Ritrovare il senso del mistero e recuperare la categoria del sacro

Non molti anni fa Giorgio Gaber cantava che «l’uomo non ha più il gusto del mistero»1, individuando nello smarrimento del senso del mistero e del sacro una cifra precipua del nostro tempo.

Osservando accuratamente molte manifestazioni umane, del mondo occidentale in particolare, si rileva come esse siano caratterizzate da superficialità e banalità che si palesano in un conformismo omologante e in un consumismo spersonalizzante. Una vera e propria mutazione antropologica, per servirci di una risoluta e profetica definizione pasoliniana2. Esseri umani che perdono la propria essenza di persone, abdicando al pensiero autonomo, alla riflessione, all’incontro autentico con tutto ciò che è altro da sé, in particolare l’altro uomo, il rapporto con il mondo della vita e con tutto quanto questo incontro può generare nell’interiorità del singolo.

Una delle peculiarità umane che, da diverso tempo a questa parte, stanno venendo meno è certamente il senso del mistero. Quella dimensione che si lega a tutto quanto non è spiegabile razionalmente, a ciò che “sfugge” ad ogni comprensione, a quanto emerge dal senso del limite. La condizione umana è quella di colui che non s’accontenta della propria connotazione finita ma è predisposto ad avvertire un senso di spaesamento, tremendo e al contempo affascinante, di fronte all’esistenza e a ciò che la trascende, a ciò che le è totalmente altro.

L’essenza della soggettività umana è predisposta ad avvertire il senso del mistero, che scaturisce proprio dalla continua relazione con l’indecifrabile complessità del mondo della vita e che conduce a percepire la dimensione infinitamente eccedente del senso della totalità. Quel senso che pur sfuggendo continua ad attrarre l’interiorità dell’uomo, poiché, come spiega il teologo e filosofo Rudolf Otto nell’opera Il sacro (Das Heilige, 1917), l’uomo oltre alle categorie della razionalità possiede pure la categoria del sacro, il cui dato originale è il numinoso, il razionalmente indeducibile, l’incomprensibile, l’indicibile, quanto è sovrabbondante rispetto alle proprie capacità intellettive. L’essere umano avverte, attraverso la categoria del sacro, la dimensione ineffabile, il mistero dell’esistenza, il suo carattere esorbitante rispetto alle categorie della ragione, mute dinanzi al mistero della Vita, al senso del limite, al senso ultimo. In proposito, così si esprimeva nel proprio testamento spirituale il filosofo Norberto Bobbio: «come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo e le varie religioni interpretano in vari modi»3.

La categoria del sacro permette di assaporare il mistero dell’esistenza, nel suo carattere terribile e affascinante al contempo. Il mistero, ciò che evade la prigione del concetto, è alcunché di sconosciuto, non manifesto, totalmente altro. L’essere umano è attratto esteriormente e attraversato interiormente dal mistero inesprimibile, tutt’al più avvicinabile con la parola poetica o l’esperienza mistica. In questo senso, come non ricordare l’esempio edificante, gli scritti e l’esperienza mistica della giovane ebrea olandese Etty Hillesum4, testimone di come il senso del mistero innalza l’uomo interiormente oltre la propria finitezza, lo attrae verso ciò che è altro, che sfugge, che è in-finito, avvicinabile solo asintoticamente, ma verso il quale l’uomo non è comunque propenso a rinunciare, perché tale attrazione, tale fascinazione che fa vibrare e suonare le fragili corde del suo spirito, è connaturata alla sua essenza.

Da qui, le religioni: tentativi per eccellenza, più o meno mirabili, di dare risposta al sacro. Invero, il senso del mistero e la categoria del sacro che ad esso si addice, appartengono alla complessa profondità di ogni spirito umano, teso per essenza a percepire, attraverso l’esperienza della vita, l’indicibile. Il sacro precede e può dunque fondare ogni religione, che solo su di esso può edificarsi. Diversamente, in assenza del sacro, di questo imprescindibile dato originale, il tempio, ogni tempio, di qualsivoglia religione, rimane una scatola vuota, il cui obiettivo non può coerentemente dirsi quello di dare risposta al numinoso e di configurarsi dunque come orizzonte di senso. È così comprensibile l’asserzione di Rudolf Otto quando scrive: «Ciò di cui parliamo – il sacro – […] costituisce l’intima essenza di ogni religione, senza la quale la religione non sarebbe»5.

