Un tempo tutto da vivere: una prospettiva a partire da Henri Bergson

Nell’episodio precedente era stata presa in considerazione la concezione più comune dell’esperienza umana dello scorrere temporale. Quell’analisi mirava a portare alla luce la dipendenza della nostra visione ordinaria del tempo da un tempo prettamente fisico o scientifico, che si rappresentava come spazializzato e formato da unità di misura (gli istanti) tutte identiche tra loro. Siffatta modalità temporale era però astratta, giacché non era altro che un espediente epistemologico per facilitare le nostre misurazioni in relazione ai fatti che ci accadono. Seppur assolutamente necessario per lo svolgersi della vita quotidiana, questo tempo fisico non poteva tuttavia essere considerato l’unico tempo di cui abbiamo sentore. Come potrebbe esserlo, dal momento che non possiede alcun valore di verità per la nostra vita fenomenica, soggetta a uno scorrere ininterrotto di eventi e a continui mutamenti impercettibili? L’articolo precedente, invero, si concludeva ponendo la domanda sulla possibilità di un tempo da intendere e da vivere diversamente, un tempo per cui passato, presente e futuro non costituiscono rigidi spazi recintati ma zone di confine labile, in cui la determinazione dell’uno sfuma in quella dell’altro e grazie a cui si producono delle corrispondenze parallele. Questo nuovo tempo possibile, o forse il più vecchio di tutti i tempi possibili, è il tempo qualitativo della vita che viene vissuta al di là dei rigidi schemi cronologico-meccanici utilizzati per regolare le azione di uno “stare comune”.

Tra le tante proposte filosofiche dedicate a quest’esperienza alternativa del tempo, quella di Bergson è una tra le più significative e innovative. La ragione di ciò è che Bergson riesce a mostrare chiaramente come il tempo che viviamo sia una durata reale, un fluire interiore ininterrotto, che non è possibile tagliare in secondi o minuti o ore, perché per natura è una trasformazione indissolubile dei nostri stati psichici.

«La durata assolutamente pura è la forma assoluta della successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore»1.

Quando parliamo del tempo e dell’esperienza che su di esso facciamo, non abbiamo quindi a che fare con un oggetto, una cosa “astratta”; al contrario il tempo è processo, una molteplicità di stati qualitativi che costituiscono un’unità indivisibile.

Come fa, però, questa nuova “vera” natura del tempo a rivoluzionare la nostra esperienza concreta del vivere il (e nel) tempo, suddiviso tra le tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro? Per rispondere a questo problema è necessario partire dal passato e dall’atto della memoria: essi, infatti, non possono essere pensati come un contenitore pieno di morte informazioni che a nostro piacere utilizziamo per le azioni quotidiane. Se così fosse, allora significherebbe che la memoria e il passato si costituirebbero solamente come conseguenza del passare di ogni momento presente e che solamente dopo questo passare si potrebbe incominciare a riempire il contenitore prima vuoto della nostra memoria. Eppure, la memoria è molto di più di questa falsa profondità che si limita alla superficie. La memoria (e il passato) è una virtualità, che esiste e insiste sulla nostra vita; essa precede ogni presente e determina il venire alla luce di ogni evento attuale, di tutte le azioni concrete che noi compiamo attraverso il ricordo di fatti utili. Allora, si può dire che il passato è come l’ombra che ci segue ovunque e da cui non possiamo staccarci. L’ombra è la memoria nella sua virtualità più ampia, tutto il passato nella sua forma più vaga e indeterminata; noi invece, che siamo a lei incollati, siamo la forma determinata, l’attualizzazione presente e momentanea di uno dei suoi più intimi ricordi.

Questa nuova visione della memoria è importante perché permette di comprendere come il tempo possa diventare un’esperienza qualitativa e al contempo paradossale, giacché tutto il passato è ora contemporaneo e coesistente con il presente stesso. Ciò significa che il passato non è più fisso ma si muove costantemente in se stesso e nel presente che lo attualizza. E il presente ci incalza e ci scalza accollandoci continue nuove “forme”; ma in quest’incalzare esso rappresenta l’apertura di un vuoto di relazione tra passato e futuro. E il futuro, infine, non è più l’attesa angosciosa e colma di paura per un avvenire ignoto; esso diventa il destino della nostra vita spirituale, in cui è ripreso e ripetuto il livello del passato che abbiamo saputo scegliere e realizzare.

In conclusione, abbiamo a disposizione almeno due diversi modi di intendere e vivere il tempo, quello quantitativo della scienza e quello qualitativo del nostro flusso interiore. Se vogliamo vivere in un meccanismo la scienza può darci il suo tempo, scandendo a ritmo di secondi, minuti e ore la nostra quotidianità. Ma se vogliamo vivere il tempo intensamente abbiamo bisogno di un tempo diverso. C’è quindi un tempo nuovo ma antichissimo, che aspetta il nostro consenso per poter essere vissuto e per farci accedere a una regione più autentica dell’essere. Tutto ciò che dobbiamo fare è creare in noi quel vuoto necessario per la sua infiltrazione.

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896, Mondadori, p. 59.

[Photo credit Ben White via Unsplash]

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Di punto in punto, di istante in istante. Il tempo visto da Aristotele

Uno dei misteri più grandi, che da sempre hanno affascinato e arrovellato la mente umana, è il mistero del tempo, di quel pozzo infinito di eventi che scorrono inesorabilmente, scindendosi in un prima e in un poi. E non a caso, se si volesse dibattere di questo tema, gli aforismi e le citazioni famose (una su tutte Carpe diem) non mancherebbero affatto. Per questa ragione non avrebbe alcun significato ripeterle per dare avvio a un piccolo articolo su un grande problema, il quale non necessitando di ulteriore presentazione aspetta solo il suo inizio.Cos’è essenzialmente il tempo? Qual è il senso di questo scorrere implacabile, che detta i ritmi della nostra esistenza? E soprattutto, cos’è il tempo al di là di un essere che lo vive e che vivendolo consapevolmente lo rende tempo?

È chiaro che da un certo (e alquanto semplicistico) punto di vista il tempo è ciò che ci permette di ordinare cronologicamente le nostre azioni individuali e sociali, secondo un’unità di misura definita dal “prima” e dal “poi”. La nostra vita è comunemente misurata da un tempo cronologico-ordinario e la tradizionale interpretazione di questo tempo trova la sua più canonica formulazione in Aristotele, secondo il quale, appunto, il tempo è definibile come “il numero del movimento”.

«Il tempo, dunque, non è movimento, se non in quanto il movimento ha un numero. Eccone una prova: noi giudichiamo il più e il meno secondo un numero, e il movimento maggiore o minore secondo il tempo: dunque il tempo è un numero»1.

