L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare nel momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da più di un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christian Wiediger via Unsplash]

 

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La responsabilità tra Tolstoj, Manson e Godard

«[…] e, quel che è peggio, la causa di tutto quanto sono io, io che non ho colpa alcuna!» (L. Tolstoj, Anna Karenina, 2017).

È il lamento che risuona nelle pagine di apertura di Anna Karenina. Le infedeltà di Oblonskij sono appena state scoperte dalla moglie, provocando uno scompiglio non da poco; e ciononostante il lettore è mosso da una certa simpatia verso questo libertino un po’ pingue, dal corpo ben curato, che tende le braccia al servo Matvej affinché lo vesta. Forse il motivo è da ricercarsi proprio nelle parole dell’aristocratico russo, e in particolare in quel contrasto, decisamente significativo, tra i concetti di “causa” e di “colpa”: Oblonskij è consapevole di aver provocato con le sue bugie uno scisma familiare, ma non si colpevolizza, anzi afferma vigorosamente la sua innocenza ed è possibile che qualche lettore, e qui viene il bello, gli dia anche ragione.

Il “caso Oblonskij” è solo un esempio tra i molti (letterari, cinematografici, artistici) che si possono citare di (presunta) responsabilità non colpevole: possiamo riconoscere di essere la causa di qualcosa, cioè ammettere di aver giocato un ruolo in un certo evento per il solo fatto di aver compiuto delle azioni, qualsiasi esse fossero; e allo stesso tempo rifiutare di farci inchiodare nel ruolo di “cattivi della situazione” che hanno agito con l’unico scopo di causare intenzionalmente del male. Si tratta della stessa idea implicita nella cosiddetta presunzione di non colpevolezza, principio giuridico che conferma, in certa misura, la validità della distinzione tra colpa e responsabilità allusa dal personaggio tolstojiano.

Se puntare automaticamente il dito non è una strada di analisi sempreverde, anche a tentare un confronto aperto con la realtà, di indagine della complessità, sfugge ancora il concetto di responsabilità: che cosa indica esattamente questo termine, e quali nuovi orizzonti o ruoli potrebbe inglobare? È possibile ripensare un’idea di responsabilità da abitare concretamente, ogni giorno?

Secondo Mark Manson, blogger, scrittore e imprenditore americano, la responsabilità è potere esistenziale, inteso come effettiva possibilità di influire sul proprio benessere, anche e soprattutto in quei frangenti che appaiono fuori controllo. Non è vero, dice Manson, che ci sono cose che non possiamo cambiare: è inutile crogiolarsi nell’autocommiserazione e ripetere “non posso farci niente, non l’ho deciso io”. Decido sempre io, in un certo senso: «scegliere di non interpretare coscientemente ciò che accade nelle nostre vite è pur sempre un’interpretazione. Scegliere di non reagirvi è comunque una reazione» (M. Manson, La sottile arte di far quel che ti pare, 2017).
Non si può cambiare la situazione, ma si può cambiare se stessi in quella situazione; ogni cosa può sempre caricarsi di una certa luce piuttosto che di un’altra. Il che non significa, ribadisce il blogger americano, essere ossessivamente positivi e negare il male esistenziale, ma assumersi la responsabilità di se stessi di fronte ad esso; non significa rifiutare le emozioni negative, ma assumersi la responsabilità di elaborarle, per quanto tempo si possa impiegare, per quanta fatica e passi indietro si debbano affrontare, per poter scegliere con consapevolezza l’atteggiamento che può garantire maggior benessere.

La responsabilità verrebbe allora a coincidere con il potere di cambiare (in meglio) la vita di tutti i giorni. Con questo non si vuole negare l’imprevedibilità della vita e le sue istanze incontrollabili; di continuo avvengono cose che non abbiamo scelto… ma su cui sì abbiamo scelta: è possibile cambiare approccio a qualsiasi situazione, che l’abbiamo voluta o meno; ed è vitale farlo, perché cambiare punto di vista vuol dire di fatto integrare la propria visione della realtà con qualcosa di nuovo, arricchendosi anche in modi inaspettati. Assumersi la responsabilità di se stessi, sempre, vuol dire letteralmente farsi carico del proprio io: scegliere di stare bene, o se non di stare bene almeno di sfruttare l’occasione per aggiungere alla propria cassetta degli attrezzi uno strumento nuovo e crescere come esseri umani.