Il sacro si configura dunque come una categoria a priori, non oltre quelle della ragione, ma in un certo modo al loro fianco. L’essere umano possiede entrambi questi a-priori per stare al mondo, l’utilizzo di uno solo dei due ne stralcia la sua essenza, ne elimina la complessa e straordinaria struttura interiore e le possibilità esteriori. L’una sostiene l’altra. Così come è importante educare la facoltà di pensare e ragionare criticamente6, altresì l’a-priori del sacro necessita oggi, con rinnovata urgenza, di essere riscoperto. Ma per riemergere, la categoria del sacro ha bisogno di essere risvegliata alla coscienza del singolo, ricondotta al centro dell’esperienza soggettiva e questo si può fare solo se si recupera il senso del mistero. Quest’ultimo abbisogna del silenzio, della riflessione, del raccoglimento interiore, lontani dal rumore delirante della quotidianità ipermoderna. Un frastuono contrassegnato da parole vuote, superficiali, che bombardano la nostra vita in una bulimia inarrestabile d’informazione. Invero, è solo dal silenzio e dalla contemplazione consapevole del reale che può ri-emergere nell’uomo la capacità di trascendere l’immanenza omologante nella quale è immerso, verso un’apertura e una consapevolezza del mistero che avvolge la vita. Anche questo qualifica un’esistenza umana completa: senza il senso del mistero, del sacro, l’uomo perde una dimensione centrale dalla propria essenza, verso una tragica mutazione antropologica. Diversamente, recuperando questa dimensione è possibile sperare in un nuovo umanesimo, una visione del mondo che abbia l’uomo al centro della vita. Un uomo nuovo che, evitando di adagiarsi al ristretto orizzonte del già dato, riconosca di poter oltrepassare la propria datità in favore di un contatto nutriente con il mistero dell’esistenza e della sua sacralità, sola fucina di slanci relazionali, artistici, intellettuali e spirituali.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. G. Gaber, E pensare che c’era il pensiero, GIOM, 1994.
2. Cfr. P. P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009.
3. Vedi: http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/spettacoli_e_cultura/bobbio/volont/volont.html
4. Cfr., E. Hillesum, Diario, tr. it. Di C. Passanti , T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano, 20133.
5. R. Otto, Il sacro, tr. it di E. Bonaiuti, SE, Milano 2009, p. 21.
6. Su questi temi mi permetto di rimandare ad un mio precedente articolo sulla centralità dell’educazione al pensiero critico e autonomo: http://www.lachiavedisophia.com/blog/educhiamoci-a-pensare/

[Photo credits Lenka Sluneckova via Unsplash.com]

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Fede, filosofia e mistero: intervista a Vito Mancuso

In questo articolo proponiamo la seconda parte dell’intervista al filosofo e teologo Vito Mancuso, pubblicata all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #5 – Le dimensioni dell’abitare. La nostra chiacchierata con lui è stata così profonda ed interessante che non possiamo non condividere con voi la versione integrale dell’intervista. Buona lettura!

 

La Scolastica ha formato generazioni di teologi ad affidarsi in egual modo a ragione e fede nella loro ricerca, ma negli autori contemporanei si rileva la tendenza a privilegiare la prima e ad abbracciare più una “teosofia”. È possibile in un’era post-illuminista mantenere il paradigma scolastico, o è inevitabile che l’aspetto razionale fagociti quello fideistico?

Partirei con una considerazione di tipo storico alla luce di quello che mi chiedete in riferimento alla scolastica e alla sua promozione dell’armonia tra fede e ragione. Ora, certamente c’è un paradigma scolastico che consiste nell’armonia di fede e ragione: è il paradigma tomista, che in Alberto Magno prima e in Tommaso d’Aquino poi trova la propria consacrazione. Un’armonia tra l’altro non del tutto simmetrica, perché in questa prospettiva si considera la filosofia in funzione servile rispetto alla teologia, si pensi alla famosa espressione Philosophia ancilla theologiae. In ogni caso qui ci muoviamo all’interno di un paradigma di concordanza, di armonia, di fiducia reciproca.

La scolastica però ha conosciuto anche un’altra linea, direi opposta, la quale non crede nell’armonia fede-ragione ma al contrario tende a costruire la fede sulle macerie della ragione. Questa visione la ritroviamo nel filone francescano dove con Ockham ha trovato la maggiore espressione. Da qui nasce la fortissima opposizione alla filosofia da parte della tradizione classica del protestantesimo, e noi sappiamo che Lutero ebbe una formazione occamista soprattutto mediata da Gabriel Biel.

