La forma della paura: in margine a It di Stephen King

Come ha scritto Kierkegaard, paura e angoscia non sono sinonimi. L’angoscia è l’irrequietezza di essere difronte all’ignoto, la paura invece è un’emozione precisa, terribile nel suo essere nitida. Detto altrimenti: mentre è raro sapere cosa ci angoscia, la paura ha sempre un contenuto specifico. E la paura atterrisce, cioè getta al suolo, ci inchioda a terra. Non solo metaforicamente, visto che in latino paura (da păvŏr) e pavimento (da păvīmentum) condividono la stessa etimologia, essendo entrambi legati al verbo păvīre che significa battere il terreno e quindi, per estensione, essere sbattuti a terra.

Una paura così intesa è al centro del più celebre romanzo di Stephen King, It, fonte di terrori per l’immaginario collettivo.

La trama del romanzo è nota: il piccolo Georgie muore a seguito dell’incontro con un clown assassino che lo aggredisce mentre gioca con la barchetta di carta costruitagli dal fratello Bill. Quest’ultimo raccoglie un gruppetto di sei coetanei, uniti da un legame quasi magico. Insieme sfidano l’indifferenza dei cittadini di Derry nei confronti dei terribili eventi che accadono, indolente maschera pubblica di ciò che si nasconde sottoterra, nel sepolto inconscio della città: It, mostro dai mille volti, capace di assumere la forma di ciò che più spaventa chi ha davanti.

A dispetto del pronome generico, It è tutto fuorché indefinito: è “il male in sé per me”, il male assoluto fattosi spavento cucito su misura per me. E le nostre paure sono il nostro punto debole perché ci svelano, parlano di noi. La forma in cui It si manifesta a ciascuno dei protagonisti del romanzo ne tratteggia il carattere. Dimmi cosa ti spaventa e ti dirò chi sei. Così le giornate dei sette ragazzi si popolano inizialmente di lupi mannari, mostri, fantasmi, mummie. Un intero arsenale da film dell’orrore che li svela e li sconvolge, certo, ma non li terrorizza davvero: quelle infatti sono solo le forme che la paura assume per loro in superficie, per le strade di Derry, quando scappare difronte ad esse appare una valida alternativa.

Ben diverso è quando i ragazzi affrontano il vero volto di It, senza più dissimulazioni, e realizzano che la paura (come i sogni e i clown) cela sempre il proprio reale aspetto dietro immagini e allusioni. Alle soglie della tana di It, trovano una porta con inciso un ideogramma in cui ciascuno vede qualcosa di diverso, personalissimo e segretamente terrificante. D’improvviso le loro paure calano la maschera infantile: niente più mostri. Esse di colpo si fanno adulte, concrete.

Bill, divorato dal senso di colpa, vede l’odiata barchetta di carta costruita per Georgie, causa indiretta della sua morte. Stan, sempre a caccia di uccelli rari, è lacerato dalla sua ambizione a un ideale sempre così distante dalla realtà, e gli appare una fenice, l’unico uccello che non potrà mai scovare perché forse neppure esiste. Richie vede un paio di occhi dietro a spesse lenti, quegli stessi occhiali che anche a lui sfigurano i lineamenti e scivolano sempre sul naso, perenne monito del suo sentirsi inadeguato. Mike, ragazzo di colore, scorge un vecchio razzista incappucciato e la paura (più reale di qualsiasi mostro) di doversi guardare le spalle per via del colore della sua pelle. Beverly, spesso oggetto di violenza da parte di un padre che dice di amarla, vede un pugno chiuso. L’ipocondriaco Eddie vede un lebbroso, paralizzato com’è dalla paura di morire per qualche grave malattia. Ben, vittima prediletta dei bulli per la sua obesità, vede un mucchietto di carte di merendine, allegoria assai poco sottile di quel cibo a cui compulsivamente non sa rinunciare e che fa di lui il sovrappeso fuoriclasse dei perdenti.