L’idea di accettare tutto e sfruttare ogni occasione per crescere spiritualmente e vivere più pienamente è presente anche nei film di Godard: «Io credo che siamo sempre responsabili di quello che si fa, e liberi», riflette Nana in Questa è la mia vita, e continua: «Alzo una mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. In fondo le cose sono come sono e nient’altro».
Oblonskij del resto concretizza questa idea in una vera e propria filosofia esistenziale: ammette di aver avuto un ruolo nel dolore della moglie e riconosce responsabilità e conseguenze ad esso connesse, e tuttavia non si colpevolizza ma sceglie come reagire, in una piena consapevolezza di se stesso.

Cecilia Volpi

[Photo credit Sander Sammy via Unsplash]

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Una parola per voi: maschera. Marzo 2019

«L’uomo è meno se stesso quando parla della sua persona.

Dategli una maschera, e vi dirà la verità».

Oscar Wilde, Il critico come artista

Martedì 5 marzo, quest’anno, termina il Carnevale. Celebrazione che evoca divertimenti sfrenati, follie, risate e colori, ma soprattutto: travestimenti. I costumi carnevaleschi sono amati dai bambini ma anche dagli adulti; li mettiamo per andare a feste a tema, balli o parate. O, se non amiamo travestirci, ci piace forse guardare i carri di Carnevale sfilare in pompa magna per le strade cittadine. Sono esagerati, satirici, imponenti, mettono fra parentesi la routine quotidiana, di solito rigorosa e incasellata entro regole ben precise.
Eppure, con questa sua citazione, Oscar Wilde vuole dirci che l’uomo tende a mentire su se stesso proprio quando è “intrappolato” nelle sue normali condizioni. È proprio nel quotidiano, che tendiamo a fingere di essere chi in realtà non siamo, indossando una maschera “negativa”. Lo facciamo perché temiamo le convenzioni sociali, nonché il giudizio altrui. Cosa penserebbero di me in ufficio, se dicessi veramente quello che penso? Che direbbe la mia famiglia se mi mostrassi per ciò che sono, senza filtri o bugie? La sincerità non sempre paga – in società e in generale nei rapporti interpersonali, paga di più la diplomazia, se non addirittura la mistificazione.
Talvolta può dunque venirci in aiuto una maschera “positiva” che, coprendo il nostro volto, apre una breccia sul nostro vero io svelando chi siamo. La maschera ci protegge dagli insulti, dagli scherni, dalle condanne, dagli abbandoni. Dietro a una maschera, dice Wilde, possiamo dire la verità, trovare il coraggio di essere franchi e onesti, perché gli altri non vedono chi si cela dietro ad essa.

La parola per voi del mese di marzo è maschera: essa può essere negativa o positiva, una prigione, uno strumento di espressione, di liberazione o addirittura di emancipazione. A voi la nostra selezione di libri, film, canzoni e opere d’arte a tema!

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-il-fu-mattia-pscalIl fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello

Mattia Pascal, fuggito a Montecarlo, trova fortuna nell’arbitrio della roulette, ma, prima di tornare al suo paese natio, legge su un giornale che, Mattia Pascal, era stato ritrovato senza vita. Inizia così, la possibilità di una nuova vita per Mattia Pascal, sotto la maschera di Adriano Meis. L’alter ego, la maschera dietro cui si nasconde, restituisce al protagonista la libertà di una vita vera, da vivere proprio come egli voleva. Tuttavia, scoprirà che nessuna maschera può essere tenuta a lungo, che questa deve cadere, e che Mattia Pascal, suo malgrado, non può che essere se stesso, anche se non vuole.

 

UN ROMANZO CONTEMPORANEO

chiave-di-sophia-eleganza-del-riccioL’eleganza del riccio – Muriel Barbery

Un capolavoro con due protagoniste: la dodicenne Paloma, figlia geniale di una ricca famiglia che abita al numero 7 di rue de Grenelle a Parigi e Renée, la portinaia del palazzo, vedova e riservata. La maschera si rivela soprattutto nel personaggio di Renée, che si cala magistralmente nel suo ruolo di portinaia ignorante, un po’ scorbutica e sciatta, con il televisore perennemente acceso su programmi di basso spessore ma con un mondo privato, al di là di quello visibile, fatto di tante letture e passioni, come quella per la filosofia e per la cultura giapponese. La maschera calerà a poco a poco con l’arrivo del nuovo inquilino, monsieur Ozu: una citazione di Tolstoj le sfugge dalle labbra e sulla maschera si forma una prima crepa. Similmente accade per Paloma, che si finge un’adolescente come tutte le altre “nella boccia” dei pesci rossi, nascondendo il cervello e lo spirito di un genio. Quello che il romanzo sembra dirci è che è spesso difficile mostrarci per quello che siamo, ma prima o poi la finzione si rivela per quella che è; la domanda allora diventa: ne vale la pena?