Questo per dire che quando parliamo della scolastica in realtà ci troviamo al cospetto di una grande dialettica: da un lato una fiducia della fede rispetto alla ragione, dall’altro una vera e propria guerra. Tra l’altro la scolastica rimanda a sua volta alla patristica, perché anche lì ritroviamo i due filoni: il primo, quello di Giustino, di Origene, del primo Agostino (penso al De vera religione o al De Magistro e in genere ai suoi primi dialoghi), che è estremamente ottimista nei confronti del lavoro della ragione e in generale dell’impresa umana. Cito al riguardo una frase di Giustino tratta dalla Prima apologia, paragrafo 21, e rivolta ai pagani: «Nel dire che il Verbo, primogenito di Dio, Gesù Cristo nostro Maestro, è nato senza rapporto umano, è stato crocifisso, è morto, è risorto ed è asceso al cielo, nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che, presso di voi, parlano dei figli di Zeus.» È una frase sconvolgente, perché sostiene che il centro del cristianesimo, quello che viene chiamato il kèrigma, l’Annuncio, coincide totalmente con quanto la visione greca, e quindi in generale la ricerca umana, aveva colto già da sé.

Sempre in epoca patristica però abbiamo Tertulliano che nell’Apologetico sostiene esattamente l’opposto: che cosa c’è in comune tra il Cristianesimo e la filosofia, tra Tebe e Gerusalemme? Domanda retorica la cui risposta è chiaramente nulla. Ecco le parole precise di Tertulliano: «In che cosa sono simili i filosofi cristiani discepoli della Grecia e quelli del cielo?», domanda retorica la cui risposta è ovviamente “nulla” (Apologeticum, 46-18).

Questo ci rimanda a sua volta alla Bibbia, perché anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento troviamo allo stesso tempo una tendenza di apertura e fiducia e una tendenza opposta di chiusura e opposizione. Lo stesso apostolo Paolo da un lato nella Lettera ai romani, primo capitolo, condanna i pagani perché sostiene che avrebbero potuto tranquillamente, ragionando sulla creazione, giungere all’esistenza di Dio, e quindi raggiungere la conoscenza della verità, affermando perciò la stessa cosa sostenuta da Giustino quando pone una grande continuità tra il centro del cristianesimo e la ragione umana. Ma nel primo e nel secondo capitolo della Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo afferma quanto sostenuto da Tertulliano col porre l’opposizione più ampia possibile tra sapienza umana e sapienza divina.

Quindi noi ci troviamo al cospetto di un nucleo incandescente che dal Nuovo Testamento raggiunge la Patristica e poi giunge nella Scolastica, genera le divisioni all’epoca di Pascal tra la scuola dei gesuiti e la scuola dei giansenisti, e arriva fino ai nostri giorni, perché ancora oggi c’è una Chiesa che ha un’ala più progressista e un’ala più conservatrice, si pensi alla divisione del Vaticano II tra quella che fu la maggioranza conciliare e quella che fu la minoranza. Si tratta insomma di una dialettica che attraversa da sempre il Cristianesimo.

Il Cristianesimo è abitato da fiducia e da sfiducia nei confronti della ragione e questo vale sia per il cattolicesimo sia per il protestantesimo. La sfiducia è originaria, connaturale a Lutero, il quale parlava della ragione umana come di una puttana e pensava che la filosofia fosse un’opera del demonio. Si tratta di una prospettiva che nel Novecento rivive in Karl Barth e in genere nella cosiddetta teologia dialettica. Ma il protestantesimo conosce anche il protestantesimo liberale, quello di F. Schleiermacher, A. von Harnack, E. Troeltsch, i quali al contrario hanno nei confronti del rapporto fede-ragione lo stesso ottimismo che l’analogia entis cattolica porta con sé. Questo è lo statuto storico, detta in maniera sintetica, del rapporto tra teologia e filosofia.