Quella che maturano i protagonisti davanti a quella porta è una svolta. Si fa un enorme passo in avanti conoscitivo quando si accetta che ciò che ci atterrisce non è il mostro che ci sbrana da fuori, ma quello che ci divora da dentro e a cui piace nascondersi e indossare maschere per rendere più arduo il nostro sforzo di identificarlo ed esorcizzarlo. Per questo è essenziale imparare a dare un nome alla paura; ma deve essere quello corretto: inutile continuare a chiamare lupo mannaro ciò che in realtà si chiama frustrazione o rimorso o timore di non farcela.

Tuttavia, in un originale contributo al compito che la filosofia si è assunta ab origine, ossia liberare dalla paura, King ci offre un’inedita via d’uscita: tutte le creature devono obbedire alle leggi della forma che abitano. E la paura non fa eccezione: ogni forma che essa assume la imbriglia e la depotenzia vincolandola a obbedire alle regole che quella forma implica. I vampiri si dileguano alle prime luci dell’alba, i licantropi non resistono ai proiettili d’argento; l’insicurezza è annientata da irremovibili decisioni, il timore rispetto al domani si vince progettandolo. Insomma, ogni forma può diventare un punto di leva: quando contringiamo la paura a mostrare uno specifico volto stiamo in realtà già ponendo le basi del suo ribaltamento. Perché saperla de-finire significa anche riuscirla a con-finare all’interno di limiti invalicabili, e ci fornisce gli strumenti per porre fine al suo potere paralizzante.

 

Filippo Rinaldo

Filippo Rinaldo, 31enne padovano, laureato in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, da cinque anni insegna Filosofia e Storia in un liceo della città di Antenore. Tiene anche corsi di Filosofia per adulti e di Scrittura argomentativa. Appassionato di cultura pop, legge Kant con lo stesso trasporto con cui segue “Black Mirror” o “American Gods” (e viceversa). Scrive per diletto, per chiarire prima di tutto a sé stesso il senso nascosto di ciò che legge, vede e sperimenta.

[Photo credit unsplash.com]

 

La Terror Haza di Budapest: quando il terrore diventa realtà

Oggi, chi lavora nel campo museale o cura mostre d’arte si trova ad affrontare numerosi problemi di natura estetica e didattica: creare installazioni che valorizzino le opere esposte, rendere la struttura bella ma agevole al pubblico, istituire dei percorsi tematici che aiutino a comprendere gli autori e raggiungere l’osservatore medio, che intenditore d’arte non è. Purtroppo le scelte estetiche che vengono poste in atto, spesso non riescono ad avvicinarsi ai più, i quali, pur rimanendo colpiti sul momento, dimenticano dopo poco il fil rouge della mostra e, passate alcune settimane, non riescono a ricordare nemmeno le opere cardine delle collezioni che sono state esposte.

Un esempio  che contrasta con quest’ultima affermazione è facilmente riscontrabile in un noto museo di Budapest: si tratta della Terror Haza, una sorta di casa-museo nella quale vengono ricordati gli orrori e le vittime del regime comunista.

L’uomo medio che entra per la prima volta in questa struttura viene in primo luogo toccato dall’impianto stesso: una sorta di abitazione, quasi un ambiente familiare, costituito da più piani e diverse stanze. La sensazione che prevale non è quella di un classico museo, freddo e distaccato, istituzionale per così dire, ma di un ambiente raccolto, nel quale l’osservatore non si può perdere.

Il percorso che viene costruito è ad una via e ciò permette di seguire un filo logico, una strada ben definita. Il visitatore è dunque condotto in un’escalation di emozioni, ogni stanza ricorda un pezzo di storia ed è resa suggestiva sia nel gioco di luci, sia negli elementi che la compongono.

