Una parola per voi: fine. Dicembre 2019

«Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa […]. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. […] Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. […] Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse».

Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese

Con queste celebri parole Antonio Gramsci, politico e intellettuale che ha fatto la storia del secolo scorso, riflette sul senso che ha per lui il capodanno. Afferma di detestarlo, perché è una data che segna contemporaneamente una fine e un inizio, ma lo fa con un’imposizione, fissando qualcosa di fluido che dovrebbe essere lasciato scorrere liberamente: il flusso della vita, che è un intreccio di cominciamento e termine. Per questo il pensatore arriva ad affermare che per lui ogni giorno è capodanno, poiché ad ogni risveglio ricomincia a vivere, quasi ex novo, si potrebbe dire, interpretando le sue parole.
Oggi il capodanno è identificato non tanto con il primo gennaio quanto con i festeggiamenti del 31 dicembre: cenoni con amici o parenti, fuochi d’artificio e spumante a mezzanotte. In effetti, tutto questo ci viene imposto, sia a livello commerciale che a livello culturale. La maggior parte di noi tuttavia, accetta di buon grado questa velata coercizione, perché in è un’occasione conviviale e piacevole, che permette di fare festa in allegria.
Siamo a dicembre e la fine del 2019 è vicinissima, così come la fine di questa rubrica, Una parola per voi, che vi accompagna da più di un anno. Ma, per dirla con Gramsci, ogni fine è in realtà un rinnovamento, che sia esso imposto o meno. Torneremo, noi de La Chiave di Sophia, con nuove idee e nuovi progetti per voi. Vi salutiamo con la parola ‘fine’, proponendovi un film, un libro, una canzone, un’opera artistica che rifletta proprio su quest’ultima parola per voi.

 

UN FILM

viva-la-liberta-fine-la-chiave-di-sophiaViva la libertà – Roberto Andò
Sappiamo veramente quando sta per giungere la nostra fine? «Qual è questa figura che si allontana nella pioggia?» Citando il film Viva la libertà, dove il protagonista, interpretato da Toni Servillo, sembra saperlo bene e per altro si confonde con il suo sosia fratello.
Nel film troviamo, infatti, due protagonisti composti dagli stessi volti e questo può rende il tutto più difficile. Poco importa. Da una parte si parla di un partito politico in decadenza; dall’altra di un uomo che deve fare fronte ai propri dilemmi esistenziali. La fine sembra essere vicina per entrambi i casi.
Allo stesso tempo, però, c’è il flusso della vita e delle esperienze, perché dopo tutto ogni giorno è Capodanno.
Solo il prossimo telespettatore potrà darne un giudizio: chi effettivamente inizierà con pienezza a vivere o chi, tra di i due, sarà destinato a compiersi, decadendo. È difficile in poche righe descriverne la prassi. Ed è forse meglio così concluderne la recensione.

 

UN’OPERA D’ARTE

hokusai-fine-la-chiave-di-sophiaCardellino e ciliegio piangente – Hokusai
Xilografia policroma del 1832 Cardellino e ciliegio piangente, appartenente alla serie Piccoli fiori, è un poetico esempio di Kachoga, ovvero pittura di fiori e uccelli. Sensuale e leggiadra rappresentazione ridotta all’essenziale, lo schiudersi dei fiori nel rigoglio primaverile, è associata a un haiku della tradizione giapponese: Un uccellino, solo/ è uscito tutto bagnato:/ i ciliegi del mattino (Tori hitotsu/ nurete hidekeri/ asazakura). Inusuale e suggestivo per un osservatore occidentale è il punto di vista dal basso: attraverso tale prospettiva galleggiante il cardellino è raffigurato di scorcio come se venisse osservato dall’artista sdraiato sotto l’albero di ciliegio gli occhi verso il cielo, evocato dallo sfondo blu. I pittori giapponesi – come diceva Van Gogh – vivono nella natura essi stessi fiori: la fine dell’artista Hokusai è quindi l’inizio dell’artista Hokusai che si fonde in armonia panica con la natura trasponendosi al tempo stesso al di qua e al di là della rappresentazione e in essa.