Per quanto mi riguarda, io penso che sia nella stessa parola teologia che si ritrovi il senso del giusto rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Il termine teologia dice infatti rapporto tra Theós e lògos, e non si deve mai dimenticare tra l’altro che questa connessione non è specificatamente cristiana perché colui che ha coniato il termine ‘teologia’ è stato Platone nel II libro della Repubblica, mentre il termine teologia entra nel cristianesimo in epoca patristica perché nel Nuovo Testamento non c’è. Il che significa che questa connessione tra theós e lògos è qualcosa di originario, è una tendenza della mente e direi anche del cuore umano, in base alla quale si pensa che l’assoluto, il theós, non sia qualcosa di estraneo al mondo e alla mente umana, ma al contrario qualcosa che ha a che fare con la logica del mondo e con la logica della mente umana, direi con il linguaggio umano. Non è un caso che il termine lògos rimandi al contempo sia alla ratio nel senso di ordinamento complessivo del cosmo (come per esempio nel Vangelo di Giovanni e prima ancora negli Stoici, dove logos ha un senso metafisico), sia al senso linguistico per cui lògos è parola, frase, discorso… Questo implica l’intuizione primordiale, ovvero la grande fiducia nel fatto che la logica che governa il mondo, il lògos che è archè, che è “in principio”, abbia strettamente a che fare anche con il linguaggio umano e quindi con tutto ciò che dal linguaggio scaturisce: l’etica, la creatività, l’espressività. Siamo cioè all’interno di un unico discorso: theós e lògos, questa è l’idea di fondo che rende possibile il discorso teologico.

Ne viene a mio avviso una conclusione stringente, ovvero che nella misura in cui la teologia è fedele a sé stessa non può che essere condotta sulla base del paradigma della concordanza tra fede e ragione, ovvero secondo l’idea di Giustino, di Origene, del primo Agostino, di Tommaso d’Aquino, del protestantesimo liberale, della maggioranza conciliare nel Vaticano II e di teologi cattolici come Teilhard de Chardin, Congar, Rahner, Küng, Panikkar.

 

Nella storia del pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni razionali’ dell’esistenza di Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo, Tommaso, Kierkegaard… alternando prove e argomentazioni a favore della sua esistenza o della sua inesistenza. Ritiene che oggi i numerosi tentativi del passato a dimostrazione dell’esistenza di Dio possano ancora reggersi? O forse – già con Kant – siamo giunti alla consapevolezza che la ragione di fronte alla vita – e aggiungerei anche nei confronti della fede – non è sufficiente a ‘chiudere’ il discorso?

C’è una frase di Bobbio nella lettera che consegnò alla stampa con l’incarico di pubblicarla all’indomani della sua morte, che dice: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in molti modi». A mio avviso questa è una delle più lucide esemplificazioni contemporanee del rapporto fede-ragione, perché Bobbio afferma che, come uomo di ragione, egli sa di essere immerso nel mistero.

Vede, noi normalmente pensiamo che sia la fede a parlare di mistero, mentre al contrario riteniamo che la ragione sia chiarificatrice, le assegniamo un lume che arriva e illumina ogni cosa. Ma Bobbio dimostra che non è così. È lo stesso risultato a cui giunse la grande speculazione di Kant, che pose la critica della ragion pura che si chiude con irrisolvibili antinomie: e che cos’è il mistero, se non il vedere le contraddizioni che costituiscono le esistenze stesse e le varie antinomie?

Vedere la contraddizione e riconoscerla come tale, significa cogliere due nomoi, due leggi entrambe legittime ma contrapposte l’una all’altra, e così generare l’anti-nomia. In Kant si ha l’antinomia della ragion pura e l’antinomia della ragion pratica. Da qui si origina un fondo oscuro, capiamo cioè che la ragione esercitata fino in fondo non ci consegna alla luminosità. Benché qualche positivista possa pensare il contrario, vi sono eccellenti ragionatori che chiudono il senso del loro ragionare ritrovandosi al cospetto di un irrisolvibile chiaroscuro, dove le luci sono sempre connesse alla tenebre. Ne viene il senso del mistero, termine che rimanda a mystérion in greco, il quale si rifà al verbo myō, che significa chiudere, detto di occhi e di bocca, così che il mistero è ciò che ti fa chiudere gli occhi e la bocca. E quando uno chiude gli occhi e la bocca, vuol dire che ha capito di essere alla presenza di qualcosa di più grande che non può dire, o pensare di racchiudere in una formula, e in un certo senso vi si affida.