Quest’ultimi, in particolare, sono a loro volta disposti in modo da creare una sensazione tridimensionale: abiti d’epoca appesi su normali attaccapanni, scrivanie arricchite con telefoni datati, scartafacci o porta documenti del secolo scorso. L’assetto di questi elementi istituisce una sorta di processo d’inclusione, quasi l’osservatore fosse catapultato in un momento storico che non è il suo, in una realtà che riprende magicamente ad esistere e di cui si sente parte.

Tale idea è a sua volta consolidata da un espediente che rompe il gioco di ruoli: la possibilità di interagire con parte dei pezzi di storia che sono esposti, non solo di “guardare e non toccare”. Ecco che il visitatore comincia allora a giocare diversi ruoli: utilizza i telefoni per sentire la voce delle vittime, guarda filmati di testimonianze seduto tra i documenti dei condannati, osserva le minuscole celle nelle quali morivano i prigionieri. Colui che entra nella Terror Haza si sente in qualche modo parte di quel mondo, a sua volta vittima, prigioniero, perseguitato, quasi fosse stato risucchiato da una macchina del tempo.

Nel caso della Terror Haza di Budapest, dunque, l’installazione diventa in un certo senso parte di ciò che è esposto, la musica, i video, sia pure riprodotti con tecniche contemporanee, collaborano nell’impianto e anche il visitatore meno preparato comprende e viene mosso nell’animo da un groviglio di emozioni.

Forse questo esempio dovrebbe spingere a riflettere sulle scelte che vengono effettuate in diversi musei italiani. Talvolta, pur alla presenza di collezioni o manufatti di valore inestimabile, dimentichiamo di costruire un contorno che possa renderli vivi, che riesca a dialogare con chiunque e, di conseguenza, che faccia realmente apprezzare le opere.

Spesso si dice che l’arte è superata, che gli interessi contemporanei ricadono ormai su altri svaghi, dimentichi delle epoche passate. In realtà bisognerebbe chiedersi se ad essere superato non sia il modo di trattare l’opera più che l’opera in sé, il modo con cui un oggetto viene reso fruibile al grande pubblico e a colui che è davvero l’ultimo interlocutore del nostro patrimonio culturale.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da google immagini]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

[T] ERRORE

Terrorismo: una guerra che ha come obiettivo la psiche umana e collettiva, laddove la realtà percepita non è quella reale.

Attentati terroristici, bombardamenti, raid: queste sono le parole che accompagnano i titoli dei nostri quotidiani. Il fenomeno del terrorismo non è un’emergenza, ma un dato di realtà. Combatterlo è un dovere, restando consapevoli dell’impossibilità di un suo completo sradicamento. Oggi ci riferiamo soprattutto al terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, oltre ad essere sbagliato, è pericoloso convogliare le forme di sedizione su una religione.
Siamo di fronte ad un’islamizzazione della radicalità e non ad una radicalizzazione dell’Islam. I simpatizzanti dello Stato Islamico sono coloro che necessitano di un’ideologia che possa sostenere la loro ribellione.

Il terrorismo è un fenomeno in crescita. Sono circa 35.000 i morti nel 2015, ma non è un numero assai cospicuo. Si pensi, per esempio, che le morti causate da incidenti domestici sono ben superiori (250.000 decessi all’anno)1.

Inoltre, da un punto di vista economico, i danni diretti sono valutati intorno ai 55 miliardi di dollari, tuttavia, se pensiamo ai trilioni di dollari in circolazione nel mondo sono cifre quasi ininfluenti.

Eppure, lo spirito del terrore è al centro del nostro mondo, in particolar modo quello mediatico, diventando una patologia comunicativa. Appare, così, più drammatico di quanto esso sia in realtà. È più rilevante quello che si riesce a far dire ai media del nemico rispetto a quello che si proferisce attraverso i propri. Le parole sono importanti. Esse creano un’immagine mentale che si sedimenta dentro la psiche. Occorre incitare la propria folla, ma l’obiettivo finale è quello di suscitare nelle persone del campo avversario delle emozioni negative.
Inoltre, come ci ricorda Noam Chomsky «sfruttare l’emozione è una tecnica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, di conseguenza, il senso critico dell’individuo».

