Il filosofo in tv

Filosofia e televisione parrebbero due universi paralleli. Sarà perché la Filosofia non è proprio telegenica di natura: forse ciò è dovuto al medium (come direbbe McLuhan) o forse perché la Filosofia per natura è un po’ snob, elitaria e sicuramente non ama mischiarsi con il mezzo che è pop (ovvero popolare) per natura.

Così in TV la Filosofia c’è ma a piccoli dosi. Si veda quanto fatto in RAI: la RAI ha un paio di programmi esplicitamente e dichiaratamente filosofici. Stiamo parlando di Zettel e del suo spin-off Il caffè filosofico. Entrambi sono mandati in orari impossibili notturni e ora rilegati alle rete pedagogiche della RAI. Sempre a tarda notte e confinati tra le signorine calde e i film infiniti ungheresi. La Filosofia è una cosa per pochi, un lusso, un vizio. Per certi versi anche un feticismo: perché non saprei bene, da laureata in Filosofia, come e perché dovremmo preferire una lezione frontale su John Rawls ai film di RAI 3 o di RETE 4.

Comunque la televisione italiana ha accettato, e da quello che so è forse una delle poche nel panorama europeo, di buon grado la figura dei filosofi. Anzi del filosofo. Sto parlando in particolare di un filosofo. Il testimonial vivente della Filosofia che da vero corsaro assalta i diversi contenitori più o meno generalisti televisivi. Il nostro filosofo ha pure la barba folta come già gli Antichi Greci ci hanno insegnato essere un dettaglio essenziale. Se la toga non fa il monaco, la barba fa quasi sempre il filosofo.

Comunque molti non avranno letto i saggi del nostro filosofo, ma sicuramente il suo nome è noto anche a chi se pronunciate il cognome Kant, associa la bella e bionda Eva invece del nome del prussiano Immanuel.

Non c’è bisogno di presentazioni in questo caso. Ci basta menzionare la sua barba scura, gli occhi felini verdi, il cashmere giusto e la R moscia per sapere di chi stiamo parlando. Poco importa cosa abbia scritto di preciso, per tutti lui è il filosofo.

Stiamo parlando del filosofo della televisione italica. Ben diverso dai critici d’arte che popolano l’etere che si alternano tra iracondi e virili uomini e più rilassati e simpatici signori di mezza età. Il filosofo, invece, ha sempre due caratteristiche imprescindibili per il ruolo che veste e interpreta (benissimo) da anni in televisione.

La prima caratteristica è l’essere sempre in collegamento. Pochissime volte egli discende tra noi mortali e parla in studio con il conduttore o più spesso conduttrice adorante che lo guarda come il devoto prega e adula il dio aristotelico. Il dio di Aristotele è amato, ma Egli non ama nessuno indietro. Così il nostro filosofo vive sperduto da qualche parte, sempre altrove, sempre trascende il nostro spazio e forse anche il tempo. È una creatura leggendaria, un unicorno (come ora vanno tanto di moda), un essere misterioso che profetizza e parla del mondo che osserva disincantato. Non pare avere legami con la realtà che è banale, triviale e anche noiosa.

Infatti e qui arriviamo alla seconda qualità dell’uomo dalle infinite qualità, il filosofo sa. Sa tutto. Ha già da sempre detto, sentenziato e soprattutto la sua voce non pronuncia mai il falso. Il filosofo non erra mai. Non chiede scusa, non accenna al dubbio cartesiano o amletico o anche solo umano di poter non sapere qualcosa. Egli sa. Sempre.

Il filosofo è stanco, rassegnato, insofferente al mondo di uomini tanto stupidi, cretini come criceti su una ruota ferma, che tanto si affannano per sbagliare sempre. In continuazione. Il proverbio latino “Errare humanum est” è una peculiarità umana che stizza il filosofo che invece punta agli astri e non guarda il dito umano che pur sempre ha il merito di segnalare una cosa meravigliosa e bella.

Il filosofo, invece, è un uomo che è costretto a fissare non la Luna o le stelle, irraggiungibili come lui, ma questi esseri che sono fatti di carne e budella.

La sua posizione aldilà dallo schermo lo rende una creatura pressoché immortale. Un essere che non è legato al nostro mondo. O alle nostre regole. Egli è la creatura della trascendenza. Dell’oltre la soglia. Molto pitagorico tutto ciò: si narra, infatti, che il grande maestro solesse tenere lezioni ai novellini e discepoli da dietro una tenda perché quegli aveva passato la misteriosa soglia che rende il primo un saggio e gli altri ignoranti. Così il filosofo della tv italiana ci ricorda che se il mondo dello spettacolo è finzione e inganno, lui è ancora oltre a tutto questo.

