Creature di moralità: l’affastellarsi di bene e male in Tolkien

Tutti noi conosciamo Il Signore degli Anelli per averne letto le avvincenti pagine o per aver visto almeno una volta il film diretto da Peter Jackson. Ognuno di noi ha sguainato la spada con Aragorn, usato la faretra di Legolas o sofferto sotto al grave peso di cui Frodo ha scelto di caricarsi. In maniera forse sorprendente, per i buoni conoscitori dell’opera, Tolkien ha affermato nella corrispondenza epistolare con la Houghton Mifflin che Il Signore degli Anelli non ha valenze allegoriche, morali, religiose o politiche. 

Eppure, il mio esercizio vuole essere quello di individuare una fisica moralmente connotata, dove ad ogni entità corrisponde una proprietà che la contraddistingue come “buona” o “malvagia”. Infatti, è arduo trovare nella storia un’entità che non sia caratterizzata in un senso o nell’altro. Ve ne sono poi alcune, credo le più complesse ed affascinanti, connotate sia come buone sia come malvagie, le quali hanno vissuto una trasformazione ontologica nel corso della propria esistenza o nel senso della consapevolezza della propria fragilità e della facilità con cui le tentazioni si presentano innanzi al cuore desiderose di trovare soddisfazione. L’ambivalenza umana ne è la rappresentazione per eccellenza: gli uomini costituiscono il punto di cesura tra i fatti morali intrinsecamente buoni e intrinsecamente cattivi. Nessuno (neppure Aragorn e Gandalf, la cui grandezza d’animo è incontestabile) è assolutamente privo del rischio di cadere in tentazione, di lasciarsi tentare dal male per venire, infine, soggiogato. 

Ciò che distingue gli animi più nobili è la consapevolezza di una fragilità che non vogliono abbia il sopravvento sulla loro volontà. Una volontà più forte di ogni fragilità, spesso accompagnata dalla grandezza della pietà e della comprensione. Invece, l’individuo che cede alla corruzione del male paga il proprio agire con la morte. Emblematico è il caso di Boromir di Gondor, soggiogato dalla volontà dell’Anello: nonostante il ravvedimento immediato, pagherà il suo errore morendo. L’esempio più tragico di corruttibilità umana rimane tuttavia il tradimento di Saruman, colui che per la sua profonda conoscenza finisce per cadere in tentazione e farsi traviare dal male. Il suo è un tradimento più grave di ogni intrinseca malvagità: egli avrebbe potuto compiere azioni buone, ma sceglie la via della malvagità lasciando che l’oscurità lo avvolga completamente.

Allontanandoci dagli uomini, la gradazione morale più pura tra gli esseri pensanti è quella degli Elfi. Il pensiero corre qui spontaneamente verso Elrond di Granburrone, Galadriel e Celeborn di Lothlorién: essi sono un ideale morale la cui statura si evince innanzitutto dalla caratterizzazione fisica di esseri splendenti, senza età, dai capelli color dell’oro o dell’argento, dalla profondità perduta dei loro occhi. Una silenziosa profondità simile a quella degli Ent, alberi semoventi, la cui presenza nel mondo delle Terre di mezzo è attestata sin dall’inizio dei tempi.

Lungi dalla perfezione elfica, i Nani ricevono comunque una positiva connotazione, almeno così appare dal pressoché unico esemplare a fare capolino nella storia, Gimli figlio di Gloin. Tuttavia, una rimbombante eco di sottofondo ricorda come l’avidità con cui hanno scavato negli abissi della terra li abbia portati a conoscere da vicino la malvagità originaria e le sue orride creature.

Poco differenti per statura dai nani, gli Hobbit sono creature placide e pacifiche: amanti della tranquillità, del bosco e della tavola. Non si contraddistinguono né per l’acutezza dell’ingegno e neppure per ambizioni di grandezza, eppure essi sono le più stupefacenti sorprese. Scontato sarebbe parlare di Frodo; credo piuttosto che il suo giardiniere, Sam Gangee, sia investito di una nobiltà d’animo e di una virtù che non è facile da eguagliare. Egli è la perfezione hobbit. La sua virtù è la più alta: il saper provare fiducia, condivisa dai personaggi più illustri ed eroici (da Aragorn a Galdalf fino al capitano di Gondor, Faramir). Come ammette lo stesso portatore dell’Anello, senza il suo Sam egli non sarebbe mai riuscito a percorrere il viaggio verso il Monte Fato.  