L’obiettivo dell’assoggettamento della mente all’ansia, alla paura, all’impotenza ha un impatto più intenso rispetto al danno diretto causato da un attacco.
La percezione del rischio e la paura diventano gli indicatori di come le persone rispondono alle minacce terroristiche. Esse sono chiamate ad una risposta, la quale esige un mutamento cognitivo e comportamentale per reagire allo stress.
Le emozioni che ne derivano sono molte, così come le risposte comportamentali. L’impulso a fuggire da una situazione percepita come pericolosa è una risposta coerente e fisiologica, ma talvolta queste risposte si attivano anche in assenza di un’effettiva minaccia incombente. La paura causata da una sproporzionata percezione del pericolo influenza i comportamenti delle persone, sia come singoli che come folla, portando a decisioni inadeguate ed irrazionali.
La domanda alla quale è opportuno rispondere è: “Rischio reale o presunto?”
La consapevolezza della realtà circostante diventa la nostra arma di difesa e rievocando le parole di Lucio Caracciolo «il terrorismo non deve cambiare le nostre vite

Jessica Genova

NOTE:
1 http://www.epicentro.iss.it/ Il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica. A cura del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute.

Terrorismocrazia

7 gennaio 2015, Parigi, sede del giornale satirico Charlie Hebdo – 1 luglio 2016, Dacca.

In mezzo a queste due date c’è la spiaggia di Susa presso l’hotel Riu, c’è il Bataclan, l’albergo Radisson Blu di Bamako nel Mali, c’è San Bernardino in California, Istanbul, Bruxelles, Orlando in Florida, c’è ancora Istanbul ma questa volta il suo aeroporto.

Sconfortante mettere assieme le date dei recenti avvenimenti per dar forma all’essenza internazionale che questo biennio sta respirando.
Il potere del Terrorismo, o Terrorismocrazia, ha ritrovato la sua spinta iniziale di dieci, quindici anni fa; non occorre paventare la fine del mondo, ma prendere atto del fatto che siamo davanti al metodo più consolidato e rodato, per destabilizzare, confondere, per far prevalere i contrasti, per dividere le persone di una o più comunità.

Per comprendere il male e quindi per iniziare ad affrontarlo, occorre sprofondarvici dentro.
Immergersi nell’oscurità delle risoluzioni estreme, nella filosofia dei pianificatori di morte: aut omnia aut nihil, o tutto o nulla.
Il terrorismo non ha una storia troppo recente, non è cosa di oggi, ha avuto altre forze che lo hanno sostenuto, altri protagonisti e ha sconvolto altre epoche, lasciando dietro di se altre vittime su cui piangere.

Mi sono spesso soffermato sulle sfumature di questo male: prendono i colori della religione, della politica, del sentimento di appartenenza ad un determinato sistema, della convinzione di essere gli autoproclamati portatori sani di una società nuova.
E tutti gli altri?
Gli altri diventano vittime sacrificali, diventano agglomerati di “sbagliati”.

In un altro frammento storico, quello 1894-98, le vittime del terrorismo propriamente detto erano i politici, i rappresentanti del potere.
Antonio Cánovas del Castillo, Presidente del Consiglio spagnolo.
Marie François Sadi Carnot, Presidente della Repubblica di Francia.
Elisabetta “Sissi” di Baviera, Imperatrice d’Austria.
Gli esecutori? Tutti italiani: Caseri, Angiolillo, Luccheni.
Quarant’anni prima Felice Orsini, tentava di uccidere Napoleone III di Francia, e mentre l’imperatore si salvava, così non poteva dirsi per dodici persone.

