Quando la memoria spezza l’Io: tra Aristotele ed Ernaux

Aristotele, nel De anima, suddivide il processo conoscitivo in tre stadi: sensibile, immaginativo e intellettivo. Mi voglio soffermare sul secondo stadio, l’immaginazione (o phantasia), in particolare sul concetto di phantasmata. Possiamo tradurre questo evocativo termine con la parola “immagine” – intesa come una sorta di fotografia mentale che riproduce all’interno del nostro cervello, grazie alla mediazione degli organi sensoriali, oggetti e soggetti esterni a noi. Tale sembianza viene poi elaborata dall’intelletto, completando così la procedura conoscitiva.

Nel romanzo Memoria di ragazza (L’orma editore, 2017) la scrittrice francese Annie Ernaux ci fornisce un phantasmata di se stessa nel passato, “la ragazza del ‘58”, così come si (e la) chiama lei. La Ernaux prende le distanze, si stacca dalla 18enne che è stata e questo suo alter ego passato aleggia – proprio come un fantasma – tra le pagine di quest’opera autobiografica. Quando non si chiamava ancora Ernaux ma Duchesne (il suo cognome da ragazza), alla viglia della maggiore età la scrittrice trascorse parte dell’estate presso una colonia estiva in Normandia lavorando come educatrice.
Per la prima volta si ritrovò lontana dalla sua rassicurante casa, dalla protettiva “morsa” dei suoi genitori – e si diede alla pazza gioia. Scoprì il sesso, un oscuro arcano, una pratica confusa che ebbe su di lei, ragazzina inesperta e ingenua, un impatto doloroso, totalizzante, umiliante. Annie s’invaghì di H., un educatore più grande, ritrovandosi in un batter d’occhio ad essere completamente soggiogata da lui.

«Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri […]. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose».

Questo è l’incipit del libro, che descrive alla perfezione l’esperienza sentimental-sessuale che sconvolse la vita della giovane Annie.
Tuttavia, non è quest’esperienza a dominare nel romanzo.
Ciò che domina è il tentativo, compiuto dalla scrittrice, di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto». Il tempo scorre e guardandoci indietro, alla ricerca di noi stessi, troviamo solo dei fantasmi, lontani dal nostro io presente nello spazio e nel tempo.
Per compiere quest’impresa la Ernaux deve dissociarsi da se stessa, decostruirsi: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Osservando una sua vecchia foto dell’epoca si getta a capofitto nei ricordi. Annaspa, ma questo è l’unico modo per tentare di carpire chi è stata, per raccontare e nel contempo rimembrare. È così che si accorge che il tempo, scorrendo inesorabilmente, sedimenta senza sosta strati e strati di ricordi di esperienze vissute, andando a modificare il nostro io. E «scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni».

Togliendo quegli strati si verifica nella Ernaux una scissione dell’io: da un lato c’è l’io presente, consapevole di tutto ciò che ha vissuto; dall’altro lato un io scevro di ricordi – quelli dal 1958 in avanti. Quest’ultimo io è la “ragazza del ‘58” che la Ernaux cerca di riesumare; ma questa operazione di recupero è ardua, stancante, alienante. Per quanto la scrittrice si sforzi, ella si rende conto, nel corso della stesura del romanzo, che non potrà mai tornare ad essere quella che è stata. Come fare, allora, a raccontare un fantasma? Eppure quel fantasma «è reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S», ossia della colonia.
Leggendo Memoria di ragazza, ci accorgiamo di quanto sia perturbante rendersi conto che non siamo più chi siamo stati. Un abisso sedimentato di memorie separa la nostra esistenza passata da quella presente.

Qual è, dunque, il legame fra questi due poli che siamo e al contempo non siamo? Il legame è rappresentato solamente dal nome e dal cognome o dai nostri connotati fisici? E cos’è davvero l’io e come possiamo identificarlo e riferirci a esso, se esso continuamente, ad ogni secondo in cui il tempo avanza, si spezza diramandosi in diverse direzioni?
Chi studia e bazzica la filosofia, però, lo sa bene: infinite sono le domande, ma sconosciute – spesso – restano le risposte. Si procede per tentativi, ma potrà essere frustrante. Ma ci può anche capitare di stupirci rendendoci conto che anche noi stessi siamo i phantasmata di cui parla Aristotele. Io sono, e proprio essendo mi lascio dietro delle incorporee rappresentazioni di me stessa che potrò osservare come si osservano delle vecchie fotografie, con la distanza a mediare fra ciò che ero e ciò che sono. Esistere significa proprio stare in bilico su questa spaccatura, accettare il fatto che siamo soggetti “spezzati” e che il tempo ci oggettivizza, continuamente. Del resto, se la realtà è nel qui ed ora, va da sé che non è possibile afferrare compiutamente la memoria di ciò che eravamo.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

la chiave di sophia 2022

Lettera ad una persona in crisi con se stessa (e 5 consigli per affrontarla)

Ti scrivo per condividere qualcosa che non trovi negli articoletti o nei meme online, né in un video su Facebook o YouTube. Perché solitamente le cose dette online sono “solo” il risultato del successo di chi le dice. Sono la parte bella, motivante, quella che ti carica e ti fa sembrare tutto facile. Le parole di chi è già arrivato in cima, e dall’alto della scalata si mette a pontificare su cosa fare quando si è a terra o a metà percorso.
Io ti scrivo perché sono ancora in cammino. Sono praticamente al tuo fianco. Rispetto a qualcuno sarò più avanti, rispetto ad altri sono più indietro.

Ti scrivo perché a un certo punto ci si sente catapultati nel mondo, quello “vero”. Non quello in cui avevamo le spalle coperte dalla famiglia, dagli amici, dalle proprie certezze intramontabili. A un certo punto invece si sente di essere soli e di doversela cavare in qualche modo. Ci si sente in ansia perché si vuol fare la scelta giusta, ma in fondo sappiamo che la scelta giusta non esiste. Quello che si viveva prima era un po’ come la caverna di Platone: guardavamo il mondo esterno soltanto dalle ombre della vita proiettate all’interno.