Seguendo alla lettera questa visione della natura del tempo, si evince che esso è sostanzialmente paragonabile ad un linea retta divisibile in segmenti di egual grandezza, rappresentanti i diversi istanti che si succedono alternativamente affinché il tempo sia. Ogni istante viene superato dall’istante successivo, giacché lo contraddice, essendo il suo non essere più, ovvero il suo essere divenuto qualcos’altro (così come ogni nuovo punto è il superamento del punto che lo aveva preceduto). Il tempo è quindi l’unità di misura di ogni cambiamento e per esserlo deve essere pensato come composto da una serie infinita di istanti, i quali sono i punti al limite della retta temporale delimitata da un punto-passato e da un punto-futuro.

Tuttavia, perché la misurazione del tempo sia resa possibile, è chiaro che sono necessari almeno due punti (ovvero due istanti), perché solamente due distinti punti liminari possono determinare la lunghezza effettiva di una certa retta (così come solo due istanti possono contrassegnare lo scorrere di un determinato tempo). Questa concezione del tempo come unità misurabile del divenire delle cose ha trovato come sua massima espressione l’invenzione dell’orologio, ovvero di quello strumento meccanico tramite cui il tempo è segmentato in istanti di egual durata ed è facilmente calcolabile nel suo fluire attraverso precise operazioni aritmetiche.

Ecco qual è fondamentalmente il nostro approccio e il nostro modo di considerare il tempo; un approccio e un modo che hanno delle conseguenze importanti sulla nostra percezione del suo scorrere. Invero, questa determinata visione rende implicitamente prioritaria una sola dimensione temporale, essendo essa “genitrice” delle altre due. Tale dimensione è chiaramente la dimensione del presente, che costituisce il magico vaso a partire da cui si potranno generare per sudditanza il passato e il futuro. In effetti, il passato è qualcosa di totalmente inesistente prima che un presente attuale sia passato e sostituito da un altro-nuovo presente. Il passato è quindi pensato alla stregua di un bagaglio in sé totalmente vuoto e perciò da riempire, gettandogli dentro l’ammasso delle esperienze di un intero viaggio. Allo stesso modo il futuro è reso possibile solamente dal sopravanzare di un nuovo presente su un vecchio presente, poiché solo nel “tra” di questi due attimi si aprono le porte al futuro, come l’altro o l’aperto verso cui ogni presente deve tendere, se non vuole immobilizzarsi e così negare il tempo stesso.

Così ci appare, in maniera alquanto ovvia, il tempo e da questo apparire deriviamo il suo funzionamento: guardare al passato ormai fisso, vivere il presente che incalza e aspettare il futuro sempre incerto. E se invece il tempo fosse altro da ciò che ci appare? E se esistesse una diversa possibile percezione di ciò che è tempo, del fluire inesorabile degli eventi, in modo che il tempo non sia suddiviso in istanti successivi, ma che esso sia come un cratere vulcanico sempre pronto ad eruttare il vecchio che ritorna? Potrebbe essere che sia possibile vivere il tempo non più come insieme di segmenti da sommare, ma come un magma di eventi che si attualizzano a partire da un immenso pozzo di virtualità infinite. Non è il presente allora che crea il passato ma il passato che produce eventi che balenano nell’orizzonte dell’ora per poi ritornare nel pozzo dell’allora.

Ma questa è tutta un’altra storia da raccontare…
TO BE CONTINUED…

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. Aristotele, Fisica, IV, 11, 219b b, 2.

[Photo credit Bradley Ziffer via Unsplash]

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La bellezza è nel nostro sguardo sulle cose. Intervista a Carlo Rovelli

Quando leggiamo articoli riguardanti scoperte della scienza o saggi di divulgazione scientifica, ci stupiamo della bellezza che ammanta la realtà che ci circonda. Spesso, però, non veniamo a conoscenza dei conflitti (anche interiori) e delle difficoltà che gli scienziati hanno affrontato per disvelare quella bellezza.
Carlo Rovelli, fisico teorico e divulgatore, nell’intervista che ci ha gentilmente concesso, discorre anche di questo tema, aggiungendo interessanti spunti di riflessione alla nostra rivista n. 7, che tratta proprio l’esperienza del bello.

Il prof. Rovelli ha lavorato in Italia e negli Stati Uniti e attualmente lavora in Francia. La sua principale attività scientifica è nell’ambito della teoria della gravità quantistica a loop (loop quantum gravity), di cui è uno dei fondatori. Si è occupato, tra le altre cose, anche di filosofia della scienza, della nascita del pensiero scientifico e in particolare della posizione di Anassimandro nello sviluppo della riflessione scientifica dell’umanità.
Tra gli argomenti di cui abbiamo parlato con il prof. Rovelli, però, non poteva mancare quello del tempo, intorno al quale il fisico ha scritto il libro L’ordine del tempo: un tentativo coraggioso e ben riuscito di coniugare la concretezza del fenomeno temporale con la sua dimensione inafferrabile. Tra le altre pubblicazioni ricordiamo inoltre Sette brevi lezioni di fisica, best seller internazionale tradotto in 41 lingue.

 

La bellezza è una forma simbolica che invece di procedere verso l’insignificanza e l’annullamento, produce continuità nel sistema, mutamenti di forma, nuovi significati. Essa non invoca un ideale apollineo e a-conflittuale, essa muove il dubbio, è enigma e problema della ragione. La bellezza è un pensiero, o meglio, un’intenzione che si sottrae al nichilismo. Goethe chiamava questa forza segreta, dirompente nelle occasioni più imprevedibili “bellezza vivente”. L’ideale di bellezza ha sempre posseduto una funzione propositiva, costruttiva, progettuale, utopica, mai reattiva, decostruttiva, dissolutiva. Quanto secondo lei la fisica e la scienza tutta incarnano questo ideale di bellezza?

Messa in questi termini, io direi: per nulla! Scherzi a parte, la bellezza non è nelle cose, è nel nostro sguardo sulle cose e quindi è tremendamente soggettiva. A causa di questo, e proprio perché è un sentimento possente su di noi, può anche essere tremendamente fuorviante per la scienza. T.D. Huxley ha scritto (cito a memoria): “Non c’è nulla di più tragico che una bella idea scientifica demolita dai bruti fatti”, e succede spesso: idee scientifiche motivate dal senso estetico degli scienziati si rilevano seplicemente sbagliate. Recentemente Sabine Hossenfelder ha scritto un bel libro mettendo la fisica teorica in guardia contro questo rischio. La bellezza viene dopo, quando restiamo stupiti per come funziona la natura. Qualche volta però, succede che un’idea che funziona ci conquista per la sua semplicità e forza, e ne sentiamo un’intima bellezza… e quest’idea funziona. È il caso delle grandi intuizioni di Einstein o delle formule di Dirac.