Infatti la sua posizione u-topica (nel senso greco del termine, ovvero senza luogo) lo rende un personaggio unico nel suo genere del panorama televisivo. Egli c’è e non c’è.

Forse gli umani e spettatori non avranno tutte le risposte, ma sono esseri umani appunto che guardano al filosofo come il Mago di Oz si presentava all’ingenua Dorothy Gale. Nel celebre film del 1939 la piccola Dorothy una volta arrivata al cospetto del potente Mago di Oz si trova di fronte ad un enorme faccione. Un po’ come il nostro filosofo in collegamento. Solo grazie ad un imprevisto si scoprirà che anche il Mago, il potente stregone, altri non è che un uomo. Un uomo nemmeno tanto potente, ma solo tanto intelligente da far credere agli altri che lui poteva qualcosa che gli altri non credevano di saper fare.

In questo caso pensare.

 

Claudia Lisa Moeller

Claudia Lisa Moeller è nata a Milano nel 1992. Ha studiato Filosofia presso l’Università San Raffaele (Milano), dove ha conseguito la sua laurea BA e MA. Entrambe le sue tesi erano su Kierkegaard. I suoi temi di ricerca sono Kierkegaard, Hamann ed ermeneutica televisiva.

 

[Photo Credit: Cater Yang via Unsplash.com]

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Sulla tv aveva ragione Popper?

Tra le opere più studiate di Karl Popper spicca il testo Una patente per fare tv (1994) meglio conosciuto come Cattiva maestra televisione, un saggio che mira alla messa al bando della neonata televisione, considerata nociva addirittura ai fini della realizzazione della democrazia. La tesi portante dello scritto identifica la televisione come un mezzo di comunicazione che educa alla violenza. Questa considerazione non deve apparire esagerata: Popper si avvale della testimonianza di alcuni responsabili di atti criminali, i quali hanno ammesso di aver agito ispirati da scene e situazioni viste in tv.

Al di là di questa considerazione, centrale nell’opera ma allo stesso tempo molto specifica, le osservazioni del filosofo si fanno più ampie, e giungono a riflettere sulla qualità della programmazione televisiva, che come può essere intuito, a sua detta è scadente. La causa individuata da Popper è molto vicina a quello che è anche il mio pensiero: il sensazionalismo. Ovvero, per mantenere l’audience, le reti televisive cercano di catturare la nostra attenzione facendo leva sul nostro coinvolgimento emotivo. E in effetti, sempre più di frequente, si può assistere a scene di commozione collettiva che coinvolgono anche i conduttori stessi dei programmi, i quali non troppi anni fa si mantenevano invece composti e distaccati. Probabilmente in pochi anni, a causa anche dell’avvento delle pay-tv, sono cambiate le dinamiche dell’intrattenimento e attraverso questi piccoli accorgimenti ai limiti del patetico forse si ottengono migliori risultati nelle analisi auditel.

Una questione importante su cui vorrei soffermarmi è la famosa fascia protetta. Mi sembra infatti che non venga sempre rispettata. Certi programmi, che talvolta ammetto di guardare per curiosità e per “interesse antropologico”, possono essere ben più fastidiosi (oltre che mal fatti) di qualche scena di intimità fisica e risultare dunque poco appropriati agli occhi di un pubblico di telespettatori inesperti lasciati da soli con il telecomando in mano. Ma in fin dei conti, siamo nel terzo millennio, il millennio che ha elevato a moda l’eliminazione di ogni tipo di tabù, sulla scia della libertà di espressione e della libertà di parola, che erano però state concepite e sbandierate in maniera decisamente diversa. Oggi si può e si deve parlare di tutto, corpo, affetti, religione. Non importa in quale sede. Chi si scandalizza più? Che poi… Possiamo ancora considerarci in grado di scandalizzarci o l’indifferenza e il pensare per sé la fanno da padrone? Riservatezza, pudore e timidezza sono caratteristiche da outsiders?

Ma il mezzo televisivo non è sempre da spegnere! Un esempio tra tutti risale agli anni ’60, quando in Italia la tv stava svolgendo un’importantissima opera di vera educazione di massa. Grazie alle lezioni di italiano della trasmissione “Non è mai troppo tardi”, il maestro Manzi, con l’appoggio del Governo, istruiva nel vero senso della parola decine di migliaia di telespettatori analfabeti e contribuiva in maniera esemplare all’unificazione linguistica della realtà italiana, di fatto esistente ancora soltanto da punto di vista geopolitico.