 

UNA CANZONE

radiohead-fine-la-chiave-di-sophiaWhere I end and you begin – Radiohead
Where I end and you begin (The Sky is falling in) si inserisce appieno nell’album Hail to the Thief (2003) sottotitolato The Gloaming. Il crepuscolo è infatti quel momento di divario e di fusione, di scambio, di incontro e scontro, di inizio e fine: «There’s a gap in between/ There’s a gap where we meet/ where I end and You begin». Interpretabile come dilatazione di un momento d’amore dove estaticamente l’I and You si confondono («Where I end and You begin, 1,2,3,4,5,6,7…») e su un piano anche esistenziale, quasi malickiano («The dinosaurs roam the earth/ The sky turns green»), la canzone è essa stessa crepuscolo, franta e ripetutamente avvolta su se stessa, e non si fissa su un’unica pista di senso ma attraverso l’uso dei pronomi (I e You) l’inizio e la fine possono considerarsi tra loro speculari ma anche, sebbene all’interno di un medesimo flusso, tappe consecutive.

 

UN LIBRO

terzani-fine-la-chiave-di-sophiaLa fine è il mio inizio – Tiziano Terzani
Ormai al tramonto di una profonda esistenza, Terzani intraprende un lungo dialogo con il figlio Folco presso la dimora di Orsigna. Seduti all’ombra di un albero, con la sola compagnia della natura e di un registratore, l’autore riporta alla memoria aneddoti, avventure e avvenimenti tragici. Ripercorre così la storia più recente dell’Asia, la crudeltà che a lungo prese in ostaggio il Vietnam, la delusione dell’esperimento comunista cinese, gli incontri più o meno bizzarri, la passione per le statue tibetane e la curiosità per gli uccelli esotici. Così, mentre il fuoco dell’esistenza si spegne, la pienezza del vissuto di Terzani risplende in tutto il suo fulgore.

 

 

Francesca Plesnizer, Simone Pederzolli, Rossella Farnese, Sonia Cominassi

 

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Sguardo a Oriente: Tiziano Terzani e il concetto di malattia

Il tema della qualità della vita è uno degli argomenti più discussi degli ultimi anni. Senza un giusto bilanciamento tra sopravvivenza e qualità della vita, si corre il rischio che gli inconvenienti determinati dalle cure, ad esempio, interferiscano con lo stato di benessere soggettivo della persona tanto che tutto il periodo di sopravvivenza arriva a coincidere con quello di sofferenza, indotto da una terapia.

In questo caso, Tiziano Terzani (1938-2004), giornalista e reporter italiano che ha legato la sua vita, il suo lavoro e la sua ricerca di verità in particolare all’Asia, in Un altro giro di giostra racconta il suo ultimo viaggio, quello attraverso la malattia che lo ha colpito, un viaggio quindi diverso, più intimo e personale, che l’ha portato da New York all’India, lungo le strade della medicina sia tradizionale che alternativa. In una ricerca tra Oriente e Occidente «Ognuno deve cercare a modo suo, ognuno deve fare il proprio cammino, perché uno stesso posto può significare cose diverse a seconda di chi le visita. Quel che può essere una medicina per l’uno può essere niente o addirittura un veleno per l’altro: specie quando si lascia il campo, in qualche modo collaudato, della scienza e ci si avventura in quello ormai affollato delle cure alternative».

All’interno di questa prospettiva, la cultura orientale è stata a lungo ignorata da quella occidentale, impegnata a costruirsi categorie e strumenti razionali di indagine e di dominio della realtà. L’Occidente infatti è venuto a identificarsi sempre più con la razionalità tecnica e scientifica: modello che è stato spesso messo in discussione e che ha maturato una nuova attenzione per la civiltà orientale, espressione di una diversa tradizione culturale. L’Occidente guarda a Oriente perché trova nella sua saggezza qualcosa che ha smarrito e non ha più nel suo patrimonio culturale; secondo Terzani infatti: «l’uomo occidentale, imboccando l’autostrada della scienza, ha troppo facilmente dimenticato i sentieri della sua vecchia saggezza».