Lo stupore di fronte alle cose e la capacità di lasciarsi sorprendere sono da sempre questioni care alla riflessione filosofica occidentale. Aristotele ne la Metafisica, (982b-983) così scrive:  «Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai principi primi e alle cause […]. Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo.»Lo stesso possiamo dire della scienza. Se il thauma aristotelico è ciò che muove filosofia e scienza, perchè la relazione tra le due non sempre è così aperta al dialogo ma riserva del pregiudizio?

Perché siamo umani e arroccati in difesa nei nostri piccoli mondi. Filosofia e scienza nella storia si sono sempre parlate molto. Anche oggi ci sono molti convegni a cui partecipano sia fisici che filosofi. Ci sono però anche scienziati poco aperti che non capiscono il senso della filosogia e ne parlano male, e ci sono filosofi ottusi che non capiscono il senso della ricerca scientifica, la conoscono poco e ritengono che si tratti di “sapere di serie b”, di conoscenza “inautentica”.

Quali ritiene essere i punti di contatto tra filosofia e scienza e quali invece le differenze che ostacolano la possibilità di lavorare in sintonia?

I punti di contatto sono sempre stati moltissimi. La migliore scienza (Newton, Maxwell, Einstein, Heisenberg, solo per fare degli esempi) si è sempre nutrita intensamente del pensiero filosofico suo contemporaneo, e la migliore Filosofia (Hume, Kant, Witgenstein, solo per fare esempi) è sempre stata profondamente attenta ai risultati della crescita del sapere scientifico suo contemporaneo. Gli ostacoli secondo me sono posti dalla cattiva scienza che ha la presunzione di poter fare a meno della riflessione filosofica e dalla cattiva filosofia che ritiene che il sapere scientifico non sia rilevante. Molti filosofi confondono “Scienza” con “Tecnica” e parlano di scienza senza conoscerla e senza sapere cosa sia e come funzioni davvero. Un peccato. 

Come riesce a coniugare la ricerca in un ambito tecnico come la fisica teorica e la divulgazione dello stesso ambito in un modo coinvolgente e meravigliato?

Male. Non ho mai tempo, anzi, vorrei fare sempre il triplo delle cose di quelle che ho il tempo di fare. D’altra parte però, scrivere i miei libri destinati al grande publico mi ha obbligato ad uno sforzo di riflessione e di pensiero, che è stato utilissimo per la mia ricerca scientifica. Mi sono chiarito le idee su tante cose. I miei libro non sono solo di divulgazione: sono un tentativo di riflessione approfondita sui tempi di cui parlo.

carlo Rovelli_La Chiave di Sophia_filosofiaCome scienziato che cosa pensa del modo in cui Roberto Burioni e altri scienziati stanno facendo divulgazione del tema dei vaccini? Anche lei crede che “la scienza non può essere democratica”? (Si veda il sottotitolo dell’ultimo libro del dott. Burioni).

Il problema non è se la scienza sia o no democratica. Il problema è se la società sia o no cretina. Se non vacciniamo i nostri bambini, tornano le epidemie, e li condanniamo a malettie e sofferenze. Di morbillo, per esempio, si muore. Perché fare questa cosa così stupida come non vaccinare? L’intelligenza non è saper risolvere i problemi da soli: è saper riconoscere chi sa meglio risolverli. Se la gente è così stupida da prendere ciarlatani per profeti, la gente fa male da sola a sé a agli altri.

Sono noti a tutti i numerosi esempi in cui la scienza viene comunicata alla società. In che modo può avvenire il processo inverso? è possibile o desiderabile che la scienza incorpori il punto di vista degli altri attori sociali?

Ognuno deve fare il mestiere che sa fare meglio. Se una città costruisce un ponte, bisogna che il consiglio comunale decida come farlo tenendo conto delle esigenze di tutti e cercando le mediazioni fra le richieste diverse, bisogna che l’architetto cerchi di disegnare il ponte bello e integrato nel paesaggio e nella struttura urbana e bisogna che l’ingegnere faccia bene i calcoli per essere sicuri che il ponte non cada. Se i calcoli li fa il consiglio comunale, l’architetto si occupa dei cucinare le cene, e l’ingegnere incorpora il punto di vista degli attori sociali, il ponte non viene un granché.

Considerando il suo impegno nella divulgazione e nel prendere posizione anche circa la dimensione sociale e politica propria dell’uomo, potremmo dire che lei è un fisico-filosofo, figura non sempre facilmente presente in Italia. Molto spesso infatti gli scienziati, in questi anni, si sono dimostrati disinteressati all’apertura e al confronto. Qui ritorniamo alla difficoltà di apertura e dialogo tra la scienze e le altre discipline. Ritiene ci sia la necessità che lo scienziato d’oggi coltivi anche un ruolo pubblico e intellettuale? Dove l’aspirazione al dialogo, all’intesa e alla comprensione sono gli elementi fondanti del confronto.

Non ritengo che sia necessario che tutti gli scienziati coltivino ruoli publici. Ho molti colleghi che certamente è meglio restino in dipartimento. Penso che la cosa migliore sia che ognuno faccia quello che si sente di fare e contribuisca al bene comune nel modo in cui si sente di farlo. Io per anni mi sono occupato solo di scienza, ma siamo tutti esseri umani e cittadini prima che essere scienziati. Abbiamo tutti una responsabilità verso gli altri, la società e il mondo.

La questione del tempo, centrale in tutti i suoi libri ma in particolare nell’ultimo libro L’ordine del tempo, è stata al centro del dibattito filosofico sin da Aristotele, il quale definì il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 12, 219 b). Nella concezione neoplatonica, da Plotino ad Agostino, il concetto di tempo è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all’anima e alla sua «vita interna». Per Plotino il tempo, «immagine dell’eternità» (Enneadi, I, V, 7) è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato all’altro della sua vita. Interessante è la relazione posta tra tempo e l’eternità, relazione che sembra descrivere molto bene il nostro rapporto con lo scorrere del tempo e la sua difficile accettazione. L’eternità è infatti desiderio profondo dell’uomo. Perchè secondo lei c’è questa forte tensione all’eternità e dunque all’immortalità?

Perché siamo spaventati dalla morte, come bambini impauriti dal buio. La tensione all’eternitè e all’immortalità è solo un effetto della paura della morte. Facciamo molto fatica ad accettare l’idea che in futuro non ci saremo più. Non ho mai capito bene perché. Non ci distruba l’idea che mille anni fa non c’eravamo, ma ci disturba l’idea di non esserci più fra cento anni. Credo che si tratti di un errore del nostro cervello: un cortocircuito fra il sano e breve terrore di un predatore che attacca, di un pericolo imminente, che è utile perché ci permette di non morire troppo presto e la grande capacità di prevedere il futuro che la nostra specie ha sviluppato nel corso della sua evoluzione. Quest’ultima ci ha messo di fronte all’inevitabilità della nostra morte e stimola l’istinto di fuga dai predatori. Ma una sciocchezza. Avere paura della morte è come avere paura del sole che sorge: è la nostra natura di avere una vita breve, perché non accettarla?