Tornando al testo di Popper bisogna dire che, letto al giorno d’oggi, chiaramente non riesce ad essere efficace nel suggerire il rifiuto o l’inutilizzo della televisione o degli altri mezzi di comunicazione di massa. Primo perché la loro comodità ed accessibilità sono indiscusse; secondo perché altrimenti potremmo apparire di fatto mal inseriti in questo gigantesco-piccolo mondo dove le informazioni viaggiano alla velocità della luce.

La sua attualità consiste dunque nell’essere un promemoria per l’essere umano: ci ricorda di utilizzare la tv e gli altri mezzi in modo consapevole. Ho in mente un utilizzo che sia prolungamento e arricchimento della vita, che non la sostituisca. Penso ad un utilizzo che non degeneri ad essere inteso, come a volte accade, come dimensione unica della vita. Penso ad un utilizzo della tv che non ci abbruttisca, che non ci rinchiuda in noi stessi, nelle nostre case, con i nostri display di fronte a mo’ di Fahrenheit 451, magari a commentare instancabilmente i nostri programmi preferiti a suon di app ufficiali o hashtag preconfezionati. Penso ad un utilizzo che non sia inteso come passatempo a cui scaricare i più piccoli, per sollevare i genitori o gli educatori dai propri compiti e doveri. Penso ad un utilizzo dello smartphone che non ci faccia incorrere in multe o semplici distrazioni perché troppo occupati dalla ricerca di un Pokemon.

Mi pare anche superfluo e banale il ricordarlo, ma l’autenticità del vivere viaggia su ben altro livello!

 

Federica Bonisiol

 

Qui un breve documentario sul Maestro Manzi.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Per Anna Marchesini, attrice dalla vita “obesa di vita”

Nel 2014, rivolgendosi a Fabio Fazio che le chiese quale fosse per lei il senso della vita (una domanda facile, vero?!), Anna Marchesini, ormai straziata dall’artrite reumatoide, con una parlata strascicata ma dignitosa, quella di una grande persona e di una grande donna – una di quelle creature che non si arrende, e non vuole farlo, che vive di futuro come chiunque altro vivrebbe di ossigeno – rispose con una di quelle frasi che, se ascoltate, non può che cambiare il tuo modo di vedere le cose: «Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa di vita che mi interessa pure la morte, che di essa è il finale e non è detto».
Da allora, questo divenne il mio motto – e mi risultava anche facile applicarlo, essendo io un ciccione. Ecco Anna, sono stato autoironico, sei fiera di me? Lo so che, da dietro quel sipario di broccato che chiamano “morte”, mi hai sentito.

Fu da quell’intervista che chi scrive capì che Anna Marchesini andava conosciuta appieno, e non solo come (pur eccezionale) attrice di varietà, di teatro, di televisione.
Comprai il suo romanzo Il terrazzino dei gerani timidi e lo lessi d’un fiato. Lo feci per curiosità, perché mi torturava una domanda, riguardo questa donna, che allora ricordavo “solo” per quei video che trovi su YouTube vestita da sessuologa o da Lollobrigida, da cartomante o da cameriera-secca-dei-signori-Montagnè: come può Anna, trovare la serenità nella sofferenza fisica? Dopo una vita che le ha dato così tanto, la malattia non l’ha forse infiacchita per sempre?
La risposta mi venne leggendo questa frase: «Respiravo profondamente l’aria della sera, si trascinava dietro un tiepido profumo di gerani, mi assalì il timore che tutto sarebbe rimasto identico e immutabile come quei vasi indifferenti, nulla era certo – mi dissi – ero stanca, quel difficile esercizio di equilibrio, in bilico tra l’infanzia, il presente e il futuro remoto, aveva incredibilmente moltiplicato il tempo […]. Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo».

Sono le piccole cose. Ecco il segreto per la felicità. Non lamentarsi per quello che non si ha più – o di quello che non s’avrà mai – ma gioire di quello che c’è. Fu la prima lezione di esistenzialismo della mia vita. E non m’era giunta da un grande filosofo, ma da una divertente attrice e delicata scrittrice.
La protagonista del romanzo non è Anna Marchesini, ma è una donna che le somiglia molto, indubbiamente, e per sua stessa ammissione; la grande attrice sublimava sé stessa, ultimo glorioso esercizio di metodo Stanislavskji, nelle vite degli altri; perché questo era per lei essere-Anna-Marchesini: vivere la propria vita per (e con) la vita-degli-altri. Ed ecco perché Anna non poteva che essere un’attrice, la più grande, la migliore.