Ancora, 20 marzo 1995, metropolitana di Tokyo, cinque persone salgono sul treno, in una città grande e caotica come quella è normale, è routine.
Ma queste cinque persone fanno parte della neo-religione Aum Shinrikyo, che si propone di raccogliere insegnamenti e dettami sia dal buddhismo che dall’induismo, travisandone e reinterpretandone il messaggio.
Il gas nervino uccide dodici persone; il sistema di reinterpretazione di un messaggio religioso creando estremismi simili, comincerà a farne decine di migliaia di lì a sei anni.

Un piccolo passo indietro: mattina del 18 luglio 1994, questa volta siamo a Buenos Aires, nel seminterrato del palazzo in cui fa sede l’Associazione Mutualità Israelita Argentina, salta in aria un furgoncino imbottito di tritolo, ottantacinque morti.
Solo sospetti, ma nessuna conferma e cade tutto nel buio.

In altri articoli ho spesso ricordato gli “anni di piombo in Italia, manovrati da matrici politiche di estrema destra, estrema sinistra.
Ma sono esistiti anche terrorismi di matrice nazionalista: IRA (Irish Republican Army) in Irlanda del nord, e l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna) nei Paesi Baschi, al confine tra Spagna e Francia.

Colpire per uccidere un obiettivo designato.
Seminare paura sotto l’insegna del terrore, e cos’è il terrore?
E’ qualcosa che si insinua nel subconscio delle persone, e che modifica radicalmente le loro vite, le condiziona, crea nuovi punti di riferimento, altera la scala dei valori.

Ecco perché ho voluto definire tutto questo: Terrorismocrazia.
Considerarla esclusivamente in base all’aggettivo che ne indica la provenienza, significa declassare tutte le altre forme di terrorismo che ho elencato, rendendole di fatto superate, quindi dimenticabili.
L’errore è tutto lì.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

Tecnologia e terrore

Quando comparvero i primi treni che andavano a ben 80 km all’ora alcuni detrattori dell’utilità di quella tecnologia sostennero che a quella velocità inaudita i passeggeri avrebbero subito gravi danni alla salute, la velocità avrebbe impattato sugli organi interni dei passeggeri portandoli a morte certa. Edison, fermamente contrario alla corrente alternata, arrivò a friggere una povera elefantessa in una orribile esecuzione pubblica. La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende dall’uso che ne facciamo: i telefoni cellulari hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere in positivo, ma possono anche essere usati per attuare attentati terroristici.

La foto di Mark Zuckerberg al discorso scandito dal palco di Samsung al Mobile World Congress: “La realtà virtuale è la piattaforma del futuro. Cambierà le nostre vite” che sceso dal palco viene immortalato di fronte a una moltitudine di persone dagli occhi coperti da un innovativo dispositivo tecnologico immerse in una realtà virtuale, basta per rievocare orde di neo luddisti pronti a immaginare scenari apocalittici. Facciamo un passo indietro, chi è Ned Ludd? Il luddismo è stato un movimento di protesta operaia sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra particolarmente noto per accanirsi contro i macchinari industriali.Ned Ludd, forse una figura mitologica, è descritto come un giovane che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd incarna la distruzione delle macchine percepite come nemiche di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale. Ludd può apparirci come una figura distante, ma è ancora tra noi nella misura in cui ci si approccia alle nuove tecnologie con atteggiamento denigratorio, la storia dell’umanità è piena di esempi di resistenza sociale al mutamento tecnologico.

Intanto bisogna sgomberare il campo da una grande ipocrisia: si cerca spesso di descrivere una tecnolgia in senso negativo come se questo fosse un dato oggettivo, ad esempio la fissione nucleare è un male in sé a prescindere dall’utilizzo che se ne fa, cosa smentita dalla realtà nella misura in cui essa va a beneficio della salute di pazienti malati di gravi patologie. I detrattori della tecnologia sono costretti ad ammettere che la diffidenza verso la novità deriva più da un dato soggettivo, una sorta di nostalgia per le cose com’erano una volta, la manifestazione del desiderio che tutto resti com’ è. La spinta alla conservazione tende ad essere sempre più forte di quella all’innovazione eppure il dato è che il mondo cambia ed è in perenne movimento, esigere che le cose restino statiche significa negare la vita.