Se guardiamo alla filosofia contemporanea, Martin Heidegger invece di delineare una definizione della nozione di tempo (in Essere e tempo), considera la temporalità nelle sue tre dimensioni: passato, presente e futuro, come le caratteristiche costitutive dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo  (l’esserci, il Dasein) e, come tale, legato al passato, al presente, ma anche proiettato nel futuro attraverso le proprie progettualità. Con quale approccio lei si confronta con questa tripartizione? Sia in quanto fisico, sia in quanto Uomo. 

In quanto uomo, come tutti gli altri: con memorie, nostalgie, rimpianti, timori e speranze; con un po’ di  angoscia e un po’ di serenità. In quanto fisico, riconoscendo la distinzione fra il tempo misurato da un orologio e la complessa fenomenologia del tempo che nasce dalla struttura e dal funzionamento di una macchina complessa come il nostro corpo e il nostro cervello. Newton si occupava del primo, Heidegger del secondo. Non c’è vera contraddizione fra le due prospettive, come non c’è vera contraddizione nel fatto che un raccoglitore di ferri vecchi e un innamorato di macchine antiche parlino diversamente dello stesso mucchio di metallo. Il mio libro “L’ordine del tempo” è interamente un tentativo di comprendere come queste due prospettive sul tempo, quella della fisica teorica e quella sul tempo della nostra esperienza di cui parla Heidegger, siano compatibili.

Quale scenario futuro attende la ricerca sulla concezione fisica del tempo?

A mio parere, rispondere a tre domande. Per prima cosa, come scrivere le equazioni elementari del mondo senza la variabile tempo e come usarle. Per seconda, chiarire perché il passato ci appare così stranamente “ordinato”, cioè chiarire la sorgente fisica della freccia del tempo. E, terza cosa, chiarire tutti vari e molteplici collegamenti fra i due estremi della domanda precedente: fra il tempo fisico e il tempo della nostra esperienza.

 

Elena Casagrande & Stefano Cazzaro

 

[Credit ritratti di Carlo Rovelli Fronteiras do Pensamento / Greg Salibian]

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Fisica estrema. Intervista a Gian Francesco Giudice del CERN

Al confine tra Svizzera e Francia, alla periferia ovest della città di Ginevra, si trova il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Un complesso sotterraneo di sette acceleratori chilometrici, concepiti e costruiti per portare i nuclei degli atomi e altre componenti subatomiche a energie elevate, per osservare in queste condizioni estreme il loro comportamento e comprendere qualcosa in più sul funzionamento dell’universo. Si tratta del CERN di Ginevra, l’organizzazione europea per la fisica nucleare. All’interno di questa struttura lavora Gian Francesco Giudice, scienziato a capo del dipartimento di fisica teorica. Siamo riusciti a raggiungerlo, per gettare grazie alla sua testimonianza uno sguardo verso i limiti della fisica. E provare a riflettere su cosa ci sia oltre.

Ma non solo: il sulla nostra rivista La chiave di Sophia #7, dedicata al tema dell’esperienza del bello, abbiamo costruito assieme a lui un dialogo per cercare di esplorare i legami inaspettati tra il mondo della fisica e la contemplazione estetica. Un articolo per chi è incuriosito dai modi in cui gli approcci di scienza e arte possono contagiarsi l’uno con l’altro.

Quando ci si avvicina ai concetti scientifici di cui si occupa un ente di ricerca come il CERN si prova una vertigine, come se ci si avvicinasse ai limiti della fisica, prossimi ai confini di uno dei campi dello scibile umano. Uno scienziato come lei, abituato a occupare la frontiera in questo continente inesplorato cosa vede nel futuro della scienza nel campo della fisica?

Senza dubbio, la ricerca sviluppata al CERN si situa ai confini della conoscenza umana. Proprio per questo è difficile prevedere cosa ci sia oltre quei confini. L’LHC, il grande collisore di particelle del CERN, sta operando con successo e sta raccogliendo una grande quantità di dati che verranno analizzati negli anni a venire. C’è enorme curiosità di capire cosa si possa dedurre da quei dati. E in tante parti del mondo ci sono esperimenti molto diversi che esplorano i fenomeni estremi dell’universo. Ho la sensazione che nuove scoperte rimescoleranno presto le carte della nostra comprensione della natura, ma c’è una grande incertezza su quale sia l’indizio giusto che farà scaturire la scintilla.

 

La fisica teorica maneggia oggetti e concetti in modo spesso distante dalla nostra esperienza quotidiana: concezioni contro-intuitive di spazio, tempo e materia, quelle nozioni che sembrano così basilari, scontate e solide. Rimanere immerso in un mondo in cui lo sforzo intellettuale richiede fluidità rispetto a idee tanto basilari, è faticoso?

La scoperta paradossale è che i concetti apparentemente contro-intuitivi di spazio, tempo e materia che incontriamo nel mondo delle particelle descrivono la vera realtà. È lì, in quel mondo lontano dalla nostra percezione, che scopriamo la vera essenza della natura. Quello che la nostra esperienza sensoriale ci suggerisce essere la realtà è solo una confusa immagine distorta dalla complessità del mondo macroscopico. Un fisico, nel suo lavoro, è sempre confrontato con la realtà fisica della meccanica quantistica e della relatività, che è lontana dalla nostra innata intuizione basata sull’esperienza sensoriale di esseri umani. Per questo nel nostro lavoro usiamo spesso analogie che ci permettono di visualizzare in modo più concreto (almeno per un essere umano) la pura realtà astratta.

 

L’importanza di sapere di non sapere, e l’idea che la filosofia come amore per il sapere nasca dalla meraviglia sono due tra i ritornelli più diffusi in campo filosofico. Forse la meraviglia nasce proprio per contrasto da uno stato di non-sapere, di ignoranza che viene illuminato con una nuova prospettiva e visione del mondo. Sicuramente il CERN ha portato nuova conoscenza, ma cosa ci sta permettendo di scoprire che non sappiamo? Di cosa potremo meravigliarci?

Più progrediamo nella conoscenza, più ci scontriamo con nuovi enigmi e nuovi dubbi. È sempre stato così nella scienza. Si dice che le ultime parole del matematico e astronomo Pierre-Simon Laplace, prima di morire, fossero: “Quel che conosciamo è poca cosa, quel che ignoriamo è immenso”. Oggi non siamo in una situazione molto diversa da allora. Le domande che ci poniamo oggi sono diverse da quelle che si ponevano gli scienziati al tempo di Laplace, ma non sono meno. Anzi. Mi faccia fare alcuni esempi. Il 95% del nostro universo è fatto di una forma di materia o energia che non abbiamo ancora identificato. I valori misurati delle masse delle particelle elementari restano ancora un mistero, così come la loro struttura ripetitiva. Eccetera, eccetera. Quel che conosciamo è ancora poca cosa…

 

Oggi sempre di più si pone il problema di come comunichiamo quello che conosciamo. Delle dinamiche della condivisione del sapere scientifico. I processi della scienza si scontrano anche con dubbi e critiche di diversi attori sociali. Quali sono secondo lei le ragioni per questa perdita di fiducia?