È interessante notare come la moralità interessi anche gli animali e le cose. Cavalli, nazgul, aquile e olifanti sono determinati sociologicamente dall’ambiente da cui provengono e in cui sono cresciuti. Così i cavalli del Mark sono destrieri coraggiosi e veloci come il vento, mentre gli animali di Mordor sono esseri traviati e martoriati dall’Oscuro Signore. Anche gli oggetti sono caratterizzati moralmente, ma la loro proprietà morale dipende da quella del loro possessore o dal luogo in cui si trovano. Basti pensare alla pietra Palantir: l’uso che ne viene fatto di volta in volta la determina moralmente anche se in via temporanea. Dal canto suo, l’oggetto degli oggetti, l’Anello, ha natura ambigua ed innegabile è la sua capacità di alterare la volontà e di sbiadire le intenzioni di chi lo detiene.

Accanto a questi si trova la lunga schiera di entità irrimediabilmente traviate. Ciò che è frutto del male non è di per sé qualcosa di originale ma è una brutta copia di qualcos’altro. Infine viene il male perfetto, incarnato da Sauron. Il male agisce come la proprietà di un’entità capace di esercitare solo effetti negativi per tutti gli esseri viventi o, ancora, come un’entità capace di generare un’oscurità sempre più cupa intorno a sé.

Si può, dunque, dedurre che solo il male è assolutamente puro e incontaminabile: per cessare di avere diretta influenza sul resto della realtà deve venir eliminato. Al contrario, il bene è la proprietà di qualunque entità capace di produrre intenzioni buone e dagli effetti positivi perduranti, a meno che non si sia corrotti dal male. Questo il senso ultimo della guerra per la Terra di Mezzo.

 

Sonia Cominassi

 

[In copertina una scena tratta dal film Il signore degli anelli. La compagnia dell’anello che mostra alcuni dei personaggi citati]

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Μythopoiesis: la manifestazione artistica come reazione alla realtà

Uno dei misteri che più assilla neuroscienze e filosofia è se si dia creazione artistica pura.

Chi scrive, tende a escludere questa ipotesi ma, contrariamente a molti, non vede nel reale una fonte di ispir-azione, quanto piuttosto di re-azione artistica. Sosterremo, con un exemplum ad hominem, che il rapporto tra reale e falso artistico non ha da intendersi, come da communis opinio, alla guisa d’una logica simiglianza, ma di opposizione.

Il mondo interiore è bloccato da quello esteriore: quando l’esterno mostra la sua negatività allo spirito interno al Sé, quest’ultimo si rintana in attesa di tempi migliori. Tuttavia, questo rintanarsi non è un cedere; è semplicemente una ritirata tattica.

Il ripiegamento su sé stessi è, certo, una fuga dal vero che, però, non impedisce la riorganizzazione. L’artista sa quando tacere, ma il silenzio non impedisce il giudizio. E proprio nel giudizio di valore sta la superiorità di ciò che è in interiore sul mondo fisico.

Pensiamo all’opera di Tolkien.

La seconda guerra mondiale non interrompe la scrittura de Il Signore degli Anelli: la rallenta ma, man mano che procede, Tolkien vede emergere in essa, in modo non cercato, il suo Io più profondo: pur essendosi proposto di non scrivere opere politiche, è chiaro che non può fare a meno di porre sulla bocca dei personaggi positivi alcuni giudizi valoriali.

Una grande avversione, per esempio, Tolkien la prova per la modernità, intesa come trionfo della tecnica sulla bellezza del creato; non a caso farà dire a Barbalbero, a proposito di Saruman:

«Sta progettando di diventare una Potenza. Ha un cervello fatto di metallo e ingranaggi: nulla gli importa di ciò che cresce».

Tale definizione, messa in bocca alla creatura che «è vecchia come un monte ed è nata dalla terra», e rappresenta quindi saggezza e resilienza al male, è un chiaro atto d’accusa che non tanto l’Ent, quanto lo stesso Tolkien lancia all’epoca a lui contemporanea.

Se un uomo (questo il grande J’accuse!) inizia a ragionare come una macchina, è chiaro che ha perso la sua singolarità: sarà la natura a risvegliare in lui la comprensione di ciò che è, anche distruggendolo. Perché (e qui sta il giudizio oppositivo dell’interiore sull’esteriore) se si perde l’individualità, dell’Uomo, non resta che il corpo – macchina di carne e ingranaggi – ma priva di sacralità.