Non a caso da mistero deriva anche mistica, il rimando alla dimensione eccedente della mente che si ritrova al cospetto di qualcosa di più grande e vi si affida. Confida, si fida, ha fiducia, eccoci qui, siamo arrivati alla fede. In questa prospettiva la fede non è qualcosa che si contrappone alla ragione, o la fede o la ragione, o si pensa o si crede, come cita una raccolta di scritti di Schopenhauer. In realtà è proprio perché si pensa fino in fondo che poi, ad un certo punto, una persona, posta di fronte alla scelta di quali debbano essere i criteri per orientarsi nella vita, capisce che deve fidarsi di un orientamento. La semplice ragione ti dà argomenti tanto per aprirti quanto per chiuderti, tanto per dire di sì alla vita quanto per dire di no, tanto per benedire quanto per maledire. La fede dunque nasce dal continuo rapporto con le domande della ragione. Senza questo rapporto la fede è un’ideologia come altre, e consegna a una delle tante appartenenze religiose che fanno parte del variegato cammino dell’umanità. Ma la fede vera è quella che, come diceva il cardinal Martini, sa affermare «dentro di me c’è il credente e il non credente», c’è l’uomo di ragione che vuole trovare ragioni e al contempo c’è l’uomo di fede che sa che si deve fidare, i due sono legati l’uno all’altro.

In questa prospettiva l’idea che qualcuno possa sostenere che la fede si basa totalmente sulla ragione, la quale arriva e giunge a dimostrare l’esistenza di Dio, è qualcosa che sfiora l’empietà dal punto di vista spirituale, perché chiunque abbia fatto esperienza della vita e del mistero religioso, intuisce che non c’è nessuna possibilità di capire, proprio nel senso etimologico del termine capio, capere, il cui participio passato è captum da cui deriva captivus cioè prigioniero, dunque capire in quanto imprigionamento. Io con la mente capisco una cosa, la capisco e la carpisco; oppure la comprendo, la prendo dentro di me, la faccio mia. Se questo avviene, non si ha la genuina esperienza religiosa, non a caso diceva Agostino: «Si comprehendis non est Deus», se comprendi non si tratta Dio, perché da Dio, da questa dimensione dell’Assoluto, dell’Essere, del Bene, da questa dimensione più grande da cui veniamo e a cui torniamo, a cui normalmente ci si riferisce dicendo divino, è chiaro che si può essere solamente capiti, compresi, nel senso di contenuti, di essere dentro.

Le prove dell’esistenza di Dio sono dunque a mio avviso qualcosa di assolutamente contrario all’esperienza del pensare e del sentire religioso. Se ne può parlare semmai come di argomenti, di tentativi di legittimare un oggetto che non sarà mai oggetto e che tuttavia devo in qualche modo oggettivare se voglio pensare, perché non posso pensare se non oggettivando. C’è infatti un paradosso costitutivo della teologia, dato dal fatto che la cosa che voglio oggettivare non sarà mai oggettivabile, non lo sarà perché mi contiene e quindi io non posso mai renderla obiectium, metterla di fronte a me, gettarla di fronte a me, e quindi vederla e così capirla. Di fronte all’assoluto, che è per definizione ciò che non ha relazione, ciò che è l’intero, l’Uno, è chiaro che mi contiene e io non posso oggettivarlo. Tuttavia se in qualche modo non oggettivo, non parlo. Quindi capisco come mai nella storia del pensiero siano nate le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, anche se è del tutto evidente, anche alla luce di quello che hanno prodotto, che non sono prove. Sono piuttosto argomenti per dire che quel discorso ha una sua legittimità da un punto di vista razionale, e da questo punto di vista possono avere una loro utilità.

 

Lavori come Homo Deus di Yuval Noah Harari prospettano un’umanità che, rifuggendo il trascendente, divinizza se stessa e vede in un neopositivismo rivisitato un nuovo Vangelo. È questa la nuova prospettiva della teologia?

Che cosa ci riserverà il futuro non lo so, si possono fare previsioni naturalmente ma penso che non lo sappia di preciso nessuno, neppure Harari. Leggere i libri del passato che hanno parlato di futuro e quindi giungono a parlare del nostro presente non è sempre un’esperienza di grande consonanza, concordanza, si vede quante cose si immaginano che poi non avvengono per nulla. Il destino della teologia è legato a quello della libertà, a quella capacità di cogliere il mistero di cui ho detto sopra. Nella misura in cui negli esseri umani continuerà questo fremito di fronte alla dimensione dell’inattingibile, di fronte alla libertà e al sentire la pochezza del linguaggio rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, fino a quando rimarrà questo scarto tra il di più della vita e la mente umana, –un di più che la mente umana che comunque percepisce, che capisce che non può ridurre, ma percepisce e sente– vi sarà spazio per la teologia. È chiaro se l’umanità attraverso microchip o altri meccanismi a me ignoti riuscirà a togliere e pacificare ogni tensione, arrivando a quella conciliazione che Hegel assegnava come compito alla filosofia e che oggi si assegna invece alla tecnica, per cui l’uomo da passione diventa qualcosa di soluto, di sciolto, di assolto, e sarà un essere addomesticato, è chiaro che non ci sarà spazio per la teologia, per la religione, per la trascendenza.