Ma adesso sei uscito e di certo ti sentirai accecato, spossato, insicuro. Lo sono anch’io, non sei solo. Ti tremeranno la voce e le gambe di fronte ai datori di lavoro, ai professori universitari, alle nuove persone che conoscerai. Ti sentirai impreparato su tutto e ti chiederai perché nessuno ti ha mai detto che fuori era così.

Ma rimani affamato, è la fame a farti fare la differenza, a farti fare un passo oltre questo imbarazzo. Non le storie che racconti in un curriculum, non i titoli di studio che puoi accumulare a suon di bei voti o di risultati risicati. E questo era il primo consiglio.
Se mi chiedi perché ti do dei consigli, ti rispondo che lo faccio per darli anche a me stesso. Perché sto vedendo in questi anni cosa funziona, cosa mi fa andare avanti e cosa fa ottenere risultati a quelli che sono in viaggio come noi.
E ora sotto con il secondo: raccogli tutte le esperienze della tua vita, le tue passioni, il tempo che hai passato a giocare e scherzare, a scarabocchiare sui quaderni mentre un professore spiegava o quello che hai fatto passare in un luogo di lavoro che non faceva per te. Raccogli tutti i pensieri che hai fatto, le tappe per cui sei passato, anche quelle forzate, quelle inutili, quelle fatte per cause di forza maggiore. Lì troverai la diversità rispetto agli altri. La tua storia rimane unica. Punta sulla creazione di una personalità complessa, sfaccettata, multiforme.

E quindi per farlo (terzo punto) hai bisogno di rimanere attivo su più fronti. Fa’ più cose possibili, finché ne hai il tempo, la forza. Così avrai più frecce al tuo arco tra qualche tempo, avrai più idee e contaminazioni da ambiti diversi. Se invece attingi da un solo pozzo, l’acqua si sporca, con tutti quelli che si vogliono dissetare assieme a te. Varia, continua a variare i tuoi input.

E quando dovrai raccogliere i frutti del tuo percorso, impara a raccontarlo. Quarto punto. Non basta averlo fatto, non è sufficiente averlo dentro di sé e sentirsi pienamente consapevoli. Occorre saperlo trasmettere agli altri, destare curiosità e interesse nell’interlocutore. Bisogna saper far vedere all’altro quello che abbiamo imparato e fargli capire perché siamo gli unici ad averlo fatto, ad essere diventati così.

Non sarà tutto fluido, non basterà arrivare a questi risultati per ottenere qualcosa di soddisfacente e piacevole. Nel frattempo dovrai imparare a ingoiare rospi, a subire ingiustizie, a non mostrarti mai stanco o deluso. Sfogati solo in intimità, quando l’occhio del grande fratello e di chi ti giudica non ti sta fissando. Ricarica le tue energie con gli amici e le persone di valore che non ti valutano solo per quello che mostri, ma che ti accolgono anche per la fatica e gli sbagli che stai facendo e che continuerai a fare. Circondati di un piccolo esercito di sostenitori. Era il quinto e ultimo punto.

Adesso alzati, lo so che ti sei accasciato fuori dalla caverna e ci vorresti rientrare. Invece puoi soltanto andare avanti, uscire a procacciarti il cibo che preferisci e a realizzare il tuo Valore Umano.

Alziamoci assieme, sono qui a fianco a te, d’altronde siamo entrambi in cammino.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Perché fermarsi ad osservare il passato piuttosto che correre sempre avanti

Per dare un volto alla sua critica al progresso, Walter Benjamin sceglie Angelus Novus, un quadro di Paul Klee, in cui «è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo»1. Secondo il filosofo tedesco ciò che l’angelo sta fissando con occhi colmi di pietà è il passato, da cui è costretto ad allontanarsi da una violenta bufera che lo sospinge in avanti, verso il futuro: «ciò che chiamiamo il progresso è questa bufera»2.

angelus-novus-paul-klee_la-chiave-di-sophiaLa critica di Benjamin si muove su un piano storico: egli attacca il mito occidentale del progresso perché ci illude che la felicità sia sempre in avanti, alla fine della storia, e così ci convince a rimandare all’infinito la realizzazione dei nostri desideri. E questa bufera, oltre a strapparci dal presente, ci impedisce anche di osservare il passato. Se ci soffermassimo a guardarlo potremmo vedere che esso è pieno di detriti: sono gli scarti della storia, sacrificati sull’altare del mito del progresso; sono storie che ci parlano di felicità non realizzate, utopie di un mondo diverso che sono rimaste inascoltate. Interpretare la storia come una linea retta che procede inesorabile verso un punto d’arrivo finale ci porta a dimenticare ciò che è successo, il dolore che è stato causato, le idee che sono state abbandonate.

Le immagini di Benjamin si hanno solo un significato storico, ma si possono facilmente declinare anche sulla situazione individuale. Perché in fondo tutti noi siamo simili all’angelo di Paul Klee. Noi figli dell’Occidente ci siamo abituati fin da bambini a interpretare la vita come una corsa in avanti: la scuola ci deve preparare a studiare e ad essere performanti all’università, i corsi di lingua ci devono dare un’arma in più da usare per trovare un lavoro, lo stage deve essere un trampolino di lancio verso il posto fisso, il lavoro stesso deve avere una porta aperta verso una promozione… Una corsa che, in un’epoca in cui il futuro è sempre più povero di sicurezza, diventa ancora più frustrante.