 

UN LIBRO JUNIOR

io-sono-il-drago-chiave-di-sophiaIo sono il drago – Grzegorz Kasdepke, Emilia Dziubak

Una storia per tutte quelle bambine che, anziché sognare abiti da principesse, preferiscono giocare la parte del drago: un terrificante mangia-cavalieri che vi darà nuove idee per appassionanti giochi in famiglia. Oltre gli stereotipi di genere, ciò che conta è esprimere al meglio, senza freni inibitori, i propri interessi e il proprio modo di essere. Lettura che calza a pennello con il periodo di Carnevale e con le eventuali discussioni in famiglia riguardo l’abito più adatto con il quale mascherarsi. Età di lettura: 4-6 anni

 

UN FILM

m-butterfly la chiave di sophiaM. Butterfly David Cronenberg
Mascherati dietro raffinate spirali di ambiguità psicologiche e sensuali, i personaggi di “M. Butterfly” (film del 1993) incarnano alla perfezione una storia in cui nulla è mai veramente come appare. Pechino, 1964. René Gallimard è un diplomatico del consolato francese. Durante una festa conosce e si innamora perdutamente di una cantante lirica cinese senza capire che, in realtà, dietro quella voce celestiale non si nasconde una donna ma un uomo destinato a stravolgere per sempre la vita del diplomatico. Ispirato a una storia realmente accaduta, il film di David Cronenberg è un saggio visivo straordinario sulla potenza dei sentimenti umani e sulla loro capacità di stravolgere le apparenze del corpo e dello spirito. La lettera M. del titolo può essere interpretata sia come un chiaro riferimento alla Madama (Butterfly) di pucciniana memoria che alla M di “mister”, figura maschile associata a un appellativo femminile: “Butterfly”, per l’appunto. Privati delle loro maschere sociali, i personaggi di Cronenberg si lasciano travolgere dall’impeto delle loro passioni più autentiche, finendo inevitabilmente alla deriva.

 

UNA CANZONE

chiave-di-sophia-cremonini-pagliaccioIl pagliaccio  Cesare Cremonini

Tratta dall’album Il primo bacio sulla luna (2008), questa canzone di Cesare Cremonini mette in evidenza la completa aderenza che talvolta può verificarsi tra personalità e maschera. Il protagonista del testo è infatti un artista del circo, un pagliaccio per l’appunto, che si scopre tale anche una volta tolto il trucco a fine serata, quasi come in una sorta di ephiphany (“La sera quando mi sciolgo il trucco, / riscopro che sono un pagliaccio anche sotto“). Cremonini sembra dunque ricordarci quanto sia importante esprimere il proprio essere e trovare il proprio posto nel mondo, anche se diverso da quello convenzionale; anche perché, sembra suggerire il finale del video, anche il mondo reale (quello esterno rispetto ai colori e alle stranezze del circo) è fatto di altrettanto caos e altrettante maschere. Rispetto all’inizio della canzone che presenta una forte cesura tra questi due mondi (“Sono il pagliaccio / e tu il bambino“) il testo giunge finalmente alla consapevolezza del protagonista, che nella figura del pagliaccio vede la spontaneità del bambino (“Sei come me“) e nel circo vede il luogo dove esprimere al meglio sé stesso (“Ma in fondo io sto bene qua / tra le mie facce e la mia falsità / trovando in quel che sono / un po’ di libertà“). Quella che sembra dunque una maschera in cui ci caliamo e che ci permette di sentirci liberi, può anche rivelarsi una finzione per noi stessi perché di fatto coincide con il nostro vero io.

 

UN’OPERA D’ARTE

chiave-di-sophia-autoritratto-circondato-da-maschere-james-ensorAutoritratto circondato da maschere – James Ensor

La maschera, come sottolineato da Oscar Wilde, può essere uno strumento per manifestare una personalità il più delle volte nascosta, ma cosa succede quando si è l’unico volto reale in un mondo di maschere? È questa la Bruxelles che vede James Ensor nel suo Autoritratto circondato da maschere, del 1899, un eterno carnevale di colori sgargianti ed espressioni grottesche in cui nessuno ha il coraggio di essere se stesso, prigioniero delle convenzioni sociali e della propria falsità. Il misantropo Ensor, ammantato di astio ma anche di struggente malinconia, scopre una agghiacciante solitudine in mezzo alla folla: paradossalmente, in un mondo dove nessuno mostra se stesso per come è, è la sincerità di chi ha il coraggio di mostrarsi a volto scoperto l’unica maschera davvero terrificante.