Nel mio libro Il principio passione (Garzanti, 2013) ho scritto che il mondo è un esperimento e come tale può anche fallire. Ritengo che se avverrà una chiusura di un’umanità su se stessa, una totale conciliazione di un’umanità che si compiace di sé e della propria intelligenza volta a soddisfare solo i propri bisogni, questo sarà un fallimento dell’esperienza umana. Evidente quindi che non vi sarà spazio per la teologia e l’uomo sarà dio all’uomo, ma non nel senso classico Homo homini deus, cioè l’uomo è qualcosa di divino, ma nel senso che l’uomo sarà l’Assoluto. La storia del Novecento però insegna: quando l’umanità ha voluto porre l’umanità stessa, l’umanità concreta con le sue ideologie, ad assoluto, il sangue non ha cessato di scorrere. Non lo so come finirà, ma se la nostra corsa finirà in questo neopositivismo tecnologico, vi sarà certo un fallimento della religione, e con essa finirà probabilmente la filosofia, di sicuro questa sarà la sorte per quel tipo di filosofia che prende sul serio il suo essere philos e il suo coltivare philein, cioè amare, perché non vi può essere spazio per l’amore laddove tutto è appagato. E forse finirà anche il nostro essere sapiens, saremo solamente faber, non più Homo sapiens ma Homo faber, o peggio Homo consumans, ammesso che si possa dire in latino.

Per leggere l’intera intervista sulla nostra rivista cartacea: qui

Giacomo Mininni

[Credit Giacomo Maestri]

Creazione ed eternità del mondo: le riflessioni di Tommaso d’Aquino

Il mondo è stato creato da Dio, oppure, come diceva Eraclito, il mondo «non lo fece nessuno degli dei né degli uomini» (fr. 30 B DK)? E inoltre: il mondo (abbia o non abbia avuto origine dall’atto creativo di un Dio) ha avuto un inizio nel tempo (o col tempo), oppure, sempre come riteneva l’antico filosofo greco, il mondo «è sempre stato» e sempre sarà? In altri termini: il mondo è una “fiamma” che ha incominciato a brillare, riempiendo di luce l’oscurità e il nulla che regnavano prima dell’inizio dei tempi, o è una “fiamma” che brilla da sempre, un «fuoco semprevivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne»? Sono domande filosofiche quant’altre mai. Nell’opuscolo intitolato L’eternità del mondo (De aeternitate mundi), probabilmente composto tra il 1270 e il 1271, Tommaso d’Aquino cerca per l’appunto di dar loro una risposta.

Tommaso inizia la trattazione scartando innanzitutto l’ipotesi che afferma che l’esistenza del mondo non dipende dall’atto creatore di un Dio. Per Tommaso, che il mondo possa essere “autosufficiente” ed esistere senza l’intervento di Dio, quindi senza essere da Lui creato e mantenuto nell’essere in ogni istante, è un «errore abominevole, non soltanto agli occhi della fede, ma anche per i filosofi». Tommaso è infatti convinto, insieme ai più grandi pensatori che lo hanno preceduto, che «tutto ciò che esiste […] non potrebbe esistere se non fosse causato da colui che possiede l’essere al massimo grado e nel modo più vero».

Dopo aver stabilito l’erroneità della tesi che afferma che il mondo ha incominciato a esistere (o esiste da sempre) da sé, Tommaso cerca di capire se sia o meno possibile che il nostro mondo sia “eterno” (= già da sempre esistente) e insieme frutto di un atto creatore. Ebbene, per Tommaso l’eternità del mondo e la dipendenza del mondo da Dio sono caratteristiche che non necessariamente si contraddicono tra loro: «qualcuno potrebbe […] ritenere che a esistere da sempre possa essere qualcosa che, tuttavia, è stato interamente causato da Dio in ogni fibra del suo essere», scrive infatti l’Aquinate.

«Il problema, quindi, sta tutto qui: nel vedere se l’esser creato da Dio secondo la totalità della sostanza e il non avere un inizio della propria durata siano concetti che si contraddicono a vicenda, oppure no».

Purtroppo non possiamo seguire in dettaglio i vari problemi filosofici che Tommaso affronta e risolve nel suo scritto; limitiamoci qui soltanto a richiamare la conclusione a cui Tommaso perviene, e cioè appunto che «non c’è nulla di contraddittorio nel dire che qualcosa è stato creato da Dio e tuttavia esiste da sempre».