Persi in questa forsennata corsa in avanti, quando ci guardiamo alle spalle anche noi vediamo gli inevitabili scarti della nostra vita: gli attimi che non abbiamo vissuto fino in fondo, le scelte che abbiamo sbagliato o che più semplicemente potevamo fare diversamente, le persone che non abbiamo apprezzato a sufficienza. Se ci fermassimo ad analizzare le nostre scelte passate forse potremmo capire meglio noi stessi, cogliere più a fondo i nostri desideri per provare a realizzarli. Ma la corsa in avanti non si può fermare. E forse guardarci alle spalle ci fa anche paura perché temiamo di realizzare che abbiamo sbagliato tutto, che a forza di correre sempre più veloce non abbiamo capito di aver sbagliato strada.  

Qual è dunque la soluzione? Dobbiamo abbandonarci alla bufera del progresso e sperare che essa ci trasporti in un qualche luogo felice? Benjamin fornisce la sua soluzione, o quantomeno la sua riflessione, attraverso un’altra immagine potete. Egli racconta che durante la Rivoluzione francese «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»3. Sparare agli orologi per fermare il continuum temporale, infrangere quella linea che procede solo in avanti per poter finalmente tornare indietro, passeggiare tra i detriti della (nostra) storia per guardarli da vicino, perché in fondo la «felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi»4.

 

Lorenzo Gineprini

 

NOTE:
1. W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 35
Idem
Ivi, p. 49
Ivi, p. 8

 

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Combinare etica della cura e poesia: intervista al chirurgo Vincenzo Caronia

A volte abbiamo l’impressione che i medici, in particolare i chirurghi, siano come dei meccanici: senza farsi travolgere dalla tragedia umana della malattia e del dolore, loro valutano, aprono, chiudono. Dichiarano decessi. Hanno studiato e lavorato per anni, acquisendo livelli di conoscenza per noi altri apparentemente inarrivabili, e quindi ci affidiamo. Ci affidiamo e a volte non accettiamo che esista un loro lato umano, sensibile e fallace.

Leggere i componimenti poetici scritti da Vincenzo Caronia, classe 1959, chirurgo operante presso l’ospedale di Oderzo, ti scalda il cuore. Ti fa rivalutare tutta questa questione dell’infallibilità e del freddo temperamento scientifico dei medici, e di questo probabilmente abbiamo un gran bisogno. Abbiamo bisogno di sapere che i medici possono essere, come Caronia, appassionati di letteratura e di cinema, di viaggi e di poesia: un fatto da non trascurare, perché è proprio da questi interessi che si può sviluppare quel pensiero etico che è ormai imprescindibile dalla medicina. Ecco perché in questa intervista parliamo anche di corpo, di dispositivi medici e del valore fondante della fiducia. Ed in parallelo però parliamo anche di poesia, perché la sua raccolta di haiku (Haiku per un anno, 2012), in particolare, è un piacere da leggere. L’haiku è un componimento giapponese di tre versi capace di suscitare, con poche parole, delle forti suggestioni; è particolarmente piacevole lasciarsi abbandonare alle delicate note ed immagini da esso evocate, anche nella lingua italiana.

A tutto questo è possibile, evidentemente, combinare  la medicina. Perché anche la medicina, dal lato del medico e dal lato del paziente, è fatta di uomini. Scopriamo allora insieme che cosa ci racconta Vincenzo Caronia di questo mondo.

 

La filosofia ha piano piano segnato la strada per l’affermazione della disciplina bioetica e dell’etica applicata. In che modo, secondo il suo parere di chirurgo, la pratica filosofica può essere attualizzata in ospedale?

Credo che l’etica possa variare da persona a persona. Da un punto di vista medico, se una persona sceglie di fare il medico, lo fa perché unisce la passione per le materie scientifiche con il rapporto umano che si crea con le altre persone. Il discorso etico è fondamentale, ovvero il fatto di avere presente che si lavora con, su e per altre persone. Persone con una storia, dei sentimenti. Ricordo la prima volta che assistetti ad un’autopsia. In particolare, si stava analizzando il cervello di un defunto. Ricordo chiaramente di aver pensato che qualche giorno prima quello che stavamo analizzando era un cervello vivo di ricordi, di passioni, di vizi. Anche questo mi faceva pensare. Anche se con il tempo la pratica medica mi ha insegnato a curare e sistemare ciò che sta biologicamente dentro quel cervello, non dimentico mai la storia di cui può essere intrisa. Si tratta sempre di una persona.

Quale ritiene sia il rapporto tra mente e corpo? Una tende forse a prevalere sull’altra?

Ritengo che non esista una separazione netta in termini cartesiani tra mente e corpo. La psicopatologia ha una sua componente fisica, ma ha anche una sua componente psichica, legata alla mente. Nelle patologie psichiatriche la componente della mente è molto più importante rispetto a quella fisica; in un cancro al colon, è l’esatto contrario. Tuttavia, non c’è una completa lontananza tra le due. Basti pensare anche agli anziani, al loro lasciarsi andare nel decorso di una malattia. Il volere andare avanti malgrado una malattia non è un imperativo, c’è chi ce la fa e trova al forza, e chi invece si tira indietro. Il contatto mente e corpo quindi c’è ed esiste: l’una influenza l’altra.

Oramai in medicina si è affermato un sistema basato sul valore della centralità del paziente. In che modo, secondo lei questo sistema, fondato e finalizzato sul  patient-centered care, può entrare in dialogo con la complessità e l’artificialità della evidence-based medicine, ovvero con il progresso tecnico scientifico dell’ingegneria medica? In altre parole, come la sfera oggettiva e quantificabile dell’approccio clinico coopera con la sfera più prettamente “umana” della pratica di cura? 

Sono cose che non si allontanano mai l’una dall’altra. Oggi si lavora con internet e il pc per tante ragioni. È su questo che ci si deve basare: su realtà comprovate dai fatti.

Il paziente però è al centro dell’attività sanitaria. Io devo cercare di dargli la cura al meglio delle mie possibilità e in questo mi baso sulla evidence based-medicine. Le due sono correlate. L’una interseca l’altra.