Parlando con i ragazzi del Liceo Artistico “Ripetta” di Roma, nel 2008, la Marchesini disse: «Mi ero iscritta a psicologia, ma divenni attrice perché andando all’università in treno, vedevo sempre una finestrella accesa. Madonna, avevo una curiosità e mandavo una sfoglia di me a guardare. Mi immaginavo una donna che faceva il caffè, una camera da letto dopo che due persone avevano finito di stringersi, una ragazza che rincasava tardi, oppure uno che era in bagno a spingere e basta! Io mi immaginavo cose meravigliose. Avevo una passione per la vita-degli-altri, e io ci volevo guardare dentro. Avevo un voyeurismo ginecologico per la vita degli altri».
È così che nascono le grandi passioni, da grandi curiosità personali… che poi, nel progredire della storia dell’Universo, non sono che piccole meraviglie quotidiane. La giovane orvietana Anna, che ogni mattina si recava a La Sapienza per seguire le lezioni di Psicometria, si meravigliò di una lampadina accesa, e divenne Anna Marchesini – non è ironico? Lo è, e lei, anche raccontandolo, faceva di tutto perché apparisse tale.

Indipendentemente dal valore filosofico delle sue parole (valore di cui la Marchesini era perfettamente consapevole, e in cui si crogiolava: «D’altronde da bambina volevo essere il Messia donna!» disse nel 2008), Anna aveva una missione, e una volontà precisa: essere ironica – sempre e comunque. Sentiva come suo il compito di strappare un sorriso, un momento di gioia, di esilio dall’abisso dell’anima quotidiana: e per far ciò, lo aveva capito ben prima del grande successo con Il Trio, occorre necessariamente prendere in giro l’ordinario, ridicolizzare (con eleganza e intelligenza, però) la grande mitologia, portare all’estremo i tabù di una società, quella italiana in particolare.
Ed ecco spiegati la sublimità della parodia dei Promessi Sposi e personaggi immortali come la Signorina Carlo, inviata – con tanto di cofana à là Moira Orfei – da Quelli che il calcio… a commentare improbabilmente partite di pallone, di cui a malapena capiva regole; o come la sessuologa Merope Generosa che, al momento di pronunciare le parole più “sconce” tipiche della sua professione, si imborghesisce a tal punto da sostituire il termine “pene” con “malloppetto ciccioso e pendulo” e “ragazze che hanno rapporti pre-matrimoniali” con “zozzone sporcaccione”; o come la cartomante Amalia che – con esagerato accento romanaccio – invitava i suoi ascoltatori a telefonare e a “non porcastinare inoltre il tempo perché le linee ponno ésse ingorgate, ma la regia mi trasloca un buzzicone ch’ha acchiappato aa linea”.

Maestra di meta-teatro, Anna era fieramente donna, e donne erano i suoi personaggi, sempre e comunque: donne che si rapportano all’uomo, ridendo e prendendolo (e prendendosi) in giro, perché la vita è esattamente questo: autoironia, umiltà, abbandono. Maschera di sé stessa – perché la sua vera lei erano appunto le maschere – ci lascia cosa, se non un sorriso, una risata, forse una piccola lacrimuccia?

Ma forse no!, lei non vorrebbe che piangessimo: la morte è la fine, ma non è detto… perché, anche nel dolore e nella malattia, da vera maestra di esistenzialismo teatrale, Anna sapeva perfettamente che la situazione è grave, ma non è seria.
Solo che se in politica questa frase è un’accusa esplicita ad atteggiamenti vergognosi, nella vita di tutti giorni, sul palco della nostra storia particolare, e dietro le quinte dell’esistenza, è un valore, e si chiama leggerezza.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

La ‘voce’ come espressione dell’unicità umana

Era il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato.
(F. Scott Fitzgerald)

La voce rimane sempre in sordina, non viene mai messa in primo piano, tutti ce ne dimentichiamo eppure è il nostro più potente mezzo di comunicazione.

Quanto influisce veramente la voce nella vita di tutti i giorni?

Moltissimo. La voce, o meglio il tono della voce, fa la differenza, perché sottolinea in modo marcato l’efficacia, la credibilità, il ricordo di un messaggio e di chi lo interpreta.

La voce è un “lavoro” complesso di più parti del nostro organismo che si organizzano come un’orchestra e danno vita alla comunicazione più avanzata che l’essere umano abbia. Si pensa addirittura che anche il pensiero sia elaborato dal nostro cervello attraverso i suoni.

La voce è fondamentale in quanto trasmette emozioni e sensazioni differenti ma non deve essere incerta perché il ricevente potrebbe confondere l’intenzionalità del mittente. Questa importanza è ben conosciuta a livello politico dove il carisma si misura soprattutto dal tono della voce che può infondere sicurezza, profondità, prudenza, fascino, andando così ad “identificare” la persona stessa.