Certo, alcuni potranno obiettare che è ben difficile capire come possa il mondo essere “eterno” e tuttavia dipendente, quanto alla propria esistenza, dall’atto creatore di Dio. Per comprendere come Dio possa aver creato liberamente e ab aeterno (“al di fuori del tempo”, “extratemporalmente”) un mondo diveniente privo di un inizio temporale, Tommaso riprende allora un’immagine già usata da Agostino ne La città di Dio per spiegare il pensiero dei filosofi platonici:

«Se un piede […] fosse sempre stato nella sabbia dall’eternità, sotto di esso vi sarebbe stata l’orma. Non si può mettere in dubbio che l’orma è stata prodotta da chi ha calpestato la sabbia; eppure, l’uno non sarebbe prima dell’altra, sebbene una sia stata prodotta dall’altro. Allo stesso modo, dicono, il mondo e gli dèi in esso creati sono sempre esistiti […]; ma ciò non toglie che sono stati prodotti».

Una volta che si sia ammesso che la creazione di un mondo eterno è effettivamente possibile, rimane un’ultima domanda a cui rispondere, e cioè: di fatto, quale mondo ha deciso di creare Dio? Il nostro mondo è effettivamente “eterno” o ha avuto un inizio? In altre parole: la possibilità di un mondo “eterno” si è realizzata per davvero, o a esser stata scelta da Dio è stata l’altra alternativa: quella di creare un mondo dotato di un inizio temporale?

Per capire fino in fondo quale sia la posizione del “dottore angelico” in merito a questo tema bisogna consultare il suo capolavoro, la Somma Teologica (Summa Theologiae). In essa leggiamo che il problema dell’eternità (o della non eternità) del mondo non può essere risolto filosoficamente, ma solo tramite una rivelazione divina: «gli articoli di fede non si possono dimostrare […]. Ora, che Dio sia il Creatore del mondo in maniera tale che questo abbia iniziato a esistere è un articolo di fede […]. Quindi l’inizio del mondo si ha soltanto per rivelazione, e non può essere provato dimostrativamente». Più avanti, Tommaso ribadisce: «che il mondo abbia avuto inizio è oggetto di fede, non di dimostrazione o di scienza».

Per Tommaso, la ragione umana, lasciata a se stessa, può cioè sì dimostrare che il mondo è creato da Dio, ma non può procedere oltre nella sua indagine, perché non ha né le capacità né gli elementi sufficienti per capire se il mondo che Dio ha creato è un mondo eterno, e dunque da sempre esistente, o un mondo che ha avuto un inizio e che pertanto non ha alle spalle un passato temporale infinito. La ragione umana può limitarsi a prospettare queste due ipotesi e accertare la non contraddittorietà di entrambe, ma non può sapere né dimostrare incontrovertibilmente quale di esse sia quella corretta. La ragione offre vari scenari possibili, e la fede supplisce alle carenze della ragione suggerendo quale di essi coincida effettivamente con la verità.

La riflessione filosofica si limita a dire che Dio, in linea teorica, avrebbe anche potuto creare un mondo eterno, e il lume della fede integra questo dato di ragione dicendo che, pur avendo avuto questa possibilità, Dio di fatto non ha voluto creare un mondo “eterno”, in quanto ha preferito porre in essere un mondo dotato di un inizio temporale. Appurato ciò, la filosofia non può fare altri passi innanzi; non può cioè riuscire a ricostruire il motivo preciso per cui Dio ha fatto questa scelta: la volontà divina rimane infatti per Tommaso un mistero imperscrutabile, alle cui profondità l’uomo non può avere accesso, a meno che Dio non glielo conceda.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA
Tommaso d’Aquino, L’unità dell’intelletto – L’eternità del mondo, a cura di D. Didero, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2012
Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2012

[L’immagine di apertura è tratta da “Google immagini”]

 

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La follia come origine e destino della ragione

Quale relazione esiste tra follia e ragione? A prima vista sembrerebbero due concetti opposti, immaginando la follia come uno stato in cui la ragione è andata perduta. In realtà c’è anche dell’altro.
Proprio questo “altro” hanno voluto indagare i relatori della serata Follia e ragione, organizzata dal festival Pensare il presente di Treviso in collaborazione con TRA – Treviso Ricerca Arte, mettendo in campo non solo la psichiatria (impersonata dal professor Gerardo Favaretto) ma anche la filosofia (rappresentata dal presidente della SFI di Treviso Damiano Cavallin), la teologia (a cui ha dato voce il professor Francesco Paparella) e l’arte (illustrata dalla performance de I didascalici e dall’artista Cristian Fogarolli).