Possiamo affermare che nel corso degli ultimi decenni la medicina abbia fatto dei passi da gigante nel campo degli interventi a cuore aperto, in particolare anche parlando di impianti di dispositivi ventricolari, in grado di permettere la sopravvivenza dei pazienti. Un paese come l’Italia ha la fortuna di beneficiare di alcuni centri VAD molto forti. Cosa pensa di questa nuova svolta del progresso scientifico in ambito ospedaliero? E, a tale proposito, ha qualche osservazione da proporre circa il rapporto tra durata biologica della vita, quantificabile in anni di sopravvivenza in seguito ad un impianto, e qualità della vita, talvolta segnata da sacrifici, sofferenza ed effetti collaterali?

Oggettivamente abbiamo visto negli ultimi quarant’anni un veloce incremento dell’aspettativa di vita delle persone. Questo grazie all’ evoluzione delle conoscenze scientifiche acquisite a livello mondiale, che comprende anche lo sviluppo della bioingegneria, quindi di dispositivi tecnologici biomedici.

Questi dispositivi, per chi ha una patologia cardiaca, hanno aiutato la sopravvivenza ma anche il miglioramento della clinica; inoltre, hanno permesso di portare il paziente ad un eventuale trapianto di cuore oppure ad un impianto di protesi sempre più tecnologicamente avanzate, per migliorare all’outcome del paziente. La tecnologia è diventata necessaria per sostituire la parte malata con qualcosa di meccanico che però possa rendere le stesse funzioni dell’organo ora malato. Tutto però è gestito e controllato dal cervello, quindi dall’uomo. Di conseguenza, ciò conferma quello che abbiamo detto precedentemente circa il rapporto tra mente e corpo, in cui l’una influenza l’altra. Ormai la tecnologia ci ha permesso di sostituire parti del nostro corpo in modo tale da poter continuare a vivere allo stesso modo. Certo, ciò non significa che possiamo giustificare una società in cui si possano cambiare i “pezzi” del corpo umano come nulla fosse, per quanto necessario: una visione “etica” del problema rimane fondamentale.

Sicuramente, durante la pratica medica, è sempre opportuno porre attenzione sulla relazione medico-paziente, la quale non può non essere fondata nella fiducia. Che significato darebbe a questo concetto? Si è mai trovato di fronte a casi in cui la fiducia trovava degli ostacoli difficili da superare?

Certo, la fiducia è un valore fondamentale. Se un paziente viene da me è perché ha fiducia del mio operato. È importante però considerare il fatto che siamo tutti uomini, perciò siamo tutti fallaci. Possiamo sbagliare. Così come ci sono situazioni che possono creare dei problemi indipendentemente dalla bravura del medico e dalla disponibilità del paziente, le così dette complicanze. Queste non sono errori del medico, ma avvenimenti che possono presentarsi ed essere comuni in tutta l’attività medica. È necessario quindi non confondere la complicanza con un errore: cosa questa che potrebbe essere intesa come un “tradimento” alla fiducia.

Vorrei infine ricordare e rimarcare la differenza tra “cura” e “guarigione”. Un medico può curare una patologia senza riuscire a guarire il paziente. Confondere le due cose talvolta può minare il rapporto di fiducia instauratosi tra medico e paziente. Un esempio possono essere le patologie infiammatorie dell’intestino, malattie croniche a lenta evoluzione che solitamente interessano il paziente per molti anni. Ci sono dei farmaci recenti che migliorano moltissimo la qualità di vita. Però la malattia c’è, non è guarita. Può migliorare, presentare periodi di remissione, ma non risolversi. Cento anni fa erano pochissime le malattie che si riuscivano guarire. Oggi la scienza permette di guarire da più patologie.

Spesso si sente lo stereotipo del medico votato alla scienza ed alla medicina e che spesso trascura le materie umanistiche. Lei invece ha pubblicato alcuni libri di poesie, dimostrando quindi di saper fuoriuscire una sensibilità che è tipica umana. Come si è avvicinato alla poesia? E come, in particolare, ha scelto di cimentarsi con gli haiku

Il primo approccio con gli haiku fu quando ero bambino. Mio padre aveva dei libri sulle grande religioni e sfogliandoli, nei capitoli dedicati alle dottrine orientali, c’erano degli haiku. Li lessi e ricordo che ne rimasi colpito. Poi iniziai a scrivere delle poesie, e ne lessi anche molte. Piano piano crebbe anche la passione per l’Oriente. Ora, la poesia è qualcosa che viene e va, un po’ come l’amore: ci fu quindi questo periodo in cui scrissi molto e altri in cui molto poco, o nulla. Nel 2000 iniziai a scrivere haiku un tipo di poesia che non avevo scritto prima, e pare con buoni risultati, almeno stando a quanto mi viene detto.

haiku-per-un-anno_caronia_intervista_la-chiave-di-sophia-01Crede che gli haiku, anche nella sua forma e temi tradizionali, possa rappresentare un messaggio dell’uomo all’uomo circa il rapporto che esiste o dovrebbe esistere tra esso e la natura?

Sono convinto che l’haiku tenti di ristabilire un contatto con la natura, un contatto che ciascuno di noi può sentire, può vivere. E ci spingono così a riflettere.

Anche per le altre tipologie di poesia che ho scritto, credo che si tratti sempre di un riflesso di ciò che sentiamo, che proviamo, e che cerchiamo di rendere in forma poetica. L’haiku è la stessa cosa ma presenta delle caratteristiche precise. Intanto è estremamente semplice, quasi scarno; la cosa bella è che questa loro semplicità crea un ponte diretto con la natura, o con qualsiasi sia l’ oggetto della poesia stessa, oltre che per il poeta anche per gli altri, c’è spazio per trovare qualcosa anche per il lettore, è diretto. Cosa che, forse, nella poesia tradizionale, si trova in forma minore.

Ciò che mi piace è questo: il significato, il senso dell’ haiku è un ponte verso la persona che lo legge. E anche il fatto che non ci sia un titolo è indicativo dell’ apertura che l’ haiku propone.