In ambito filosofico raramente troviamo riflessioni sull’elemento concreto “voce”, a fronte di innumerevoli ricerche intorno al concetto astratto di Uomo, quando invece possiamo trovare uno stretto legame tra il concetto di voce e l’ontologia, in quanto il primo ha la capacità di esprimere la vera identità di una persona, rendendola in tal modo unica.

Forse nella mitologia classica alla voce era riconosciuto un qualche potere, basti pensare alle sirene che con il loro canto cercavano di ammaliare Ulisse che si dovette addirittura legare per resisterle: in questo caso la voce ha avuto il ruolo di protagonista, in quanto le è stato riconosciuto il potere di circuire per un motivo ben preciso, visto che, come disse anche Socrate, ognuno ‘usa la voce’ a seconda dell’interlocutore che si trova di fronte, proprio perché viene riconosciuta, seppur inconsciamente, l’unicità dell’essere umano.

Il tema, però, di unicità legato al concetto di voce, non è mai stato ben visibile, seppure diversi pensatori nel corso della storia vi si siano avvicinati; un esempio è Levinas che vede l’espressione dell’unicità nel volto dell’Altro mentre l’aspetto vocale è relegato nel concetto di relazione oppure Aristotele che riconosce al logos la “vocalità” ma dà maggiore importanza al significato, considerando proprio questo l’elemento di differenza tra l’uomo e l’animale (anch’esso dotato di foné ma non di semantiké).

Socrate stesso, all’apparenza, vive per la sua vocalità, parlando nelle opere di Platone, eppure sarà proprio quest’ultimo a screditare la proprietà vocale considerandola un mero involucro da buttare perché solo il contenuto è da considerare meraviglioso.

Come si vede, la voce è sempre comparsa nella storia della filosofia ma difficilmente è stata concepita come fondamentale proprietà dell’uomo per comunicarsi.

Oggi le cose sono forse diverse e il principio del cambiamento può vedersi nel teatro già a partire dall‘800 dove il tono della voce nelle opere liriche era di fondamentale importanza per trasmettere, anche in lingue diverse, le emozioni dei personaggi che costruivano l’intera storia.

Anche la comunicazione odierna nel campo del marketing si è evoluta, andando sempre alla ricerca di una vocalità convincente, forte, carismatica per pubblicità, spot o quant’altro; così come al cinema la tonalità della voce decreta la riuscita di un film perché, come una canzone, mantiene integra nella memoria dello spettatore una battuta, una scena, un’immagine che viene raccontata.

Eppure tutto questo dovrebbe essere sempre così evidente!

La voce è il primo contatto che abbiamo con nostra madre dall’interno della pancia, un contatto sonoro che noi siamo in grado di riconoscere non appena nasciamo.

La voce è la colonna sonora delle nostre vite, ciò che è in grado di entusiasmarci ma anche di allarmarci e spaventarci, un suono che ci accompagna sempre e che aiuta le immagini, le realtà, gli eventi che vediamo e viviamo ad imprimersi nella nostra mente per sempre.

Valeria Genova

Per approfondimenti consiglio questa lettura: Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale Feltrinelli, 2003.

La danza: l’arte contro il pregiudizio. Intervista a Leon Cino

Siamo abituati a guardare la televisione in modo passivo, ad osservare delle immagini che si muovono, sempre pronti a giudicare con la convinzione che il telespettatore abbia sempre ragione; non ci soffermiamo mai a capire chi si celi davvero dietro le persone che vediamo lavorare dentro quella scatola di fronte a noi, a conoscere le loro storie, i motivi che le hanno spinte ad addentrasi in un mondo dorato quanto spietato, capace di darti tanto ma anche di toglierti tutto.

Noi de La chiave di Sophia abbiamo avuto il piacere di conoscere più da vicino Leon Cino, ballerino, famoso ai più per avere vinto la terza edizione di Amici ed essere stato uno dei professionisti di ballo della trasmissione per diversi anni. Abbiamo scelto proprio lui perché si è sempre dimostrato una persona ligia al senso di dovere e responsabilità, mettendosi in gioco con umiltà e rimanendo sempre al suo posto con discrezione. Qualità che lo hanno aiutato nella vita come nella professione e che devono essere da stimolo per i giovani di oggi qualunque ambito lavorativo vogliano intraprendere.

1- Leon Cino, classe 1982, ballerino. La tua terra d’origine è l’Albania, paese che spesso si sente nominare per i flussi migratori che investono l’Italia: come hai vissuto, appena arrivato qua, l’essere albanese con i pregiudizi delle persone ipnotizzate dai mass media?