Se la cultura occidentale si presenta sempre più segnata da dualismi (soggetto-oggetto, mente-corpo), da conflitti e contraddizioni, l’Oriente, invece, sembra avere molto vivo il senso della ricomposizione armonica degli opposti, del loro equilibrio e la concezione di una unità armonica di tutta la realtà, in tutti i suoi aspetti.

Questa mancanza di armonia nel mondo occidentale è vista come effetto del prevalere di un atteggiamento aggressivo; si sente quindi il bisogno di integrare un altro tipo di atteggiamento, per conquistare l’armonia e l’equilibrio desiderati. La trasformazione comporta però una revisione, sia del modo di vivere che del modo di vedere le cose. Bisogna quindi superare quegli atteggiamenti unilaterali e la volontà di dominio per orientarsi sempre più verso un atteggiamento di complementarietà, verso una visione d’insieme. Questa visione unitaria, nella cultura occidentale sembra mancare, perché in essa è prevalso un modello di razionalità analitica e astratta, che ha sacrificato l’esigenza di avere un’esperienza profonda del mondo e delle cose.

L’Occidente quindi, si impone con la sua razionalità scientifica e tecnologica, ma sembra avere sempre più bisogno di qualcosa che non trova nella propria realtà culturale. E questa crisi della ragione sembra essere sempre più evidente dalle parole di Terzani: «la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è ancora estremamente limitata e dietro alle apparenze, dietro i fatti, c’è una verità che davvero ci sfugge, perché sfugge alla rete dei nostri sensi, ai criteri della nostra scienza e della nostra cosiddetta ragione».

La medicina occidentale, a questo proposito, sembra vedere la malattia e non più il malato, conosce le patologie del corpo, ma non sa vedere l’unità profonda della dimensione fisica e di quella spirituale; per questo il ricorso alle medicine alternative può essere considerato per affrontare e curare i disagi profondi di un’umanità interiormente divisa. Il confronto con l’Oriente quindi può suscitare una consapevolezza dei limiti della razionalità, il bisogno e la necessità di ripensarla, rompendo quelle impostazioni che sono avvertite come un impedimento per affrontare problemi e difficoltà nuovi.

Se l’Occidente quindi in questo senso è in una situazione di blocco, può cercare anche fuori di sé un aiuto e un’integrazione del suo ethos. Questo non significa abbandonare completamente il suo approccio, ma riconoscere di avere bisogno di altre fonti di morale, in un rapporto che sia di conoscenza, di disponibilità al confronto e al cambiamento. Dialogo che deve essere improntato al rispetto e alla convinzione che anche l’ “altro” è portatore di valori; arricchendoci a partire da questo incontro; come avviene nei rapporti di cura.

Ma un’importante indicazione si aggiunge a questo discorso, che ci viene da Terzani, perché egli riconosce che il viaggio per lui è stato una grande occasione di riflessione e di ricerca, ma «quello che alla fine mi pare di aver imparato è parte di quella filosofia perenne che non ha nazionalità, che non è legata a nessuna religione, perché ha a che fare con l’aspirazione più profonda dell’animo umano, con quell’eterno bisogno di sapere come mai siamo al mondo».

 

Martina Basciano

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

“Verità, sempre”. Intervista a Gabriele Parpiglia

Molti lo conoscono per averlo visto in televisione o per avere spesso letto il suo nome su un noto settimanale di gossip, ma nessuno sa chi c’è davvero dietro questo ragazzo che, attraverso l’impegno, la gavetta e la costanza è riuscito a diventare uno dei nomi più conosciuti nel panorama del giornalismo.

Per voi lettori de La chiave di Sophia, oggi abbiamo il piacere di intervistare Gabriele Parpiglia!

– Gabriele Parpiglia, giornalista professionista e nome conosciuto nel panorama delle notizie: quale è stata la gavetta che l’ha portata ad essere un numero uno?