Ha mai combinato la scrittura o la lettura della poesia con la sua attività in ospedale? Ritiene che possa portare qualche tipo di beneficio? 

Secondo me c’è un modo di coniugare questi due mondi. Parliamo sempre di uomini. Lavorando in ospedale, è necessario estraniarsi dalla situazione, dal dolore delle persone che devono essere curate. Ciò al fine di rendere la pratica di cura più efficace. È necessario comunque creare dei momenti di distacco in cui si parla anche di altro. Ed è lì che al rapporto interpersonale, tra medico e paziente, ma anche tra operatori sanitari stessi così come tra paziente e paziente si lega tante volte il concetto di fiducia. Si può avere un approccio molto umano nel corso di questi momenti.

La scarnificazione del superfluo, la riduzione dell’immagine all’essenza, la semplificazione del pensiero e raziocinio umano per adattarsi al flusso morbido e delicato della natura: l’haiku in particolare ma spesso anche la poesia più in generale sembra porsi agli antitesi della profonda ricerca di significato che sottende alla filosofia. Lei ritiene che esse possano avere comunque qualcosa che le accomuni?

Credo che la filosofia cerchi di dare spiegazione a quella che è la realtà. Alla fine si va sempre a definire un concetto finale. La filosofia si pone il problema del “Che cos’è?”. Nell’haiku non c’è questa ricerca, è immediato. Nella forma è sintetico, non è un trattato.

C’è chi concentra al massimo per dire il tutto. L’haiku, nella sua forma breve, così come altre forme di scrittura, non è altro che il rappresentare un attimo che si ha vissuto; si esprime un’impressione immediata. Probabilmente è questo il concetto filosofico dell’haiku: esprimere e dare senso a quella sensazione, in quel determinato momento.

 

La Redazione

 

 

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Tre riflessioni sul tempo in un viaggio aereo

Il tempo scorre. Che banalità, direte voi. Ma è proprio da questo verbo, scorrere, che inizia una prima considerazione, legata al movimento e in senso più ampio al viaggio. Scorrere deriva dal latino excŭrrĕre – correre fuori, correre via. Il tempo dunque corre via e non possiamo fermarlo, come il flusso dell’acqua. Già nel V secolo a.C. Eraclito scriveva ne Sulla natura «panta rhei os potamòs», sottolineando anche come non si possa discendere due volte nel medesimo fiume.

Il viaggio ci fa scorrere da un punto A a un punto B, e il tempo soggettivo – a differenza di quello oggettivo – in mezzo non è mai lo stesso, tanto meno se parliamo di uno spostamento aereo. Qualsiasi sia la meta finale, entrare in cabina ci conduce in una vera e propria capsula del tempo, dove lo spazio è il nostro alveo e il tempo è il fluido che ci muove. Ed è quando le ruote del carrello si staccano dalla pista inizia un viaggio nel viaggio.

 

  1. Tra passato e futuro

Non è questa la sede per indagare se il tempo sia una realtà oppure una mera illusione, ma una cosa possiamo dirla con sicurezza: mai come all’interno di un aereo perdiamo il riferimento delle due forme a propri della sensibilità umana tanto care a Kant. Pensare che quando a Torino Caselle sono le 16 all’aeroporto di Perth sono le 22, è come scattare una fotografia dello stesso identico tempo, che assume solo nomi e numeri diversi. Una volta in aria, ci muoviamo tra passato e futuro comodamente seduti sul nostro sedile, in attesa di atterrare nel presente, qualsiasi sia l’ora e il giorno.

 

  1. La paura di cadere

L’abbiamo sperimentato tutti: quando ci divertiamo il tempo si comprime, quando ci annoiamo si dilata. Che cosa succede in aereo? Anche in questo caso, tutto dipende dal nostro stato d’animo e da quanto siamo disposti a essere semplici osservatori del tempo che scorre, senza possibilità alcuna di poter incidere con il nostro libero arbitrio. Siamo trascinati dagli eventi, inermi, come una zattera senza remi, fino alla foce.

A differenza di altri mezzi di trasporto, l’aereo ci impone di affidarci completamente all’esperienza e al buon senso di un comandante. Non possiamo tirare un freno come sulla metro o in treno, non possiamo buttarci a mare o dentro una scialuppa come in nave. Ecco perché è sbagliato parlare di paura di volare: è paura di precipitare e non salvarsi, o meglio ancora di non aver la libertà di agire.

Come ci ricorda la filosofia zen: «Se il problema ha una soluzione, preoccuparsene è inutile, alla fine il problema sarà risolto. Se il problema non ha soluzione, non c’è motivo di preoccuparsi, perché non può essere risolto.» Non possiamo opporci allo scorrere del tempo una volta chiusi in aereo, dunque perché avere paura?

 

  1. Ora del ritorno

Quando si viaggia verso casa il tempo sembra scorrere più velocemente. Certo, tranne che per Ulisse. Ad ogni modo, questo succede perché abbiamo aspettative che già conosciamo. Anche all’interno di un aereo – che percettivamente ci offre un’esperienza sempre simile ad ogni volo – sappiamo esattamente cosa (e chi) ci aspetta una volta atterrati. Le nostre radici.

 

Quando salirete sul prossimo aereo, fateci caso. E portatevi una buona lettura, magari proprio su Il tempo. La sostanza di cui è fatta la vita di Stefan Klein, edizioni Bollati Boringhieri.

Buon viaggio.

 

Alice Avallone

Alice ha studiato lettere moderne e si è specializzata in pubblicità. Lavora come digital strategist per aziende, enti e agenzie: il suo compito è trovare idee e contenuti creativi per coinvolgere le persone sulla Rete. È creatrice della rivista di viaggio Nuok e di un inventario creativo di ars combinatoria ispirato al filosofo Raimondo Lullo. Dal due anni insegna e coordina il College Digital della Scuola Holden di Torino.