La diffusione dell’informazione su internet, aldilà degli infiniti vantaggi, ha purtroppo parzialmente distorto il significato di conoscenza. Affermazioni di qualsiasi tipo sono messe sullo stesso piano. False tesi possono facilmente ottenere credito e rapidissima diffusione. La scienza, che non si misura in numero di “Like” o visualizzazioni, ne paga il prezzo. Tuttavia, io sono ottimista e credo che, alla lunga, il valore della scienza rimarrà saldo. Non c’è dubbio che la scienza rimane il culmine della nostra civiltà.

 

Ci tolga una curiosità, forse più intima: qual è il suo sogno scientifico nel cassetto?

Ci sono tante domande di cui sarei curiosissimo di sapere la risposta. Domande sull’origine delle particelle, sulla nascita dell’universo, sulle leggi fondamentali. Dubito che durante la mia vita avrò le risposte a tutte queste domande. Forse il mio sogno sarebbe quello di viaggiare nel tempo, cento anni nel futuro, comprarmi un libro sugli ultimi sviluppi in fisica, e poi tornare indietro ad oggi. Mi divertirei un mondo a leggere quel libro e farmi matte risate delle idee completamente sballate perseguite oggi dai miei colleghi.

 

Un’ultima domanda. Cosa pensa della filosofia?

E’ una domanda delicata per un fisico. Molti fisici vedono la filosofia come un antiquato e inadatto modo di comprendere la realtà. Mi faccia citare alcuni tra i più grandi fisici teorici. Richard Feynman: «La filosofia della scienza è utile agli scienziati quanto un libro di ornitologia può esserlo per gli uccelli». Steven Hawking: «La filosofia è morta perché i filosofi non hanno mantenuto il passo con i moderni sviluppi in fisica». Steven Weinberg: «L’irragionevole inefficacia della filosofia» (parafrasando la famosa espressione di Wigner: «L’irragionevole efficacia della matematica»).  In realtà, la fisica è figlia della filosofia, da cui ha ereditato il pensiero logico. Nella formulazione delle sue teorie, un fisico è sempre influenzato dal pensiero filosofico, anche se il metodo scientifico finisce sempre col riferirsi all’osservazione sperimentale. La sua domanda mi ricorda che venerdì prossimo devo parlare al simposio annuale della Società Filosofica Svizzera e non so ancora cosa dire. Mi vengono i brividi a pensare che devo parlare di fronte a un pubblico di filosofi. Meglio che torni al mio lavoro. La ringrazio per la chiacchierata.

 

Matteo Villa

 

[Photo Credits: www.jotdown.es]

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La lepre e la tartaruga: correre per rallentare

Nel mondo anglosassone esiste una storia raccontata con minime variazioni da almeno un secolo, più recentemente dallo scrittore americano Terry Hershey nel suo Sacred Necessities (2005). La vicenda vede un esploratore, a volte inglese, altre volte americano, recarsi in un non meglio specificato paese africano ed assumere delle guide locali per accompagnarlo nella natura selvaggia. Le guide, durante i giorni di lavoro, vengono spronate a un passo sempre più veloce, fino a che, senza apparente motivo, si fermano all’ombra di un albero, rifiutandosi di proseguire. Alle esasperate lamentele dell’esploratore, le guide replicano tranquillamente: “Ieri abbiamo camminato troppo veloce. Oggi aspettiamo che la nostra anima raggiunga il nostro corpo”.

In altre versioni della storia quella riportata è la reazione dei locali all’introduzione degli autobus nelle città, in altre ancora si tratta di un passeggero che, dopo il primo volo della sua vita, sta fermo per qualche minuto al gate di sbarco. In una narrazione o nell’altra, la morale della storia non cambia, e ci interroga direttamente su un crescente bisogno di lentezza che si è manifestato con sempre più forza negli ultimi anni.

Nel suo Nel momento (1999), Andrea De Carlo suggerisce che la lentezza sia una sorta di “tiro mancino” da parte della Natura, un’assicurazione per arginare l’ambizione già smisurata dell’uomo limitando la distanza che gli è concesso di percorrere con le sue proprie forze. In maniera del tutto speculare, il filosofo statunitense Henry David Thoreau, in Camminare (Walking, or the Wild, 1863) celebrava il recupero di un passo lento, contrapposto alle nuove, impensabili velocità aperte dalle coeve conquiste tecniche. Nei suoi testi, il camminare diventa una via quasi mistica per vivere davvero il movimento, prestando al contempo attenzione al paesaggio attraversato ed alla propria relazione con esso, in un viaggio “doppio” che conduce più lontano di qualunque treno o diligenza: “Il viaggiatore più veloce è colui che va a piedi”.

Il problema della velocità oggi non si pone quasi più, certo non nei termini espressi da Thoreau, tanto meno in quelli dei fantomatici africani in attesa. È un fatto, però, che all’incremento dei voli low cost è aumentato anche il numero dei turisti-pellegrini con zaino in spalla e scarponi ai piedi, che il boom dei fast food ha portato all’evoluzione dello speculare slow food, che l’auto privata (al netto dei costi di mantenimento) viene giorno dopo giorno soppiantata dai servizi di noleggio di biciclette come mezzo di spostamento privilegiato nelle grandi città. Paradossalmente, più crescono le occasioni di muoversi sempre più velocemente, di raggiungere quindi in un minor tempo possibile la distanza maggiore, più si cerca di rallentare, di riportare i ritmi della vita e del movimento ad un passo più calmo, più, forse, a misura d’uomo, in quella dimensione della “breve distanza” (temporale o spaziale che sia) che De Carlo vedeva come una trappola.

Fermo restando che le due opposte tendenze, anche solo per necessità, non possono che coesistere, vale la pena notare che mai come oggi, con treni a levitazione magnetica che toccano i 600 km/h o più semplicemente connessioni internet a banda larga che aumentano esponenzialmente l’ampiezza di banda dei mezzi trasmissivi, il culto della velocità celebrato dai vari Marinetti e Boccioni ha raggiunto una così completa realizzazione; mai come oggi, al contempo, si fa sentire la nostalgia per tutto ciò che è vicino, semplice, naturale, lento e meditativo.

Si tratta di una pura e semplice paura della novità, che spinge a rallentare per timore di un mondo che non riusciamo più a comprendere nella sua totalità, o ci stiamo finalmente fermando, anche solo per un poco, per permettere alle nostre anime di raggiungere i nostri corpi?