Grazie ma non sono un numero 1. La gavetta non finisce mai e non è una frase fatta. Nel momento in cui pensi di aver finito la “gavetta” significa che hai finito di aver sete e fame, che ti sei adagiato, seduto e questo non deve MAI succedere. Ho iniziato come cameriere, ufficio stampa nei locali della Milano by night per mantenermi gli studi. Poi ho unito fortuna, costanza, fiuto e studio. I numeri 1 sono altri.

– Come è nata la passione del giornalismo? Cosa significa per lei essere un giornalista?

Io sono nato con l’idea di far questo lavoro. Fin da quando facevo i primi temi in classe alle elementari. Per dire: i miei amici compravano le prime sigarette o i giornaletti porno; io divoravo quotidiani e settimanali. Per me esser giornalista significa aver i crampi allo stomaco quando buco una notizia, aver i crampi allo stomaco quando ho una notizia in anteprima. Quando passeranno questi “crampi”, significa che mi sarà passata la voglia. Ma vengo dalla fame quindi… dureranno.

– Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia sembrano intrecciarsi e modellarsi a vicenda, prendendo forma attorno alla problematica dell’oggi e del rapporto tra evento e attualità: scrive infatti Foucault, « non vi sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi al momento attuale? (…) Ma penso che tale domanda sia anche a fondamento del mestiere di giornalista ». Cosa ne pensa?

Mi sono “focalizzato” sulla risposta. Senza far ricerche, rispondo di pancia: al momento dell’ “attuale” noi siamo quello che produciamo, creiamo perché ci crediamo e realizziamo. Nella filosofia, certamente, vince la parola, il giornalista invece vince con la notizia che può esser fatta di parole ma anche di fotografie, video, del “non detto” e quindi prende forme e formule diverse. I mestieri non possono essere simili.

– Un altro concetto che ritorna sia nel giornalismo che in filosofia è quello di “verità”, in entrambi i campi la si insegue; oggi come oggi il giornalista lavora sempre per Lei o si spinge oltre arrivando in taluni casi a vera e propria finzione? Perché?

La parola finzione non può esser abbinata alla professione di giornalista. La finzione esiste nel cinema, in tv, ma non dove vive la notizia. La notizia che sia di cronaca o politica o leggera dev’essere sempre vera. Uccide più lingua che la spada e la lingua deve per forza di cose, per evitare di fare del male a terze persone, essere portatrice sana di vera verità. Sempre. Questa la considero una “non domanda”.

– Quanto conta la selezione delle notizie? Quali criteri vengono applicati a tal proposito?

Priorità all’attualità. Vince la notizia legata al fatto più eclatante, vince la tempistica legata all’evento che la notizia scatena.

– Quanto è rilevante, al fine di produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità?

Anche questa è una non domanda. Per me non esiste la possibilità di mentire o raccontare fatti irreali o artefatti. Quindi gli effetti prodotti da notizie politiche e non, se partono dalla verità, racconteranno conseguenze relative a discorsi… pur sempre veritieri.

– Quali sono le esperienze lavorative che le hanno lasciato positivamente il segno e perché?

Quando ho iniziato. Ricordo il primo stage gratuito a Panorama e il sogno di un contratto. Era un’Italia diversa ed ero più giovane, tredici anni fa. Poi è cambiata l’Italia, tutto è diventato più difficile. Ogni tipo di lavoro ha sentito la crisi sociale del Paese. Idem il nostro. L’avvento dei social oggi ha devastato parte del mondo della comunicazione e della cronaca leggera o se volete chiamiamola “People”. Un motivo in più per tirar fuori le palle e darsi da fare ancora di più e lavorare sodo per trovar notizie, notizie.

– Lei è un giornalista completo perché si occupa sia di ‘People’ che di cronaca: quale tra i due campi preferisce?

Ho sempre pensato che occupandoti di cronaca hai meno possibilità di far carriera. Ma in ogni caso quando fai il giornalista, devi essere giornalista a 360 gradi.

– Cosa distingue chi si limita al giornalismo ‘patinato’ da chi, invece, si rende capace di addentrarsi nel campo della cronaca?