[Photo credit: Chris Brignola]

“Pensare al tempo”: una suggestione da Walt Whitman

Hai ipotizzato che proprio tu non saresti continuato? Hai avuto terrore di quei terrigni scarabei? Hai temuto che il futuro sarebbe stato nulla per te?

Con questi versi taglienti Walt Whitman apre la sua poesia Pensare al tempo, presente nella celebre raccolta Foglie d’Erba sin dalla prima edizione del 1855. Indubbiamente gli interrogativi posti dal poeta condensano delle inquietudini che affliggono l’umanità da tempo immemore. È infatti impossibile negare che gli uomini abbiano sempre avuto un rapporto travagliato con il fluire inarrestabile del tempo, specialmente se considerato in antitesi con la finitezza della loro vita: una chiara testimonianza di ciò sono le religioni che sia nelle civiltà primitive che in quelle più evolute sono nate al fine di fornire sollievo ai credenti attraverso prospettive di rinascita in seguito alla morte.

In questo articolo vorrei tuttavia tralasciare l’approccio religioso per concentrarmi invece su quello letterario e poetico e più nello specifico sulla linea di pensiero appunto del pensatore americano Walt Whitman.

Il «poeta del corpo e dell’anima», come amava definirsi, con questo componimento ci sottopone ad una riflessione che sembra svilupparsi proprio sotto i nostri occhi: i suoi versi danno infatti l’impressione di essere stati trascritti in maniera totalmente spontanea, come se il flusso dei pensieri di Whitman fosse sgorgato insieme all’inchiostro direttamente dalla sua penna.

Whitman esordisce constatando la difficoltà che tutti noi proviamo nell’immaginare un mondo in cui la nostra esistenza non sia presente, sia esso passato o futuro: «pensare che tu ed io non si vedeva sentiva pensava né si faceva la nostra parte […] pensare che avverrà ai fiumi di scorrere, alla neve di cadere, ai frutti di maturare… e di agire su di altri come su di noi adesso… ma non su di noi». Emerge dunque con chiarezza come il nostro essere sia l’elemento centrale della nostra esperienza della realtà, poiché consideriamo tutte le cose che ci circondano solo in base alla relazione che intratteniamo con esse. Da questo fattore dipende dunque lo spaesamento che ognuno prova  quando realizza per la prima volta che la sua vita, presto o tardi, giungerà al termine, mentre il ciclo vitale della Terra proseguirà imperturbabile ed eterno.

 Il poeta ci mette tuttavia in guardia dal pericolo di considerare le nostre attività e i nostri interessi come «fantasmi»: tutto ciò che costituisce la nostra esistenza non è mai vano e soprattutto non perde valore alla nostra morte; anche nel momento in cui diveniamo «nulla», ciò che abbiamo amato, costruito o addirittura odiato continua ad avere forma e peso… per dirlo con i versi della poesia «la terra non è un’eco… l’uomo e la sua vita e tutte le cose della sua vita sono ben considerate».

In questa poesia sono evidenti le influenze del pensiero romantico d’oltreoceano: i versi sembrano risentire di una concezione filosofica piuttosto vicina a quella di Friedrich Hegel, il quale riteneva che la storia fosse un percorso già tracciato e che gli esseri umani fossero le unità singole che compongono il Weltgeist. Anche Whitman infatti vede tutte le esistenze singolari come parte di qualcosa di più grande a cui ritornano in seguito alla morte, ed in questo modo certamente si può dire che nessun essere cessi mai veramente di vivere, in quanto la sua esistenza continuerà eternamente in questa sorta di spirito del mondo.

È sicuramente una prospettiva rassicurante, ma ormai nel secondo millennio le idee hegeliane e romantiche sono state sorpassate.

Il componimento preso in analisi non è tuttavia privo di spunti validi anche per i giorni nostri, primo fra tutti quello di non considerare futili né la nostra esistenza né ciò che facciamo durante quest’ultima: oggigiorno dilaga infatti un velato nichilismo che porta i componenti della nostra società a ritenere prive di senso tutte le loro attività. Ciò è fonte di un profondo sconforto, che si potrebbe evitare imparando a dare valore a ciò che si fa e che si produce, soprattutto perché le nostre azioni alla nostra morte continueranno in un modo o nell’altro ad avere un effetto sul prossimo.

Un altro suggerimento che dovremmo cogliere è quello di seguire l’appagamento, ma è molto importante non fraintendere questa esortazione: non significa che gli uomini debbano rifiutare qualsiasi responsabilità per dedicarsi unicamente alle occupazioni che portano loro piacere, ma semplicemente che essi dovrebbero cercare di trovare la bellezza in tutte le piccole cose che vanno a comporre la loro vita. Sicuramente il modo migliore per farlo è recuperare il contatto con la natura, a cui apparteniamo innegabilmente. In quest’epoca si è visto come la perdita dei legami con il mondo naturale abbia avuto effetti disastrosi sulla nostra civiltà: l’uomo senza neanche rendersene conto ha perso parte della sua essenza e ora si trova spaesato all’interno del mondo artificiale che ha fabbricato per se stesso. Senza dubbio molte delle inquietudini che agitano i nostri animi potrebbero essere placate se vivessimo più a contatto con l’ambiente che ci circonda, in quanto comprenderemmo meglio il ciclo vitale degli esseri viventi e saremmo in grado di accettare il nostro inevitabile destino di decadimento.

In questo modo potremmo quasi arrivare a concordare con Walt Whitman sul fatto che in ogni cosa risieda un’anima eterna, poiché capiremmo che quando moriamo non diventiamo un nulla, ma veniamo semplicemente reinseriti in quel processo infinito e antichissimo che regola la vita sul nostro pianeta.