I media hanno un ruolo molto importante come anche le statistiche, credo però che tocchi a noi informarci più a fondo. Dico questo per esperienza personale: finché sei parte di una statistica la gente giudica a seconda della notizia/statistica; dopo averti conosciuto, ti apre le porte della sua casa.

2- La danza è la tua passione: quando e come è nata?

Non sapevo che questa sarebbe stata la mia passione: una sfilza di eventi mi hanno portato ad amare il ballo. La prima di tutte e forse la più ovvia è che la danza può essere tutto: divertimento, amore, spettacolo… e di questo te ne rendi conto da solo. Poi aggiungi la passione trasmessa da chi prima di te l’ha amata ed ecco che la fai tua per sempre.

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3- Purtroppo a volte chi non conosce il mondo della danza da vicino, vive con pregiudizio il binomio danza-uomo. Tu hai mai avuto difficoltà nella vita a causa di questo sciocco pregiudizio? Se sì, come hai reagito?

Sì, qualche evento qua e là, ma non di grande rilevanza; ho imparato che con chi ha una piccola fiamma di pregiudizio basta soffiarci sopra ed essa si spegne. Anche perché in fondo tutti da adolescenti portiamo l’amica a ballare alle feste delle medie o delle superiori o in discoteca…quindi perché avere pregiudizi?

4- In Italia hai partecipato ad un talent show, Amici: perché un ballerino di talento sceglie una trasmissione televisiva piuttosto che un teatro per esibirsi?

Sempre per una serie di eventi e un misto di: voglio provare un’avventura nuova, voglio allargare le mie vedute e così via!

5- La danza in televisione viene, secondo te, capita fino in fondo dal telespettatore che la guarda oppure è semplice e puro spettacolo?

Credo che la televisione, come il teatro e come il cinema, sia una sorta d’intrattenimento: fa passare il tempo al pubblico. Il telespettatore poi guarda all’intrattenimento in modo personale interpretandolo a modo suo, dunque capendolo o meno. Certo, però, che la televisione non posso metterla a confronto con un’esibizione dal vivo.

6- Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

Tra le molte cose, posso parlare del bagaglio professionale che mi porto dietro da Amici: avere conosciuto e avere lavorato con persone che fanno il mio stesso mestiere, ognuna con particolarità diverse! Questo ti arricchisce moltissimo.

7- Il talento: c’è chi dice che sia innato e pochi ce l’abbiano, chi, invece, ritiene che sia qualcosa che tutti possiedono, basta scoprirlo e allenarlo. Tu cosa pensi e perché?

Ho letto un articolo che parla dei geni: tutti noi abbiamo qualcosa che ci portiamo dietro fin dalla nascita e gli effetti ambientali e culturali ci plasmano; la ricerca sui geni non è stata ancora completata, per questo al momento si pensa che l’effetto ambientale sia quello predominante. Io sono d’accordo: nasco ballerino? Forse sì o forse no, ma se sin da piccolo il contesto in cui vivo mi offre la possibilità di fare alcune cose basilari per il ballo (per esempio la spaccata) allora sono “portato” a ballare, perché gli elementi ambientali che mi circondano mi conducono spontaneamente verso quella disciplina, se invece sono io a decidere di fare il ballerino allora devo imparare a fare quelle cose e la spontaneità lascia il posto al dovere.

8- In Italia quanto conta l’essere raccomandati e quanto invece il merito?

Ci sarebbe molto da dire. In un investimento senza criterio su una persona la raccomandazione vale molto più del merito, in un investimento con criterio senza dubbio vince il merito.

9- La danza è dare forma allo spazio vuoto che ci circonda, riempiendolo di emozioni e sensazioni del proprio vissuto. Tu quando balli porti te stesso che rappresenta il personaggio da interpretare o diventi un tutt’uno con il personaggio stesso?

Entrambe! È proprio per questo motivo che la nostra professione porta dietro molte difficoltà! Per trasmettere quello che è il personaggio lo devi interpretare diventando quel personaggio; se hai dei dubbi e ti mostri esitante il pubblico se ne accorge subito.

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10- La danza è pensiero e permette di riflettere su molti temi delicati con la sola forza del corpo. La filosofia è anch’essa pensiero e permette di riflettere sulla vita con la sola forza della mente. Danza e filosofia sembrano entrambe discipline così astratte da non essere minimamente prese in considerazione dalle persone concrete e pragmatiche. Perché, a tuo avviso, la gente è riluttante nei confronti di tutto ciò che permette di riflettere, come la danza e la filosofia?