La distinzione sta nell’essere un pirla. Chi si limita già di per se è un pirla. Ripeto: fare il giornalista significa saperne di tutto un po’.

– Il mondo dello showbiz è quello che si vede realmente nelle riviste patinate o, proprio in questi casi, la verità viene surclassata dal bisogno di dare una bella immagine di sé?

Non è la miniera per carità, ma non è un bel mondo. Ci vuole stomaco di facciata e stomaco di ricambio.

– Tra i personaggi noti chi la stupisce positivamente ogni volta che lo incontra? Perché?

Sono pochi e sono amici (veri) ma niente nomi. Almeno questo lo tengo fuori dal lavoro. Sarei scontato se dicessi Benigni o Fiorello. Oggi punterei molto su Emma Marrone. È una ragazza predestinata. Nata con un segno che lascerà il segno. Di lei ne sentiremo parlare, lei la sentiremo cantare per molti e molti anni.

– Negli ultimi anni le notizie si diffondono soprattutto sul web: è davvero preferibile alla carta stampata? Quale sarà, secondo lei, l’evoluzione?

Studi soprattutto americani dicono che la carta stampata andrà a morire. Dopo lo scandalo legato a New of the World e Murdoch la carta stampata ha subito un contraccolpo mondiale. La gente non ci credeva più. Come se fosse svanita la magia. In Italia, in piccolo, la vicenda legata a Fabrizio Corona, ha tolto il gusto di sfogliare i giornali. Svelare il dietro le quinte della notizia, per un breve periodo storico, significava alzar la macchina del fango. Poi la crescita dei social ha fatto il resto. Io sono un innamorato della carta e sono convinto che ci sono generazioni che non la abbandoneranno mai. Esempio: basta fare un giro negli ospedali e gli anziani non hanno l’Ipad accanto al letto, ma il settimanale di fiducia che gli tiene compagnia. E le signore al mare o in montagna non rinunciano al giornale nella borsa griffata. Idem gli stessi personaggi che ancora oggi nonostante tutto offrono “scoop” a colpi di cover. Ma io preferisco sempre trovar le notizie da me.

– Ad un giovane d’oggi che vorrebbe fare il giornalista cosa consiglierebbe? È davvero ormai un sogno proibito?

D’istinto mi verrebbe voglia di rispondere di pancia ma il messaggio sarebbe negativo. Di una cosa sono certo, se davvero ma davvero, ma davvero credi in qualcosa; devi spingerti oltre ogni tua possibilità. Noi siamo capaci di cose impossibili quando però lo vogliamo veramente. E se una volta raggiunto l’obiettivo, ci sediamo; beh è li che la vita arriva da dietro e con un colpo ti riporta a zero. Mai adagiarsi. Mai. Nemmeno quando si ha un minimo di potere. Il potere uccide non solo il singolo ma anche chi gli sta attorno. Purtroppo.

– Ultima domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cosa pensa della Filosofia?

Potrei andare su google e trovare una frase adatta per rispondere e fare il figo. Invece rispondo d’istinto. Dunque credo che per chi come me ha fatto gli studi classici, la filosofia è un qualcosa che ti resta dentro. Non tutto. Solo ciò che ti ha appassionato, che ti ha illuminato. Io ero “fan” di Parmenide e Socrate. Forse perché in quel momento, a quell’età, quel giorno, li ho sentiti miei, o forse perché l’insegnante nel giorno in cui li ha spiegati, non aveva litigato con il marito e li ha spiegati al meglio! Universi paralleli difficili da sviscerare in poche parole. Ma io ho approfondito e ammetto che sia Socrate e la sua parola che Parmenide con il suo “essere”, mi sono serviti nella vita e nel lavoro.

Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all’idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo.
Tiziano Terzani
Fare giornalismo significa vivere, vivere attivamente, senza farsi travolgere dagli eventi passivamente.
Fare giornalismo significa osservare la realtà circostante e le persone che la popolano.
Fare giornalismo significa capire cosa succede attorno a noi.
Fare giornalismo significa raccontare e spiegare agli altri, non cosa vedono solo i miei occhi, ma quello che tutti riescono a vedere ma senza percepirne il senso.
Questo amore per la ricerca e la trasposizione reale dei fatti vale per il giornalismo di cronaca ma anche per quello patinato, perché, come ci ha detto Gabriele durante l’intervista, le parole possono fare molto male, quindi non si può giocare con esse sulla pelle di qualcun’altro solo per il gusto di sottomettersi alle illogiche regole di taluni ambienti.
Per me odioso, come le porte dell’Ade, è l’uomo che occulta una cosa nel suo seno e ne dice un’altra.
Omero
Nel giornalismo che ci racconta Gabriele e che dovrebbe appartenere a tutti i giornalisti, non c’è spazio per la finzione, per l’artefatto, per la favola e se vogliamo anche per l’opinione personale perché tutto ciò porterebbe alla morte della verità come aletheia, cioè non-nascondimento.
La verità giornalistica la sovrappongo, dunque, a quella filosofica: in entrambi i casi essa è da considerarsi un’attività dinamica che confuta l’errore e smaschera il falso senza penetrare l’essenza delle cose, altrimenti si cadrebbe nella metafisica e come disse Wittgenstein: “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
Grazie Gabriele per averci dedicato un po’ del tuo tempo!
Valeria Genova
[Foto di Gabriele Parpiglia da lui concessaci]

 

Tiziano Terzani e il “mostro”

Moriamo un poco ogni giorno,

e ancora,

non vi è altro porto che la morte. Perciò non guardar male la condizione di tuo fratello: è in pace. Finalmente è libero, finalmente sicuro, finalmente eterno. Ora egli gode del cielo libero e aperto. […]Ti inganni: tuo fratello non ha perso la luce, ma ne ha trovata una più vera,

la vita non è breve, come afferma Seneca nel De Brevitate Vitae: è l’uomo a renderla tale quando disperde il tempo senza saggezza; nel tempo della vita che abbiamo a disposizione, infatti, noi dobbiamo cercare di crearci e di vivere una biografia unica e piena.

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Ode alla Natura

Le cose che si dicono essere per natura sono prodotte da un’arte divina, mentre quelle che sono costituite ad opera degli uomini sono prodotte da arte umana

Platone, Sofista

Il viaggio permette l’esplorazione.

Osservare e contemplare sono i due verbi che metto sempre in valigia quando parto.

Torno dalla Norvegia, il ricco Paese del Nord Europa, florido grazie ai giacimenti petroliferi: prima della partenza mi aspettavo un territorio maestoso ma anche sfruttato dall’uomo; invece, lassù, oltre il Circolo Polare Artico ho incontrato Lei, madre di tutto e di tutti: la Natura.

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Ricordare, Progettare o Vivere?

“Ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama ieri, l’altro si chiama domani, perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere”.Dalai Lama

Ricordare ieri, programmare il domani. Questo è ciò di cui si caratterizza maggiormente il nostro oggi.
Ci sono ricordi che sembrano indelebili, ce ne solo altri che riaffiorano: pervadono la nostra mente insinuandosi e sembra che non ci lascino altro spazio. Si guarda ai ricordi per insoddisfazione del presente, spesso ci si convince di questo.

Ma se vedessimo il ricordo semplicemente come “ciò che è stato”, come un passo in più per arrivare al giorno che stiamo vivendo?
Si ricordano i momenti felici, ci sentiamo torturati dagli errori commessi. Soltanto nel presente ci si rende conto di aver perso quel passato non vissuto appieno: la scelta cadrebbe nel voler tornare indietro, soltanto perché quel momento ci è sfuggito per sempre.

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Diversità culturale come relazione

Il concetto di diversità è un concetto ambivalente, da un lato inteso negativamente provoca un senso di rifiuto o di esclusione, dall’altro inteso positivamente diventa elemento di arricchimento nel confronto con l’altro.

Il termine assume valenze diverse a seconda del senso e del valore che ognuno di noi, nelle varie situazioni gli attribuisce, parliamo di diversità relativamente ad oggetti, persone, luoghi, tempi, culture, usi e costumi.

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