Marta Boccato

Nata nel 1997 nella campagna trevigiana, a 5 anni chiedo a Babbo Natale il primo libro, a 8 anni scrivo la prima poesia: sin dalla tenera età il mio destino di amante della letteratura e della scrittura è già segnato.  Con gli anni si aggiunge l’amore per l’arte, che mi porta  a studiare Conservazione dei Beni Culturali a Ca’ Foscari. Nel tempo libero mi dedico ai miei hobby, ovvero ascoltare musica di epoche che non ho vissuto, cucinare e coltivare grandi speranze.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il tempo giusto

Le parole del mito sono patrimonio transculturale dell’umanità. Attraverso una variegata miscela di suggestioni, ciascuna cultura elabora i propri miti che sono, in fondo, modelli di comprensione dell’esistenza umana. La narrazione del mito serve a tener vive queste parole e la ripetizione di schemi e figure fissa nell’ascoltare (o in generale nel fruitore) alcuni specifici insegnamenti. 

Con una certa periodicitá, mi accade di tornare a leggere i versi della storia di Leandro ed Ero, sui quali giá qualcosa avevo provato a dire. Mi hanno sempre suggerito un senso di attesa: divisi da un’infida lingua d’acqua, i due amanti sono costretti alla clandestinità. Nottetempo Leandro sfida i flutti, guidato da una lucerna tenuta viva da Ero. Egli sfida la tempesta una volta di troppo o, forse, nel momento sbagliato e viene condotto dai marosi sulla riva opposta, esanime, tra le braccia della sua amata. L’attesa lascia il passo all’audacia: nonostante il mare sia in burrasca, il giovane tenta l’impresa per amore di Ero. Avrebbe dovuto attendere, essere prudente, attendere un momento più propizio.

La sapienza occidentale sovrabbonda di indicazioni riguardo al tempo opportuno in cui agire, in cui collocare una determinata azione. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento propizio e uno nefasto? É sempre possibile, anzi, è sempre sensato attendere la venuta di un momento migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con la necessità del tentantivo?

Rileggere i versi di Ovidio, questa volta, mi ha suggerito che talvolta bisogna far valere la propria esistenza rispetto alle condizioni spazio-temporali in cui ci si trova: occorre situarsi nel tempo che abbiamo, senza sfiorire nell’attesa di un attimo in cui tutto parrebbe compiersi da sé. Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che occorre avvicinarsi, andargli incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore.

Emanuele Lepore

 

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La filosofia dietro le note di “Lento/Veloce” di Tiziano Ferro

Sono in macchina, accendo la radio e parte il nuovo singolo di Tiziano.

Scriverti è facile, è veloce
Per uno come me.
Non temo mai le conseguenze, amo le partenze.
 
Ridere è difficile, è lento
E fosti un imprevisto.
Un angelo in un angolo mi strappò un sorriso vero.
 
Starò ancora bene veramente veloce o lento.
Appena smetterò di domandarmelo suppongo.
Veloce/Lento1 non è solo una canzone ma anche una riflessione celata di filosofia di vita a ritmo di musica, che sarà protagonista proprio di questo promemoria filosofico.
Si parla di tempo, o precisamente dello scorrere del tempo, i richiami sono certamente legati a Eraclito (vedi articolo Tutto passa), ma già dal titolo si può intuire che Tiziano Ferro vuole focalizzare l’attenzione su una chiara domanda e dà la sua risposta: come scorre il tempo? Veloce e lento.
 
Ascoltando più volte il tormentone estivo, si può cogliere questa analisi nel testo del cantante di Latina. Il tempo passa veloce in certi casi e in altri sembra non passare mai. Da qui è semplice e quindi veloce scrivere al destinatario delle strofe per il cantautore per esempio, ma è anche in un attimo che si può commettere un errore e rovinare un rapporto per incomprensioni oppure perdersi nell’innamorarsi e dimenticarsi di sé, riprendendo sempre il testo. In certe situazioni anche succede di accelerare il passo, si prendono decisioni di fretta d’istinto e di petto senza ragionarci tanto, di cui alcune volte ci si potrebbe pentire, ma non sempre.
 
In altre occasioni invece il tempo passa ma pare rallentato: è difficile trovare un momento per ridere in una giornata piena di tensioni o semplicemente ci vuole tanto tempo alcune volte per imparare certe lezioni che la vita ci offre, nonostante l’esperienza. Tiziano descrive anche come lento il tempo passato assieme ad una persona per non sentirsi soli, soffermandosi su quelle relazioni non realmente autentiche e sentite dal vivo, che si creano per colmare quei vuoti di solitudine che si possono provare nell’esistenza. Ma anche per amare ci vuole tempo: l’amore evolve negli anni, dallo stato d’innamoramento si scopre e si consolida l’amore, piano piano in tutte le sue sfaccettature.
 
È forse da quest’ultimo pensiero che pulsa il cuore della canzone, durante ogni giorno solo alla fine possiamo capire come abbiamo vissuto il nostro tempo, con quale intensità lo abbiamo attraversato e quale importanza ha avuto per noi. Malgrado questa riflessione, si sa, non si può tornare indietro e non ci resta che protenderci sempre al futuro e, in questo caso, all’estate che verrà.
 
Infine prima di chiudere, prova pensare anche tu a quali situazioni vivi con più gradualità e senti lento il loro succedersi nel tempo e a quali momenti nella tua vita invece volano veloci e neanche te ne accorgi: magari quando ascolterai questa canzone, un particolare ricordo ti verrà in mente e quel pensiero, se sarà felice, riuscirà a strapparti un fugace sorriso.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

 NOTE
1. Link ufficiale del video della canzone.
 
 
 
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È ora di cambiare! Val(ore) contato

Cambiamento, continuità, tempo. Certo il tempo trascorre, trasvaluta, e, nell’azione, nella prassi dell’umano, conferma e rinnega i valori per i quali l’umana specie persevera e conserva la propria specie. Conserva, mette da parte o eleva per tramandare i contenuti. Eppure questi contenuti sono soggetti al cambiamento, una piccola matrioska con trentamila anime diverse, da scartare?