 

Giacomo Mininni

 

[Photo Credit: Tatiana Diakova via Unsplash.com]

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Libri selezionati per voi: giugno 2018!

Si avvicina la stagione della lettura per eccellenza, soprattutto per i ragazzi, liberi finalmente dagli impegni scolastici. Se state cercando spunti per intrattenervi, ecco a voi i nostri consigli. Variate genere e siate aperti anche ai titoli meno interessanti o alle copertine meno accattivanti… La lettura è e deve essere una piacevole sorpresa!

Buon mese di giugno e buon inizio d’estate!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-lo-strano-caso-del-cane-ucciso-a-mezzanotteLo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – Mark Haddon

La voce narrante è quella del protagonista, Christopher John Francis Boone, un giovane ragazzo di quindici anni affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo a causa della quale soffre di problemi comportamentali quali il non sopportare di venir toccato e l’odio per alcuni colori, il giallo e il marrone. La difficoltà di comprendere e relazionarsi con gli altri esseri umani è compensata da straordinarie abilità logico-matematiche: conosce a memoria tutti i numeri primi fino a 7507. Una sera trova il cane Wellington della vicina, la signora Shears, morto e decide di vestire i panni del suo eroe, Sherlock Holmes.

chiave-di-sophia-la-sottile-linea-scuraLa sottile linea scura – Joe R. Lansdale

Texas, estate 1958. Stanley Mitchell, tredicenne, vive in una piccola cittadina che al lettore pare di aver visto tante volte nei film: case di legno, prati verdi, ragazzini che corrono in bicicletta, giovani con il ciuffo mosso dal vento e il risvolto sui pantaloni, tavole calde. Per Stanley quell’estate segna la fine dell’innocenza (à la Stand by Me) e delle illusioni: il mondo dei morti non è così distante da quello dei vivi, le persone sono capaci di uccidere e di compiere violenze inenarrabili, gli esseri umani non sono tutti uguali fra di loro ed i pregiudizi avvelenano le relazioni sociali. La sottile linea scura, dunque, “separa i misteri delle tenebre dalla realtà”.

 

UN CLASSICO 

chiave-di-sophia-il-giovane-holdenIl giovane Holden – Jerome D. Salinger (1951)

Un romanzo di formazione che non stupisce con effetti speciali e vicende sensazionali. Nessun colpo di scena, nessuna grande particolarità, se non Holden Caufield. È questo adolescente demotivato e anarchico, in conflitto con autorità, imposizioni e con se stesso, lui è la particolarità del romanzo. Uno specchio su di noi, sull’essere o esser stati adolescenti con tutte le varie implicazioni quali difficoltà, emozioni, ricerca del proprio senso. Holden si presenta a noi così, diventa un nostro amico, quell’amico in crisi che ognuno ha avuto o è stato, simbolo di un’età complessa quanto stupefacente per ogni essere umano.

 

JUNIOR

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Un gorilla. Un libro per contare – Anthony Browne

Un grande libro illustrato per imparare a contare assieme a tantissimi animali pelosi: gorilla, scimpanzé, macachi.. Divertimento assicurato per i bambini più piccoli. E divertendosi, lo si sa, si impara di più!

 

chiave-di-sophia-cosa-ce-dietro-le-stelleCosa c’è dietro le stelle? – Jostein Gaarder

Se a suo tempo siete stati rapiti da Il mondo di Sofia, vi farà piacere sapere che lo stesso autore si è dedicato anche alla letteratura per ragazzi. In questo libro Gaarder ha messo nero su bianco alcune delle domande con la D maiuscola che noi umani, grandi o piccoli non fa differenza, ci poniamo sul mondo. Da dove viene e chi  ha creato l’universo? Si può fermare il tempo? Ovviamente in queste pagine i vostri ragazzi non troveranno risposte preconfezionate, ma impareranno l’importanza di accettare il fatto che a queste domande si possa rispondere in maniere molto diverse tra loro. Protagonisti del racconto sono Lik e Lak, due bambini che non hanno madre (e quindi nemmeno ombelico) perché esistono da sempre. I due hanno una missione: sbarcare sulla Terra e raccontare a tutti che il mondo in realtà non esiste: esso è soltanto la materializzazione della loro favola preferita. La lettura è adatta ai piccoli filosofi in età della scuola media.

 

Sonia Cominassi, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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De profundis

Cold be hand and heart and bone,
and cold be sleep under stone:
never more to wake on stony bed
till the Sun fails and the Moon is dead.
In the black wind the stars shall die,
and still on gold here let them lie,
till the Dark Lord lifts up his hand
over dead sea and withered land.

Un tale uomo, un tale giorno, chino s’una versione intitolata Suicidio di Sofonisba, ci propose la seguente osservazione: “Ho notato che la maggior parte degli autori latini parla solo di morte”.
Un’intuizione correttamente beffarda.
Non volendo tuttavia, per antica abitudine, dare ragione gratuita al mio interlocutore, rispondemmo: “Cosa intendi dire?”.
“Beh… si parla sempre di guerra, di battaglie, di assedi… di morti insomma”.
Ritornando a casa, le parole del nostro collocutore ci tuonavano nel cervello come un rombo di corno, e ci facevano male alle tempie. Sprofondati nell’oscurità delle nostre notti avare di sonno, ci chiedemmo: “Cos’è la morte?” La fine, ovviamente. “E la vita, invece?” − questa risposta c’apparve meno scontata.

L’umana esistenza non è una linea retta (io credo sia una semiretta, ma non pretendo che qualcuno pensi come me, come in generale non tollero che qualcuno m’imponga di pensare com’egli fa), e su questo si può essere d’accordo.
Ora, con una certa dose di approssimazione, possiamo affermare che essa è un segmento, dotato d’un estremo minimo (la nascita) e d’uno massimo (il trapasso): nel mezzo, la variabile cortina di pioggia del tempo.
Se quest’analisi è corretta, cioè se l’esistenza non è che una parentesi diacronica, come potremmo non affermare che ciò che chiamiamo vita è, in realtà, la morte? O, più correttamente, l’attesa d’essa – cioè l’agonia?