E, non a caso, la cosalizzazione dell’Uomo è il marchio distintivo della società contemporanea a Tolkien: eugenetica, stermini vari, la bomba atomica, aborto, guerra: tutto questo, contribuisce alla necessità di una re-azione artistica.

L’Universo tolkeniano ha dunque il compito di salvaguardare uno spazio di bellezza contro l’odio d’una realtà incomprensibile, ma anche di denunciare le storture del mondo.

Vorremmo offrire un altro esempio.

Durante il periodo bellico di stesura della Trilogia, Tolkien rileva in alcuni dei suoi personaggi una contaminazione politica involontaria. Quasi per conseguenza, l’autore giunge in quello stesso periodo a una filosofia politica che assumerà la forma d’una lucida rivendicazione dell’anarchia, «intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, e non come tizi barbuti che lanciano bombe» in opposizione alla “Lorocrazia, (Themcracy)”, cioè l’eccessiva fiducia nelle azioni di “Governo che sarebbe offensivo riferire al popolo”.

Sia la critica politica che quella verso la macchinalizzazione del singolo, re-agiscono all’esteriorità: partendo dal giudizio di valore su quello che ci circonda, nasce la creazione di una contro-idea che, molto spesso, assume i contorni dell’opera di genio.

Scrive Tolkien:

«La letteratura ci può insegnare una cosa, e cioè che noi abbiamo dentro di noi un elemento eterno, libero dalle preoccupazioni e dalla paura, che può sopravvivere serenamente al male [e in tale interiorità risiede] la stessa attenzione di Dio, personalizzata. Come l’amore per del Padre e del Figlio (che sono infiniti e identici) è una persona, così l’amore per la Luce interiore è finita ma divina: cioè angelica».

Il rapporto che deve nascere tra mondo e singolarità è essenzialmente mistico. Nella nostra interiorità (non scevra dal male ma capace di riconoscere il reale e, proprio per questo, di evitarlo) nasce quel sufficiente spazio affinché Dio abiti in noi.

Che l’arte sia essenzialmente reazione mistica allo squallore del vero non è certo un’invenzione di chi scrive, o di Tolkien.

Pensiamo a Omero. I rapsodi composero i loro cantari nell’epoca del Medioevo Ellenico (1200-800 a.C.), età di destrutturazione sociale, anarchia, insicurezza. Nasce l’epica greca, esaltazione dell’ordine (restaurato), della ricchezza e, in definitiva, di un passato eroico, in cui uomo e dio parlavano tra loro: un inno alla restaurazione e ai valori antichi, e all’incontro con gli dei. Sarà un caso?

E infine, Leopardi. Il 1819 è un anno terribile per il giovane poeta, contrassegnato dalla fuga tentata da Recanati, da rapporti tesissimi col padre e dell’incontro con i testi di M.me de Staël (che lo irriteranno non poco). Vien fuori L’infinito. Ora, che cos’altro metta in moto il processo creativo e compositivo, se non la reazione mistica (personificata nel desiderio di vago e indefinito, centrale nella poesia citata) allo squallore di un periodo particolarmente misero, è difficile di dire.

Sia che si parli dunque di un concetto lato (come quello dello spirito-greco incarnato da Omero), sia che ci si riferisca ad autori reali (di cui ognuno di noi può sapere tutti i dettagli della vita, e dettagliatamente), è evidente che la creazione artistica non risulta essere una continuità col mondo, ma una negazione di esso e della sua orribilità.

Oggigiorno, però, di arte se ne vede poca. Che il mondo sia diventato bellissimo?

 

David Casagrande

 

[Photo credits Yannis Papanastasopoulos su Unsplash.com]

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J’ACCUSE! Una provocazione hobbit su Harry Potter

Il trentunesimo giorno di Gennaio dell’anno 2017 (secondo i calcoli gregoriani),

casa Casagrande, Introvigne – Tarzo, Marca Trevigiana – Veneto, Italia,

la Settima Era di questo Mondo.