Il concetto economico di “decrescita felice” è sensato nella misura in cui parliamo di razionalizzare sprechi e consumi, diventa invece nemesi della vita e utopia nella misura in cui nega la tensione umana al progresso, che è il superamento costante dei propri limiti, motivo per cui siamo stati spinti ad esplorare ogni angolo del nostro pianeta e le stelle. Forse proprio da questa tensione a superarsi l’umanità trarrà un giorno la forza per esplorare lo spazio e fuggire da un sistema solare morente, a lungo termine la tecnologia è l’unica condizione di possibilità della salvezza dell’intero genere umano.

Bisognerebbe riprendere Hegel: la storia dell’umanità è storia del progresso e la soluzione ai problemi derivanti dalla tecnologia non possono che derivare dalla tecnologia stessa e dallo sviluppo della conoscenza scientifica, a patto che dalla dialettica uomo-macchina, sapere umanistico e sapere scientifico si tragga infine una indentificazione nel concetto che essi sono in definitiva la stessa cosa, identificazione tra chi fa quella determinata tecnologia e quella tecnologia stessa.

L’innovazione è l’unica condizione di possibilità dell’essere umano dal momento che guarda sempre al futuro e ne vive la dimensione temporale: ansia, speranza e aspettative fanno parte del nostro modo di vivere il tempo. Il modo in cui l’umanità vive il tempo la rende del tutto diversa dalle altre forme di vita animale e vegetale che conosciamo.

Viviamo in un futuro prossimo in cui uomo e macchina raggiungeranno livelli di simbiosi inauditi e non è certo utopico pensare che un giorno saremo supportati da macchine androidi, possiamo opporci a tutto questo sapendo che accadrà comunque oppure possiamo abbracciare il futuro cercando di guidarlo nel migliore dei modi a partire da un insaziabile desiderio di superarci come individui e come specie?

Matteo Montagner

La paura della paura

 

La paura è una cosa indefinibile, un’emozione ingannevole e insidiosa che può causare distruzione e devastazione, se le si permette di crescere. Rosemary Altea

Avete mai pensato a cosa vuol dire avere paura della paura? A cosa significhi vivere nell’attesa che arrivi quell’attimo che ti farà perdere completamente il controllo? Io non ci avevo mai pensato, fino a quando non mi è capitato.

Ed è stato terribile.

È iniziato tutto in una serata tra amici, a cena. Ancora non me lo so spiegare. Stavo mangiando quando all’improvviso non riuscii più a deglutire. Mi sentivo soffocare. Mi mancava l’aria. Il cuore prese a battermi così forte che pensavo mi uscisse dal petto. Iniziai a sudare. Non avrei mai immaginato che nella vita si potesse stare così male, che esistessero delle sensazioni così terribili. In quel momento pensai che sarei morto e che nessuno mi avrebbe potuto salvare.

I miei amici, spaventati, mi portarono in ospedale. Fu una nottata di esami, elettrocardiogrammi e visite con numerosi dottori, fino a quando mi fu detto che quello che avevo avuto era stato un “comune” attacco di panico. E in un certo senso fu sconcertante scoprire che non avevo nulla, che era stato tutto frutto della mia mente. Sarebbe stato meglio scoprire di aver avuto qualcosa. Perché da quella sera la mia vita si è fermata.

Sarebbe successo di nuovo? E se sì, quando? Dove? Sarebbe stato sempre uguale? Ero tormentato. Avevo paura. Paura di me, della mia mente, di quello che poteva succedere. Mi vergognavo da morire e non sapevo cosa fare. Mi sentivo un malato immaginario. Era impossibile da capire per gli altri, pensavo. Era impossibile credermi.