Da secoli gli uomini, almeno nelle lingue occidentali (la lingua è l’articolazione compiuta del pensiero: senza teoresi non c’è lingua, né viceversa) distinguono agonia (dal greco ἀγωνία, “sfida, sforzo”, a sua volta da ἀγών, gara – per estensione “gara contro la morte”) e decesso (dal latino dēcēdo, “ritirarsi”, a sua volta da cēdo, “andare via, sparire” – per traslato “sparire dalla vita”).
Quando diciamo, riferendoci a un malato: “È in agonia”, non intendiamo forse dire ch’egli si trova in articulo mortis, ma, di fatto, ancora non-è morto? E quando qualcuno manca improvvisamente, non diciamo: “Almeno ha avuto un’agonia breve”?
Ora, se l’agonia è l’insieme dei momenti che precedono il trapasso, perché non allargare i confini di questo conchiuso fascio di tempo (che, per autoassolutoria consuetudine, releghiamo all’interno d’una durata di, al massimo, qualche giorno) oltre i suoi limiti tradizionali e consolatori? Perché non ammettere che l’agonia (in quanto attesa certa, perché siamo certi che, tardi o tosto, moriremo) dura in realtà quanto l’intera vita?
Ci spaventa, forse, confessare a noi stessi che stiamo vivendo un’anticamera del trapasso, estesa quanto la sommatoria algebrica d’ogni istante di questo nostro tempo sulla Terra?
Non lo facciamo, perché il pensare alla vita come a un’attesa del decesso ci avvicina troppo alla verità dell’imprevedibile. Manca, dunque, il coraggio della consapevolezza.

Ed è proprio qui che sta il muro della cognizione: nella paura di morire.
Emanuele Severino una volta disse, vado a memoria, che la morte non deve farci paura, perché non esiste, e tuttavia la temiamo – nonostante la verità dell’essere (?!) – perché la confondiamo con il dolore dell’agonia.
Non perderò un solo secondo a commentare il dogma severiniano (absit iniuria verbis), ma la sua citazione m’è utile per notare, piuttosto, che se davvero la paura l’associamo al dolore, allora proprio nell’accettazione della condizione agonica della quotidianità, risiede la salvezza.
Sì!, perché se accettassimo che proprio la vita è il dolore, e che in null’altro consiste il dolore se non nella Leben-an-sich-und-für-sich, e che né l’una né l’altro sono eterni, allora ecco che la paura di morire svanirebbe o, addirittura, si trasformerebbe in speranza (ma non parlerò qui di quest’ipotesi).

Io credo profondamente nella verità dell’agonia.
La sperimento ogni giorno, ogni istante. E, proprio per questo, non rimpiango di vivere. Ogni tanto soffro meno, quando prendo qualcuna delle mie droghe preferite (a ognuno la sua: il calcio, uno strumento musicale, un hobby), ogni tanto soffro di più, generalmente quando avverto il tempo come pungolo nelle carni, e non più come concetto-lato.
Ed è per questo m’è impossibile essere ottimista.
Un ottimista, infatti, crede che un domani ci sarà, sempre e comunque.
E io non lo credo.
E tuttavia, per la stessa verità, non posso neppure dirmi pessimista.
Un pessimista, infatti, pensa che un domani non sorgerà, in ogni caso.
Io, invece, non lo escludo.
Io sono un banale possibilista.
Perché non so se un domani verrà. So tuttavia che, se verrà, sarà un’agonia, come la notte d’inverno che arriva senza una stella.
Così, d’altronde, è oggi; così è stato ieri; cosi furon i secoli d’ogni era, sin dall’istante in cui, quel lontano giorno, scendemmo dall’albero.

De profundis clamavi!

 

David Casagrande

 

[L’immagine di copertina riporta un’opera di Caspar David Friedrich; tratta da Google Immagini]

 

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I “Pensieri” di Marco Aurelio e la cura dell’imperatore

Marco Aurelio, uno degli imperatori più stimati dell’antichità, nella sua solitudine, lontano dalle corti e dalle battaglie, soleva scrivere in questo modo:

«Presto dimenticherai tutto; presto ti dimenticheranno tutti»1.

È solo uno delle centinaia di aforismi che l’imperatore scrisse, senza alcun nesso fra loro, ordine, scopo o destinatario. Fuggendo il chiasso dei senatori, il rombo delle armi e lo stridio del cavalli, le pagine che Marco Aurelio ci ha lasciato sembrano impregnate dai lunghi respiri che l’imperatore doveva prendersi, prima di ritornare ai suoi doveri. L’uomo più potente dell’impero si consolava della sua esistenza con l’inchiostro e la pergamena, ogni volta che poteva. L’opera di Marco Aurelio esiste perché alcuni sconosciuti decisero di organizzare i suoi scritti, e solo in seguito nacque il titolo come lo conosciamo oggi, A se stesso.
La mancanza di un ordine chiaro dei suoi pensieri ha reso quest’opera la più libera, che possa mai capitare fra le mani di un lettore: la si può sfogliare a caso, tornare indietro, e poi volgersi verso la fine del libro. Si troveranno consigli su come vivere, comportarsi con gli altri (soprattutto con chi ci odia), sulla necessità della calma, l’inutilità della rabbia, la pazienza nel non fomentare la malvagità altrui, la consapevolezza delle cose effimere.

Nel caos delle sue massime, si trova tuttavia un elemento che spicca fra tutti, e che spesso si ripete.

«[…] in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; […] Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati»2.

Nei memoranda che Marco Aurelio lasciava proprio a se stesso, per resistere alla vita stessa, si scopre che la via da seguire può essere tracciata solo a partire dalla propria interiorità.

«Scava dentro di te; dentro è la fonte del bene, e può zampillare inesauribile, se continuerai a scavare»3.

L’imperatore si aggrappa continuamente a sentenze di questo genere, perché l’interiorità è l’unico luogo in cui si ritrova la mappa delle strade da percorrere.
Marco Aurelio visse dal 121 d. C. al 180 d. C., non conobbe ritmi frenetici, rumori assordanti e continui, né il fenomeno della massa che ingurgita l’identità dell’individuo. Marco Aurelio, in sostanza, non poteva prevedere il nostro secolo e i suoi mali, eppure propone l’unica cura possibile, o almeno, quella che adottò egli stesso. Contro lo smarrimento per essere stati trascinati troppo a lungo dagli eventi, dalle passioni e dai propri sogni, bisogna riappropriarsi di se stessi. Che sia il silenzio, lo sfrigolio di una penna, o qualsiasi altra cosa, l’unica conquista da compiere è quella del proprio tempo, poiché soltanto così si ritrova il proprio equilibrio, il proprio senso.
Non si tratta di parole di solo conforto, ma si basano su un principio logico-filosofico ben preciso: fra la natura, l’anima umana e gli eventi del mondo esiste una legge, che interconnette ogni cosa, anche se gli uomini non la comprendono.
«O un universo perfettamente ordinato o un ammasso casuale, ma pur sempre un ordine. Come potrebbe esistere in te ordine e nell’universo disordine? Specialmente considerando che tutte le cose sono ben distinte le une dalle altre eppure fuse insieme e in reciproca armonia»4.