Predichiamo i valori come fossero delle realtà a priori universali, come realtà imperiture con un grande valore di scambio, delle realtà impagabili. Le religioni, le filosofie ne hanno discusso, stabilendo una scala gerarchica, eppure non siamo ancora capaci di una convivenza pacifica e razionalmente orientata alla condivisione dello spazio. Al servizio dei valori sono le ideologie politiche, i partiti, i leader spirituali, le icone da questi generate, e − in genere − ognuno di noi che, in una specifica fase della propria esistenza, se ne faccia portatore. Ed è proprio per questi valori, per la loro portata ideale, che agiamo contro i nostri fratelli. Per il valore che riponiamo nelle nostre famiglie, i nostri primi stati domestici, ripudiamo la nostra stessa appartenenza.

È lecito chiedersi “quanto” valore ci sia nelle nostre esistenze e quindi quale prezzo si debba pagare per il loro mantenimento? Chi si sente appagato dalla verità ne paga un prezzo, ma non va con la verità; chi lotta per la pace lo fa distruggendo la pace. In genere chi si sacrifica per un valore, per il suo riconoscimento, muore nel nome di quel valore. La storia stessa ci dimostra come questa “dialettica paradossale”, questo sopra citato tranello esistenziale e patologico insito nella natura relazionale dell’essere umano, sia l’unica certezza condivisa. I corsi e ricorsi storici ci insegnano che l’essere umano ha dovuto pagare a caro prezzo una libertà limitata e che questa travagliata lotta non trova mai tregua, anzi essa si ripete, mettendo in discussione la validità dell’insegnamento storico e quindi la natura stessa dell’essere umano. L’animale razionale, homo sapiens sapiens, afferma la propria libertà d’esistenza eliminando tutti gli ostacoli che si interpongono tra lui e questa.  Se da un lato sembra che l’evoluzione della nostra specie abbia permesso una convivenza più pacifica, dall’altro le cronache di questi ultimi anni, giorni confermano il contrario. Il terrore inonda la nostra realtà, limitando in modo impressionante la nostra sfera privata, la nostra libertà di movimento, di scelta. Esso ci si presenta come un ritorno storico scomodo, foriero di ricordi e di modi di fare tipici dell’essere umano. L’aggettivo “umano” stesso inizia allora a barcollare nella sua accezione più pura. Non sappiamo ancora cosa voglia indicare. I valori sembrano trovare, in questa precisa fase storica, un valore nell’annullamento, della negazione della vita stessa. Si può lottare per la fede annullando la fiducia reciproca? Basterebbe in questo caso credere che il responsabile di questi orrori sia Dio stesso, nel paradosso, fautore di crimini perché assente.

Ci si chiede ancora se questa lotta per i valori abbia senso e se ci sia dato sapere per chi o per cosa si lotti. L’unica cosa importante sembra essere che questi valori ci siano, a prescindere da tutto, da tutti. L’emergenza di esprimere, imporre il proprio volere, la propria opinione per affermarsi, per dar fregio alla propria personalità, al proprio sistema di convinzioni ha sempre rappresentato un piccolo peccato di presunzione, connaturato alla natura umana. Basta guardare le enormi e infinite bacheche personali potenziate dai social: quanto è importante trovare appagamento attraverso l’approvazione dell’altro! Ci siamo però mai chiesti, dove abbiamo posizionato la nostra scala dei valori e dove essa ci faccia approdare? Ci siamo chiesti se abbiamo bisogno di questa scala?

Eppure noi educhiamo attraverso i valori, gli ideali che essi rappresentano. La cultura cui apparteniamo, alla quale facciamo appello nelle difficoltà di relazione, si rispecchia, riflette nei valori, in questi sostantivi totemistici. Quanta valenza avrebbero queste convenzioni senza la presenza e il sostegno della funzione linguistica, senza l’altro, senza la relazione? In una situazione specifica come la nostra, del qui e dell’ora, potrebbe risultare interessante coniare nuovi valori etici ai quali “sottostare” oppure accordarci. Troveremo così nuovamente spunti per cui varrebbe la pena uccidere il prossimo? Non è infatti un paradosso dire che per un valore tutti noi saremmo disposti ad uccidere.

Allora non esiste un valore universale e non ne “vale la pena” nemmeno crearne uno, nessuno o mille tra i tanti. È ora di cambiare, di cambiarci, di rinnovare. Trasvalutiamo e facciamo emergere i valori di fratellanza e uguaglianza per i quali sembra che il progresso sia nato nominalmente. Sembra uno slogan di carattere politico.

Quando mi trovo a parlare di valori con i ragazzi in classe − hanno circa 17 anni − devo per forza considerare il valore, la valuta, la moneta. Poi parlo di scambio, poi di rapporto-relazione e di beni, materiali ed immateriali. Molti ragazzi rispondono che con le monete giuste si può comprare tutto. Io li guardo attonito, rammaricato e credo che in fondo non hanno ancora ragione. Tiro fuori una moneta dalla tasca e anche se scelgo tra testa o croce, il numero, il valore su essa incisa non cambia. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Il valore dell’individuo varia in base alla società, alla storia in cui la società sviluppa il suo cambiamento o lo ammutolisce.

Allora è proprio nei valori che bisogna custodire valore. È nell’alterità che il valore si riconosce come tale, nell’alterità di un valore non conosciuto ma riconosciuto. Ogni persona, cultura, nazione rappresenta e presenta un valore di diversità con il quale rapportarsi. Considerare queste diversità e rendere degno lo spazio dell’ascolto e della coesistenza è forse l’unico gesto che ci porterà alla condivisione più armoniosa. L’appartenenza è unica, l’essere umano è unico perché abitante di un unico spazio.

Raffaele Mirelli

NOTE: Quello del valore costituisce il nodo centrale del Festival di filosofia di Ischia La filosofia il Castello e la Torre nell’edizione 2017. Maggiori info qui.

[Immagine di Goomlab.it]