 

Francesca Plesnizer, Fabiana Castellino, Giorgia Favero, Federica Bonisiol, Alvise Wollner, Giacomo Mininni

 

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Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Serjoza si fece pensieroso, fissando il viso del portinaio già studiato fino nei minimi particolari, e in ispecial modo il mento […] che nessuno aveva visto, eccettuato Serjoza, che non lo guardava mai altrimenti che dal basso.

(L. Tolstoj, Anna Karenina)

Questo non è un autentico punto di vista dal basso, non è il punto di vista di un bambino di nove anni; è il punto di vista di un uomo oltre i quarantacinque che vuole fare il bambino di nove anni. Non siamo in basso, ci siamo abbassati.

Per Tolstoj sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha reclinato il collo all’indietro per poter guardare un adulto in faccia. Dopo trent’anni piega le ginocchia, tocca terra e si riposiziona ad altezza bambino, si immedesima.

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Il punto non risiede nella riuscita o meno dell’illusione. Poco ci interessa. Quel che importa è che a qualsiasi livello l’autore sia stato in grado di immedesimarsi nel suo bambino o nella sua bambina, resisterà sempre una distanza:      

“Il padre gli parlava sempre […] come se lui fosse rivolto a un certo ragazzino immaginato da lui, uno di quelli come ce n’è nei libri, ma niente affatto somigliante a Serjoza. E Serjoza […] cercava sempre di fingersi proprio questo ragazzo libresco.”

L’adulto osserva il bambino dall’alto, con uno scarto di centimetri che non gli è dato colmare e lo renderà per sempre miope. L’adulto guarda il bambino attraverso un filtro, un filtro che ha qualcosa della narrazione: non a caso il padre di Serjoza gli parla come ad un bambino libresco, immaginato.

Ma Serjoza è un bambino libresco e il suo vero padre, l’autore, non può fare altro che investirsi lui stesso nella parte, così come Serjoza cerca disperatamente di fare pur di compiacere le aspettative del padre-maestro.

Il capitolo ci parla dell’educazione di Serjoza. Doppiamente interessante per noi: non solo bambini, ma bambini in classe.

Il bambino di Tolstoj “sprofonda in meditazioni”: cioè, secondo gli adulti che lo circondano, si distrae. Non è un bravo studente, si perde osservando i bottoni sul panciotto del padre e dimentica i nomi dei patriarchi perché Enoch è il suo preferito e “all’assunzione di Enoch vivo in cielo si collegava tutt’un lungo ragionamento” a cui Serjoza si abbandona.

Eppure la sua anima si proclama “colma della sete di conoscenza”.

Secondo gli adulti, il problema è uno: Serjoza è svogliato.

Secondo Serjoza, i problemi sono due: quel che gli viene insegnato e il modo in cui gli viene insegnato. La materia è “inutile”; ma l’attributo “inutile” segue un aggettivo gravissimo: “noioso”. Ciò che gli viene insegnato è inutile poiché noioso.

Ed è noioso perché “il maestro non pensava quel che diceva”: Serjoza lo capisce dal tono con cui pronuncia le parole. “Ma perché si sono messi tutti d’accordo per dire queste cose sempre a un modo?”, si chiede “con tristezza”. Recidere la connessione tra apprendimento e godibilità è un delitto, ci dice Serjoza, ci dice Tolstoj. Riesce ad impedire all’insegnamento di funzionare.

Perciò al di là dello studio della materia, della filosofia coi bambini, indaghiamo a lungo la figura stessa del Filosofo coi Bambini. Il “personaggio”: che si muove, modula la voce, il tono, l’accento, gesticola, controlla ogni muscolo del viso e del corpo – in una parola, recita. Insegnare è un atto di recitazione. Non solo serve a catturare e poi mantenere viva l’attenzione per l’intera durata del laboratorio; nutre la curiosità, la partecipazione, l’entusiasmo, la voglia. Questo presuppone un’enorme quantità (e una particolare qualità) di energia.

Maestri meravigliosi lo fanno continuamente, ovunque. Per poter evitare di scrivere sulle pagelle “è bravo ma non si applica”, si applicano in prima persona. Allo stesso modo, venti Filosofi mettono in discussione il loro lavoro con un allenamento intenso, fatto di sessioni da sei ore e venticinque bambini.

E quando uno dei venticinque si perde, in realtà sono io che lo perdo. Penso a Serjoza e a quanto non possa permettermi di stancarlo, fingendo di non sentire quanto stanca posso essere io stessa di riacchiapparlo, per ogni volta che serve riaccenderlo.

Perché Serjoza è svogliato. Ma lo è soprattutto perché i suoi adulti sono svogliati.

Eugenia Bartoccini

www.filosofiacoibambini.net

La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]