 “I buoni artisti copiano, i grandi rubano” (P. Picasso)

Cara signora Rowling,

inizio la presente ringraziandoLa per aver spinto una generazione di giovani svogliati a leggere. Le volevo però chiedere: era proprio necessario copiare Tolkien così tanto? Perché Lei non ha rubato: ha copiato. Dove vedo le somiglianze? In ordine sparso:

I personaggi

Harry (orfano adottato dagli zii), piccoletto destinato a salvare il mondo, è un Frodo (orfano adottato dallo zio) con la cicatrice (e anche la cicatrice è nulla-di-nuovo: dicono qualcosa la ferita del Re Stregone ad Amon-Sûl, o la puntura di Shelob a Torech Ungol?), ma privo dell’umile grandezza di questo Hobbit. Ron, è un Sam rubrutricotico e Hermione una somma di Marry e Pipino. Silente è un Gandalf neanche lontanamente epico come lui; Hagrid, la fotocopia di Beorn e la McGranitt una Galadriel passata in colorante.

Voldemort (pur facendosi chiamare “Oscuro Signore”) sta a Sauron come un cerino sta al napalm. I Dissennatori e i Mangiamorte (nomi già, di per sé, abominevoli) dovrebbero ricordare i Nazgûl… e niente, fa già ridere così. Aragog è la riproposizione in miseria di Shelob o Ungoliant; il Platano Picchiatore un Ent con l’influenza.

C’è persino un traditore: Peter Minus, oggetto inqualificabilmente umanoide che dovrebbe ricordare il titanico Saruman: al pensiero di essere accostato a cotal essere, Christopher Lee s’è rivoltato nella tomba come una cotoletta.

Gli oggetti

Fino al VI libro, ho sperato non ci fosse un Anello magico attraverso la cui distruzione il cattivo sarebbe morto. Ce n’erano sette, infatti, e si chiamavano Horcrux. Solo il loro annientamento avrebbe consentito la morte di Voldemort, perché, in essi, egli aveva infuso la sua anima… devo aggiungere altro? Ash nazg durbatulûk.

Eviterò, per pietas, di parlare della Spada di Grifondoro (Andùril), dei Doni della Morte (gli Anelli minori) e della presenza di un Serpentone (Smaug).

I dettagli

La maledizione Imperius ricorda l’incantesimo di Vermilinguo su Thèoden, Hogwarts è un rifacimento di Minas Tirith, il covo di Voldemort assomiglia a Minas Morgul persino nella tappezzeria. Non voglio neppure citare il fatto che Potter nel IV libro finisca in un cimitero (i Tumulilande), in battaglia richiami i morti  (come Aragorn a Erech) o, nel VII, risorga da morto (come Gandalf).

Ma’am Rowling, Lei ha fatto i miliardi con questo minestrone di citazioni: chapeau. Io non la invidio né la elogio. Non la stimo, né la critico.  Mi pento di aver speso soldi per i suoi libri, ma questi sono fatti miei.

Io voglio credere che Lei non abbia copiato. Voglio pensare che, piuttosto, abbia disseminato di oculati omaggi a Tolkien la sua opera. Mi faccia, però, un favore: convinca tutti i Suoi fan a smettere di giudicare qual “vecchia paccottiglia” tutto quello che The Professor ha creato: se non crede che tale screditamento avvenga, faccia un giretto su internet.

Con ciò detto, La invito a portare un crisantemo sulla tomba di Tolkien. Era un grand’uomo: sono certo che accetterà volentieri il fiore e non La denuncerà per aver “portato avanti” la sua opera come, al contrario, Lei ha fatto con quella casa editrice cinese…

 

Post-scriptum philosophicum

Ciò che ho tentato di veicolare in queste righe, è la mia convinzione teoretica che il furto sia sinonimo di omaggio, e che esso sia l’anima e la cerniera di tutta la produzione intellettuale umana: in fondo, non avremmo avuto l’impressionismo musicale, se Debussy non avesse “rubato” da Mallarmé.

Ciò che separa omaggio e copiatura, sono 1) la motivazione di chi “commette il furto” e 2) la coscienza che, d’esso, hanno i fruitori dell’opera finale. Non v’è dubbio che, omettendo d’affermare di aver tratto ispirazione da Il Signore degli Anelli, l’autrice di Harry Potter (che, per svariati motivi, io ritengo portabandiera di quella Cultura-Odierna contro la quale mi batto duramente), o quantomeno la sua fan-base, si dimostrino intellettualmente piuttosto poveri, ma non è colpa loro: pagano solo il fio d’essere immersi in un certo modo d’intendere la conoscenza e l’arte.

Il mainstream contemporaneo ha proclamato il dogma del primato dell’originalità-a-ogni-costo. Ammettere di aver-tratto-ispirazione, o di essere-stati-influenzati, è considerato una debolezza. In senso ironico, se Il Signore degli Anelli rappresenta la tradizione, e Harry Potter la modernità che nega il passato, potremmo dire che il primo è “di destra”, il secondo “di sinistra”.