Sebbene l’imperatore sia ben consapevole di non potere capire la ragione dell’armonia, egli si rifugia continuamente dentro di sé per ritrovarvi i semi che vi ha lasciato: solo in questo modo, si può essere coscienti di ciò che è effimero, e ciò che non lo è.
Marco Aurelio scriveva a se stesso e, senza saperlo, avrebbe teso la mano a sconosciuti di epoche per lui inimmaginabili, rispondendo ai dubbi e alle domande di chi lo avrebbe letto.
Questi sono solo alcuni dei motivi per cui bisognerebbe continuare a leggere Marco Aurelio. Che le si sfogli distrattamente, o le si divori riga per riga, le pagine dell’imperatore custodiscono rimedi imperituri all’unico male dell’individuo: la perdita del sé, inghiottito dai fatti del mondo.

Vi è un ultimo elemento da sottolineare. In assenza di un obiettivo chiaro, gli aforismi sono di fatto molto simili fra loro, in alcuni momenti persino ripetitivi. Tuttavia, spiccano le prime pagine del Libro I, perché diverse da tutte le altre. Non sono altro che dediche fatte dall’imperatore a tutte le persone che lo hanno amato e ispirato, dai familiari ai propri maestri. Di ognuno, Marco Aurelio ricorda, soprattutto, il motivo per cui è debitore: da alcuni ha imparato la clemenza, la bontà, da altri la severità, i precetti morali ecc… Se volessimo dare un nuovo titolo a queste pagine, sarebbe forse Il libro della gratitudine, poiché siamo ben poco, se ci districhiamo dai legami con altre anime, se ci svincoliamo da ciò che abbiamo dovuto affrontare, anche nostro malgrado.
La gratitudine è uno sforzo di memoria, di riconoscimento di sé, un atto di volontà di pace, ed è così che si apre ciò che potremmo definire il diario di un’anima così temuta, potente, che aveva bisogno di nascondersi in se stesso, come la tartaruga nel suo carapace, per godere della saggezza di cui il mondo scarseggiava.

 

Fabiana Castellino

NOTE:
1. Marco Aurelio, Pensieri, Mondadori Editore, Milano 1994, p. 84
2. Ivi, p. 35
3. Ivi, p. 90
4. Ivi, p. 41

[Photo credits: Elisabella Foco su Unsplash]

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Quando la memoria spezza l’Io: tra Aristotele ed Ernaux

Aristotele, nel De anima, suddivide il processo conoscitivo in tre stadi: sensibile, immaginativo e intellettivo. Mi voglio soffermare sul secondo stadio, l’immaginazione (o phantasia), in particolare sul concetto di phantasmata. Possiamo tradurre questo evocativo termine con la parola “immagine” – intesa come una sorta di fotografia mentale che riproduce all’interno del nostro cervello, grazie alla mediazione degli organi sensoriali, oggetti e soggetti esterni a noi. Tale sembianza viene poi elaborata dall’intelletto, completando così la procedura conoscitiva.

Nel romanzo Memoria di ragazza (L’orma editore, 2017) la scrittrice francese Annie Ernaux ci fornisce un phantasmata di se stessa nel passato, “la ragazza del ‘58”, così come si (e la) chiama lei. La Ernaux prende le distanze, si stacca dalla 18enne che è stata e questo suo alter ego passato aleggia – proprio come un fantasma – tra le pagine di quest’opera autobiografica. Quando non si chiamava ancora Ernaux ma Duchesne (il suo cognome da ragazza), alla viglia della maggiore età la scrittrice trascorse parte dell’estate presso una colonia estiva in Normandia lavorando come educatrice.
Per la prima volta si ritrovò lontana dalla sua rassicurante casa, dalla protettiva “morsa” dei suoi genitori – e si diede alla pazza gioia. Scoprì il sesso, un oscuro arcano, una pratica confusa che ebbe su di lei, ragazzina inesperta e ingenua, un impatto doloroso, totalizzante, umiliante. Annie s’invaghì di H., un educatore più grande, ritrovandosi in un batter d’occhio ad essere completamente soggiogata da lui.

«Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri […]. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose».

Questo è l’incipit del libro, che descrive alla perfezione l’esperienza sentimental-sessuale che sconvolse la vita della giovane Annie.
Tuttavia, non è quest’esperienza a dominare nel romanzo.
Ciò che domina è il tentativo, compiuto dalla scrittrice, di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto». Il tempo scorre e guardandoci indietro, alla ricerca di noi stessi, troviamo solo dei fantasmi, lontani dal nostro io presente nello spazio e nel tempo.
Per compiere quest’impresa la Ernaux deve dissociarsi da se stessa, decostruirsi: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Osservando una sua vecchia foto dell’epoca si getta a capofitto nei ricordi. Annaspa, ma questo è l’unico modo per tentare di carpire chi è stata, per raccontare e nel contempo rimembrare. È così che si accorge che il tempo, scorrendo inesorabilmente, sedimenta senza sosta strati e strati di ricordi di esperienze vissute, andando a modificare il nostro io. E «scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni».

Togliendo quegli strati si verifica nella Ernaux una scissione dell’io: da un lato c’è l’io presente, consapevole di tutto ciò che ha vissuto; dall’altro lato un io scevro di ricordi – quelli dal 1958 in avanti. Quest’ultimo io è la “ragazza del ‘58” che la Ernaux cerca di riesumare; ma questa operazione di recupero è ardua, stancante, alienante. Per quanto la scrittrice si sforzi, ella si rende conto, nel corso della stesura del romanzo, che non potrà mai tornare ad essere quella che è stata. Come fare, allora, a raccontare un fantasma? Eppure quel fantasma «è reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S», ossia della colonia.
Leggendo Memoria di ragazza, ci accorgiamo di quanto sia perturbante rendersi conto che non siamo più chi siamo stati. Un abisso sedimentato di memorie separa la nostra esistenza passata da quella presente.

Qual è, dunque, il legame fra questi due poli che siamo e al contempo non siamo? Il legame è rappresentato solamente dal nome e dal cognome o dai nostri connotati fisici? E cos’è davvero l’io e come possiamo identificarlo e riferirci a esso, se esso continuamente, ad ogni secondo in cui il tempo avanza, si spezza diramandosi in diverse direzioni?
Chi studia e bazzica la filosofia, però, lo sa bene: infinite sono le domande, ma sconosciute – spesso – restano le risposte. Si procede per tentativi, ma potrà essere frustrante. Ma ci può anche capitare di stupirci rendendoci conto che anche noi stessi siamo i phantasmata di cui parla Aristotele. Io sono, e proprio essendo mi lascio dietro delle incorporee rappresentazioni di me stessa che potrò osservare come si osservano delle vecchie fotografie, con la distanza a mediare fra ciò che ero e ciò che sono. Esistere significa proprio stare in bilico su questa spaccatura, accettare il fatto che siamo soggetti “spezzati” e che il tempo ci oggettivizza, continuamente. Del resto, se la realtà è nel qui ed ora, va da sé che non è possibile afferrare compiutamente la memoria di ciò che eravamo.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

la chiave di sophia 2022