A causa dei tempi che corrono. Le persone ora hanno bisogno di concretezza e devono toccare con mano; io lo capisco molto bene e non posso dar loro torto, credo, però, che si possa ancora cercare di riflettere un po’ di più e, perché no, frequentare i teatri un po’ più spesso…non sarebbe per niente male.

11- Sei sempre stato molto discreto, umile e professionale. Credi che queste tre cose ti abbiano aiutato nel tuo percorso artistico? Perché?

Il percorso artistico cresce con il lavoro e il lavoro porta ad essere professionale. Essere discreto e umile fa parte dell’uomo e sono ciò che mi rendono umano ed ho imparato che chi ti apprezza come persona ti apprezza anche come professionista.

12- Come spiegheresti la magia del teatro e del contatto diretto con il pubblico?

Incredibile: senti IL profumo a teatro, profumo di sudore e di fatica.

13- Per un ballerino conta di più la propria soddisfazione o quella del pubblico? Perché?

È un cerchio perfetto: il pubblico è la verifica di quanto bene uno faccia sul palco. Se è soddisfatto il pubblico, sei soddisfatto anche tu.

14- Pensi che dietro ad ogni corpo danzante, ad ogni vostro gesto che plasma l’aria e ad ogni passo che racconta storie ci sia un pensiero, una riflessione profonda che vada al di là della tecnica e della semplice esecuzione?

Credo sia un misto perché alcune storie ti toccano più nel profondo di altre e ti invitano ad una  maggiore riflessione; questo, però, non è detto che ti porti a fare meglio o peggio.

15- Cosa pensi della Filosofia al giorno d’oggi? Può essere utile per vivere (o forse sopravvivere)?

Se la filosofia è il campo che porta l’uomo a riflettere, allora oggi è assolutamente necessaria perché  l’uomo molto spesso è portato a essere banalmente una pecora che segue la pecora davanti a sé. E noi invece siamo uomini con il dono del pensiero.

Il movimento del corpo può raccontare l’Uomo, la sua interiorità si esplicita attraverso disegni nell’aria.

Con la danza l’Uomo scopre se stesso e il mondo, interpretando situazioni diverse, personaggi opposti tra loro, propri simili o completamente dissimili.

Tutto diventa un viaggio che si sviluppa passo dopo passo e che si rivela comprensibile solo alla fine, col senno di poi, perché viene interiorizzato in modo soggettivo da ogni spettatore.

Chissà quanti mondi diversi e possibili vengono creati durante l’esibizione di un ballerino!

“La danza è scoperta, scoperta, scoperta.” Martha Graham

Tutto questo è ciò che Leon ci ha trasmesso durante le sue esibizioni e che ci ha insegnato con le parole di questa intervista, tra cui traspaiono il senso di sacrificio e lo spirito avventuriero che devono caratterizzare un vero professionista di qualunque mestiere.

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Leon Cino]