La negazione dei precedenti (malafede-estetica che muta il nobile omaggio in volgare copiatura) la potremmo chiamare “paura della storia”, o “fobia della somiglianza”: un vero autorazzismo post-avanguardista d’una disonestà intellettuale rivoltante, sintomo d’ignoranza crassa, degno figlio di questo secolo oltr’i confini del quale − io lo sento − c’è ben più del nulla.

L’unico antidoto a questo bisogno di originaleggiare, è un rinascimento ermeneutico, attuabile con un’educazione che sia, quanto più possibile, enciclopedica, e che consenta d’instillare, in ciascuno, una competenza adeguata a tesser rimandi e confronti intra– e inter– disciplinari. Sapere un po’ di molte cose è decisamente più utile a livello pratico, e apre molto di più i confini della mente teoretica, che non sapere tutto d’un solo argomento (posto che le due cose s’escludano a vicenda). Quest’educazione omnipervasiva, io la chiamo Eclettismo.

Solo percorrendo la Via Diritta dell’Eclettismo, supereremo la “paura della somiglianza” che, grazie al potere della Cultura-Dominante (bisognosa di tagliare masochisticamente i ponti con la storia) risulta essere molto più pericolosa per la sopravvivenza dell’Occidente (che sinora s’è nutrito di memoria e d’identità) di quanto non lo sia il falso totem della “paura della diversità”:

«Mentre il nuovo mondo decade, l’antica Via e il Sentiero del ricordo dell’Ovest ancora sono certo percorribili […] per giungere dove i Valar tuttora dimorano, osservando lo svolgersi della storia».
J.R.R. Tolkien, Akallabêth

David Casagrande

[Immagine tratta da Google immagini]

Appunti di uno ancora in vita. David Casagrande intervista sé stesso (II parte)

«Se lei crede che io mi lasci abbindolare da cose tipo

“Sono un’artista, non ho bisogno di spiegare”, è fuori strada».

(Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013)

 

Tutte le sue teorie mi sembrano abbastanza preconcette. Non mi ha fornito dati empirici a loro giustificazione: mi ha semplicemente detto che “è così e basta”.

Cerco di venirle incontro: osservando il mondo, ho capito che tutte le azioni dell’uomo rispondono all’Amore o all’Odio. Lei prenda qualsiasi gesto, lo semplifichi giungendo al substrato che l’ha generato, e ne studi il fine: si accorgerà che base e fine sono (sempre!) l’Amore o l’Odio. Aggiungo: non solo le scelte esistenziali, ma anche le attitudini mutano la loro essenza a seconda che le s’indirizzi all’Odio o all’Amore.

Mi farebbe un esempio di attitudini che possono essere rivolte sia all’Odio che all’Amore?

Pensi alla musica: se la si produce per diletto puro, allora siamo nell’Amore, perché generiamo meraviglia. Ma se invece (ci) costringiamo a praticarla per competere o per volontà di superioritàebbene, siamo diretti all’Odio (e quanti genitori vedo imboccare questa strada, sfruttando i figli! Dominus parcat illis).
In realtà, ciò che vale per la musica, o qualunque tecnica particolare, vale per l’arte. In effetti, concordo con Hegel: l’arte è morta, e chi s’ostina a praticarla s’accanisce terapeuticamente s’una carcassa. Gli artisti d’oggi, animati da Spirito-di-competizione, ovvero dall’Odio, anche se si spacciano da Cristo che resuscita Lazzaro (perché pretendono di far bellezza, come in passato) sono dei Frankenstein che costruiscono mostri-nuovi con cadaveri-vecchi.
Tenga conto che la letteratura è esclusa da questo ragionamento: essa, infatti, non è arte, è Meraviglia, solo ed esclusivamente Amore. Nella letteratura non c’è traccia di Odio, perché manca di competizione.

Qual è il rapporto tra esistenzialismo e arte?

È un reciproco sospetto, direi. Fra i molti autori che potrei citare, ne eleggerò tre.