I legami tra le due sono dunque vari e molteplici, poiché varie sono le forme in cui si esprimono l’una e l’altra. Origine e destinazione, arte e scienza, luce e tenebra – opposte e complementari. L’eccesso della ragione sfocia spesso nella follia – pensiamo anche solo allo stesso Nietzsche – poiché un eccessivo controllo è esso stesso una forma di squilibrio. Il dubitare dell’esistente introdotto da Cartesio e sostenuto dalla dottrina di Schopenhauer, sino al delirio paranoico che troviamo splendidamente rappresentato nel film The Truman Show del 1998, sono uno dei sensi di lettura di questo binomio: la follia come destino della ragione.

Vi è anche un’altra lettura, ovvero quella attuata per esempio dagli antichi greci, che vede associare allo spirito dionisiaco la produzione artistica, dunque alla dimensione più irrazionale dell’uomo: il gesto creativo quindi sfuggirebbe dalle briglie della ragione. Ma siamo proprio sicuri che il gesto artistico sia privo di studio e calcolo? Cristian Fogarolli, giovane artista trentino, dopo un lungo studio del materiale d’archivio di alcune ex istituzioni manicomiali italiane ha selezionato una serie di fotografie che rappresentano uomini e donne in esse ricoverati. Non è possibile indovinare che tipo di patologia essi avessero, né se si trattasse di persone realmente affette da psicopatologie oggi riconosciute. Non esiste spesso nella fotografia (come nella realtà) un confine netto ed evidente tra i cosiddetti “sani” ed i cosiddetti “malati”, poiché la maggior parte dei tratti che ci appartengono continuano ad accomunarci.

Sono in effetti la manifestazioni fenomenologiche e la loro ripetitività a consentire la diagnosi psichiatrica, mentre non esisterebbe un criterio strettamente biologico nel loro verificarsi. Lo psichiatra Gerardo Favaretto mette dunque in dubbio, come provocazione, l’esistenza stessa di una patologia psichiatrica, che è dimostrabile solo dalla realtà del dolore. Un dolore che, dagli anni Cinquanta, si è cominciato a curare ed arginare con discreto successo anche tramite la creatività e l’arte: una follia che cura una follia.

Il dolore però resta: non è sempre facile da cogliere e, proprio per assenza di verità biologiche, deve essere colto tramite l’empatia, intesa come la capacità di creare un’assenza all’interno del nostro sentire per poter percepire l’altro – uno spazio aperto nella nostra razionalità. La ragione avrebbe infatti anche dei limiti e la religione ne costituisce un esempio lampante: come ci spiega il professor Francesco Paparella, la ragione ci conduce solo alle soglie del mistero (quello divino), mentre è l’abbandono che ci porta con naturalezza verso una conoscenza nuova, affascinante, “divina”. E non sempre facile da cogliere, ma in definitiva impossibile da ignorare.

Ma infine vado errando fra luce e tenebra, senza sapere se è il crepuscolo o l’alba. Alzerò solo la mano di cenere a fingere di bere una tazza di vino, e dimenticato il tempo me ne andrò via da sola.
Ahimé, se è il crepuscolo la notte mi sommergerà; oppure sarò cancellata dal giorno, se adesso è l’alba.
Amico, è tempo.
Errerò nel buio verso il nulla.
[…]
Andarmene via da sola, senza te ma anche senza altre ombre nel buio. Da sola affonderò nel buio, quel mondo sarà interamente mio1.

Giorgia Favero

Articolo scritto in occasione dell’incontro Follia e ragione svoltosi venerdì 17 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

NOTE:
1. Lu Xun, Il commiato dell’ombra, in Erbe selvatiche, 1927

[Immagine opera di Christian Fogarolli]

L’ingresso dei filosofi nel campo della bioetica

[…]Il processo di legalizzazione dell’aborto, realizzatosi in gran parte dei paesi occidentali negli anni ’70, […] ha contribuito in modo decisivo alla trasformazione della bioetica da movimento, inteso come corrente caratterizzata da una tendenza culturale e ideologica unitaria, a un campo di ricerca all’interno del quale si possono confrontare tesi e posizioni del tutto diverse.

[…]La discussione sull’aborto ha rappresentato il settore privilegiato attraverso il quale i filosofi di professione sono entrati nel campo della bioetica, sostituendo progressivamente i teologi.

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