buona dose di originalità. Invece sembra che la maggioranza dei giornali, online e non, siano affetti da una sindrome volta a rendere nei titoli tutto più pauroso, scandaloso, scioccante, e magari piccante, oltre che confuso. Allora, e qui subentra il problema della lingua, una mostra interessante e dal contenuto impegnato diventa choc, le critiche diventano bufera, qualsiasi cosa difficile da comprendere subito è un giallo, e così via di caos, bagarre, in tilt, fumata nera e simili. Queste parole diventano in qualche modo le prime a essere usate anche quando non ce ne sarebbe bisogno (non ci sarebbe mai bisogno in realtà di parole come choc), arrivando a formare un gergo giornalistico, fisso, insipido e piatto, una lingua di plastica.

Il tutto è esasperato anche da una questione puramente spaziale: la lunghezza dei titoli degli articoli. Da quanto ho letto e anche sperimentato in uno stage in un giornale locale è una prassi molto italiana quella che obbliga chi scrive i titoli a usare meno spazio possibile e in genere non superare le due righe. Nei giornali anglosassoni non funziona così: per notizie complicate può darsi che serva un titolo più lungo, anch’esso complicato e che spieghi meglio la questione, e se serve le tre righe sono ben accette. So che questa può sembrare una strana elucubrazione un po’ nerd e fine a se stessa, ma vi garantisco che spesso non è così. I giornali e soprattutto i loro titoli, come dicevamo, hanno un’influenza ben precisa sulle persone e sul clima generale dell’opinione pubblica. E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di una popolazione informata in modo corretto.

E qui parlo a chi fa o vorrebbe fare informazione, a me e noi lettori tutti: lo stile è sostanza, il lessico è sostanza oltre che sostanziale e curare la scrittura, non cadere cioè nella sciatteria della lingua di plastica, può risultare una formula riconoscibile e vincente. Come esempio, senza scomodare il New York Times o il Guardian, cito ancora il Post, che fa informazione solo online e da sette anni ormai è sinonimo di qualità e originalità, a partire dai titoli e dalla lingua usata. I lettori devono pretendere un’informazione di qualità, verificata, attenta e precisa, e i primi indicatori stanno proprio nei titoli e nel linguaggio.

 

Tommaso Meo

 

NOTE
Luca Sofri, Notizie che non lo erano, Milano, Rizzoli, 2015.
La lingua di plastica.
Come scrivere il titolo di un articolo del New York Times.

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Lo and Behold: Internet raccontato da Werner Herzog

Il Guardian recentemente ha sostenuto che stiamo vivendo nell’età d’oro dei documentari. Vero o meno vero che sia, il catalogo Netflix dei documentari sta vivendo un periodo florido ed è consigliabile dargli un’occhiata tra una serie e l’altra. Da poco tempo è presente nella lista anche il nuovo documentario del regista tedesco Werner Herzog, artista eclettico e slegato dai generi come pochi, intitolato Lo and Behold e uscito nei cinema ad ottobre. Tratta di internet, dalla sua nascita alle prospettive future che il suo sviluppo potrebbe comportare. Diviso in dieci capitoli, dagli albori di internet (The early days) a The future. Ognuno di questi dieci blocchi racconta o un periodo storico della breve vita della rete o un tema connesso a questa.

Il film si serve esclusivamente di interviste, è ed volutamente statico ed essenziale nelle immagini. La forza della narrazione viene così dal parlato, dai dialoghi del suo autore, molto presente, con le personalità che decide di interrogare. Queste vanno da pionieri di internet come Leonard Kleinrock e Ted Nelson, a moderni tycoon come Elon Musk, e all’hacker Kevin Mitinick, ma ci sono anche persone comuni che hanno risentito in diversa misura della crescente ingerenza della tecnologia del web nelle loro vite. Herzog ci racconta le glorie e le miserie della rete nei suoi primi 50 anni di vita. Dalla sua nascita e dal primo messaggio (il Lo, di Log-in, del titolo) mandato da un laboratorio della UCLA (Università della California, Los Angeles) a Stanford molte cose sono cambiante e altrettante muteranno. Già dai primi minuti il documentario dà quasi il senso di ineluttabilità di internet, di un progresso esponenziale che non si può fermare. Portando sì moltissime utili innovazioni, le glorie, come il gioco che ha messo in rete la ricerca sulle molecole di Rna, ma creando anche situazioni nuove e difficili da interpretare per la gente comune. La quale ne sembra quasi investita, senza la possibilità materiale e legale di fare qualcosa. Come si capisce dalla storia raccontata dalla famiglia di Nikki, le cui foto da morta sono circolate indisturbate sul web, dato che la privacy via internet decade con la fine della vita di una persona.

Il documentario di Herzog in questo senso è molto più umano che didascalico. Ci mette di fronte chi internet ha contribuito a costruirlo, fornendo un cambiamento al corso dell’umanità, chi l’ha usato nel bene e chi invece l’ha subito nel male. Non racconta la Storia di Internet, ma racconta internet oggi. Offre quello che si può chiamare in modo abusato uno spaccato della nostra società rispetto alla tecnologia che sta permeando quest’era. Ne risulta un documento quasi antropologico, molto parziale perché comunque raccontato dal filtro dell’autore, che non fa niente per nascondersi, anzi. Ma prendere o lasciare. Ed è quello che forse del documentario resta di più, la capacità di Herzog, neofita sognante quanto scettico, di indagare le contraddizioni della rete. Con anche molta ironia, come nella scena dei monaci buddisti a capo chino sullo smartphone o come quando si offre come colonizzatore di Marte ad Elon Musk. E con alcune parti surreali o fantascientifiche; quando per esempio chiede/si chiede se internet sogna se stesso.

Il tutto contribuisce a creare un prodotto ibrido: non una narrazione entusiasta delle sorti magnifiche e progressive del nostro mondo interconnesso, e neanche una produzione segnata dal catastrofismo o dal luddismo che possono nascere in risposta al primo approccio. Herzog ha molti dubbi e a volte sembra parteggiare per le vittime di questo progresso, ma al contempo ne è estremamente affascinato. Ne capisce la portata rivoluzionaria e anzi vuole indagare fino a dove si possa spingere. Così alcune delle grandi domande vengono a galla, ma senza nessuna faziosità o alcuna pregiudiziale. E si finisce per restare immersi noi stessi nella sincera curiosità di Herzog che si chiede, in definitiva, dove ci porterà tutto questo: su Marte, o alla distruzione?

Per cui se cercate qualcosa di elettrizzante, o anche solo un documentario alla Alberto Angela, allora forse Lo and Behold non fa per voi. Ma se volete molti spunti non banali per interrogarvi sulla questione, allora meglio che lasciate stare quella serie tv e clicchiate play.

Tommaso Meo

[Immagine tratta da Google Immagini]