  1. Per Kierkegaard, l’arte è un rimando: in quanto tale, è un significante che indirizza al mondo e con esso mantiene rapporto inscindibile. Il problema è che, nel momento cui questo rapporto si mantiene nella mondanità, esso è – già da sempre – inautentico e non-libero.
  1. Sartre definiva la pratica artistica un “annichilimento della realtà”. Con un ottimo esempio, afferma che, sin quando stiamo a fissare un quadro di re Carlo VIII, non sapremo nulla di costui: egli “apparirà alla nostra coscienza” quando ci libereremo dall’influsso artistico per darci al “pensiero” del re.  In altri termini, l’arte impedisce alla coscienza di agire in modo consono alla sua missione.
  1. Bergson, riflettendo sull’essenza della realtà, si concentra su percezione e memoria pura. Ora, tale essenza è (per farla molto semplice) la realtà ontologica del tempo, che si dà all’uomo come intuizione-delle-cose. E l’intuizione, facoltà tanto conoscitiva quanto rivelatrice del tempo, non si trasforma mai in capacità artistica. L’arte dunque, è certamente a-temporale (il che, potrebbe essere positivo) ma, nondimeno, è a-logica.

Io, personalmente, ritengo che una vera comprensione dell’esistenza porterebbe all’implosione dell’arte. Se riuscissimo a capire che è la vita la nostra opera più grande! Che non occorre musica quando basta il suono del cuore! Che è la voce di chi amiamo la canzone più bella!

Lei cosa consiglia? Interdire la pratica dell’arte?

Superarla. Considerando che l’Odio nasce dalla competizione (meglio: si lega a essa) un’ottima idea potrebbe essere quella di favorire il ritorno all’arte-pura, eliminando i concorsi o le gare di disegno, di musica, di canto. E quegli squallidi show in TV… Terrei invece aperti, come depositi di “storia della purezza”, accademie e conservatori.

Torniamo alla sua filosofia. Lei sostiene che l’Universo invoca l’Amore, eppure ha scritto un Elogio del dolore. Come possono convivere dolore e Amore?

Amore e Dolore sono tutt’altro che opposti! Un amore può essere doloroso, e aggiungo: l’Amore-Vero necessita del Dolore per mostrarsi. Badi bene: il Dolore è doppio; esiste il Dolore-che-patisco e il Dolore-che-provoco e sono essenzialmente diversi: il primo conduce all’Amore, il secondo all’Odio, e io lo chiamo Egoismo.

Odio e Amore. Le due categorie fondamentali dell’uomo…

La interrompo. Le categorie dell’essere-umano (non dell’uomo!) non sono queste: l’Odio e l’Amore sono le Sorgenti e gli Orizzonti che raggiungiamo percorrendo le Grandi-Vie dell’Egoismo e del Dolore. Le categorie sono coppie di opposti atteggiamenti, che rispondono a due Trascendentali, che a loro volta dipendono dall’Universale. A ciascuna delle Grandi-Vie corrispondono due categorie.

Me le elenchi e me le esplichi.

Detesto la parola categorie, preferisco il termine Esistenziali: sono le caratteristiche fondamentali dell’esistenza (assunte da quel particolare essente che ha, nella sua propria essenza, il tratto fondante che si occupi del suo essere) al momento dell’imbocco di una delle due Grandi-Vie.
Detto in parole povere: gli Esistenziali sono le caratteristiche fondamentali dell’essere-umano, e cambiano a seconda che si scelga l’Amore o l’Odio. Tali Esistenziali sono: Essere/Apparire e Avere/Possedere.
Essere e Avere conducono all’Amore seguendo la via-del-Dolore, e si acquisiscono praticando la compassione. Apparire e Possedere conducono all’Odio, seguendo l’Egoismo, e si producono in chi non conosce compassione. I due Trascendentali (dai quali gl’Esistenziali dipendono) comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla Grande-Via che imboccano, sono Scelta-Libera e Ripetizione-Consapevole, possibili solo grazie all’Universale della Libertà.

Come la giustifica la Libertà?

Fondandola nella Speranza.

Concluderei con una domanda difficile. Lei teme la morte?

Non è una domanda difficile… e le rispondo che non la temo. Temo l’immobilità di una vita senza passione. Temo la gabbia di un corpo sfigurato dal tempo. Temo l’agonia… ma la morte non mi spaventa. In effetti, una delle mie speranze più grandi è proprio questa: svegliarmi una mattina, e cogliermi (senza strappi, sofferenze o pianti) non più come “indegno velo”, ma come presenza del ricordo, luce di me stesso, naufrago in un oceano di silenzio.

Cosa immagina ci sia, dopo la morte?

Lasci che le risponda con le parole di Tolkien:

«Infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una dolce fragranza, e udì canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba».

Non aggiungerei una sillaba.

David Casagrande

[immagine tratta da Google immagini]