È così che ho iniziato a convivere con uno scomodo me stesso, che ho iniziato a cercare di controllare qualcosa che per me era assolutamente incontrollabile. È così che mi sono messo agli arresti domiciliari. Ho iniziato a evitare qualunque cosa: uscire da solo per strada, guidare, frequentare luoghi affollati. Ho il terrore che l’attacco si manifesti di nuovo. E così evito di uscire. Tengo sempre il cellulare vicino.

La mia vita è completamente cambiata. La mia vita non è più vita.

Mi sono sempre considerato una persona libera. Mi piaceva stare insieme agli altri, uscire, divertirmi. Ero uno sportivo. Adesso… adesso non sono più niente se non uno spettro di me stesso. Vivo nella paura della paura.

Ed è terribile.

Un attacco di panico, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM), corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. In presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, rispetto a cui si ha una preoccupazione persistente, si parla di Disturbo di Panico. Può esordire in qualunque momento della propria vita, all’improvviso e in circostanze inaspettate, mentre si sta compiendo una qualsiasi attività. L’attacco di panico non è pericoloso per la salute ma le sensazioni che si sperimentano sono così intense e coinvolgenti da far sviluppare in chi le prova l’intensa paura che si possano ripetere. Il primo episodio porta al timore di rivivere le stesse drammatiche sensazioni e di sperimentare nuovamente quel malessere. Nasce così la paura della paura. Quella stessa paura che porta chi ne soffre a chiudersi sempre più in se stesso e a non riuscire ad avere una vita sociale, a rinchiudersi in una gabbia da cui non riesce più ad uscire. I disturbi d’ansia sono estremamente comuni e tendono a essere sempre più frequenti nella popolazione. Sebbene le cause non siano ancora note, quello che è importante sapere è che da questa gabbia se ne può uscire e tornare a vivere, senza più mostri sulle spalle a tarparci le ali.

Giordana De Anna

Follow @GGiordana

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Io non sono Charlie

Io non sono Charlie. Non lo sono, banalmente, perché non mi occupo di satira. Non lo sono perché non apprezzo quel tipo di satira che a volte trovo troppo “spinta”, in certi casi offensiva. A volte l’irriverenza sfocia in insulto. Io non sono Charlie perché chi, qualche volta, ha deciso di censurare un mio articolo, non lo ha fatto con un fucile. Io non sono Charlie, ma dal basso del mio piccolo mondo giornalistico posso dire che la libertà di stampa non esiste. Che la libertà di espressione è solo uno slogan politico. Io non sono Charlie perché i miei articoli non sono stati censurati da terroristi internazionali, ma da politichetti più o meno locali ispirati da una megalomania che ad osservarli bene sfiora il ridicolo. Io non sono Charlie ma condivido con i colleghi della rivista francese la stessa passione per l’informazione e lo stesso impeto per la libertà d’espressione. Non c’è bisogno di essere tutti Charlie per considerare disumano quanto accaduto l’11 gennaio in Francia; di essere tutti spagnoli per piangere le vittime dell’11 marzo 2004; di essere tutti americani per non dimenticare l’11 settembre 2001. C’è bisogno di difendere la libertà di pensiero, di espressione, di stampa, di religione, tutti i giorni, nella quotidianità, ciascuno di noi, per non alimentare l’intolleranza e gli estremismi. Bisogna avere il coraggio di difendere la Libertà sempre, a qualunque costo, senza compromessi, paradossalmente con lo stesso coraggio e la stessa convinzione di quelli che sono pronti al martirio pur di affermare le loro certezze. E per farlo non occorre farsi esplodere sulla piazza del mercato o imbracciare un kalashnikov. Anzi, questa è proprio una negazione della libertà. Per farlo davvero, occorre essere davvero liberi. Dagli inganni della mente, dall’ipocrisia e dalla schiavitù del denaro.

Elisa Giraud

39 anni di Treviso, giornalista.

[Immagini tratte da Google Immagini]