X Factor: the sound of silence

Premessa: guardo X-Factor, e mi piace. Ricordo di aver visto la prima stagione su Rai 2, un po’ delle successive stagioni, e poi quasi tutte le puntate da quando è una produzione Sky – Freemantle Media. Lo guardo perché mi diverte, è un prodotto curato, ben confezionato – e soprattutto: avvincente, estremamente avvincente.
Tuttavia, non parliamo di musica. La musica è un elemento talmente marginale in questo programma da risultare quasi un elemento accidentale, superfluo. Come di fatto è. Il modello del “Talent Show” è tale da potersi plasmare a qualsiasi prodotto commerciale in grado fare audience: canto, ballo, moda, scrittura, tutto. Perché di questo si tratta – di un prodotto perfetto e convincente della più grande macchina da soldi che il mondo dell’intrattenimento abbia mai visto: l’industria dello ShowBusiness.
La musica commerciale non è necessariamente “la musica che vende”: non direi che The dark side of the moon dei Pink Floyd sia un album commerciale, nonostante i 50 milioni di copie vendute (è il terzo album più venduto di sempre). La musica commerciale è piuttosto la musica “fatta per vendere”, e cioè la musica inizialmente concepita come prodotto commerciale, e non artistico. Oggi (ma possiamo dire da trent’anni a questa parte) il mondo della musica è stato permeato e soppiantato dall’industria dello ShowBusiness, e diventando una delle tante “componenti” del mercato, non è più essenzialmente un mondo artistico. Non a caso si parla di “producers”: si producono canzoni e album, come si producono maglie, piastrelle o qualsiasi altro bene di consumo. Canzoni scritte con lo stampino, da alcuni bravi manager che sanno cosa vende e cosa no, perfettamente impacchettate per essere trasmesse dalle radio e dalle emittenti un tempo musicali e oggi più interessate a problemi di peso e ragazze madri, ed affidate alle star del momento. Per trovare qualcosa di artistico bisogna cercare tra le etichette indipendenti e sparuti casi di artisti prestati allo ShowBusiness – e qui si può trovare del bello e dell’originale, solo che molto spesso, per dirlo alla scolastica: ciò che è bello non è originale, ciò che è originale non è bello.
Ma allora perché da anni si sente dire che l’industria discografica è in crisi? Semplicemente perché, per dirla con una proporzione matematica, le case discografiche stanno allo ShowBusiness come le botteghe dei falegnami stanno all’Ikea. Oggi non si guadagna più sui dischi venduti: si guadagna con le visualizzazioni su Vevo o su Youtube, con il merchandising, con i download di iTunes dei singoli, con le pubblicità, con le comparizioni in TV, eccetera. Non è un caso che le tre più grandi “etichette” del momento (Sony, Warner Bros. e Universal) facciano parte di multinazionali che si occupano di elettronica, telefonia, cinema, videogame, televisione.
In tutto ciò, uno dei migliori modelli commerciali all’interno dello ShowBusiness è il Talent Show, grazie alla sua presa mediatica che coinvolge TV, Social Network, radio, etichette, insomma tutte le componenti dell’industria, le mette in moto e le fa fruttare. La mossa geniale di questo format è la spudorata autodenuncia che viene messa in luce ed esaltata ad opera degli stessi produttori. Potremmo descriverla così: io, multinazionale dell’entertainment, dimostro che sono talmente interessato alla componente artistica da andare a scovare giovani talenti genuini, farli competere e produrre un album al migliore di tutti, facendogli saltare la famosa gavetta. Se non che, in questo modo metto in luce che il successo o l’insuccesso di un talento oggi è interamente deciso non dalla qualità della sua arte bensì da un investimento o un non investimento economico o mediatico da parte dell’industria. E così, in trasmissioni di più di tre ore di diretta, il totale delle esibizioni musicali non supera la mezz’ora, i veri protagonisti sono i giudici, il presentatore, le coreografie, gli ospiti internazionali che vengono a promuovere le nuove uscite di proprietà degli stessi produttori della trasmissione, e così via. Al pubblico piacciono i siparietti, piace vedere cosa fanno i concorrenti durante la settimana, piace scoprire chi vince e chi perde. E questi talenti, che fino al mese prima suonavano nei bar o alle feste di paese, portando i propri pezzi, senza coreografie, soli con la propria autenticità, questi talenti dicevo sono un perfetto esercito di penny stock per i Jordan Belfort dello ShowBusiness, che con un investimento pari a zero possono sfruttarli finché fan comodo, magari produrre anche un paio di canzoni, venderli finché vendono, e cambiarli ogni anno, prima che il pubblico si annoi. Quello che resta, anno dopo anno, è la grande macchina, il grande show. Va tutto benissimo, ma non parlatemi di musica.
PS. Il motivetto pubblicitario della appena conclusa edizione di X-Factor Italia era un adattamento (orribile) di una delle più belle canzoni mai scritte: The sound of silence di Simon and Garfunkel. E’ talmente superflua la componente artistica in questi talent che i produttori forse non hanno neanche letto il testo della canzone. Voglio riportare qui una strofa particolarmente significativa.

And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share…
And no one dare
Disturb the sound of silence

Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google immagini]

Musica classica, quale futuro?

Al di là del tema comune della quasi impossibilità di fruizione immediata che la caratterizza, il nostro tempo ha un problema più profondo con la musica classica. Si è detto “quasi” perché solitamente con questo termine s’intende una categoria che tutti saprebbero individuare, ma è sorprendentemente difficile da definire e quindi altrettanto difficile è determinarne le qualità. Molti motivetti hanno superato la barriera dell’intenditore per diventare parte della cultura pop, infestando ad esempio il campo pubblicitario. Così come certe affermazioni filosofiche astratte dallo sfondo in cui si collocano sono diventate mantra contemporanei. Quando però si alza un po’ la mira gli unici a capirne qualcosa sono gli stessi musicisti e pochi intenditori. I più, tra cui si inserisce vergognosamente il sottoscritto, visitano questa forma d’arte come i turisti passano tra le antichità delle nostre città: da lontano e capendoci poco.

Dietro al declino della musica classica sembra esserci come uno sfasamento ontologico tra la dimensione temporale come era vissuta dal compositore nel passato e la dimensione temporale di cui fa esperienza l’uomo nel presente. Tanto il compositore quanto l’ascoltatore medio di ieri e di oggi creano e ascoltano una musica che abbia il ritmo del proprio tempo. Ciò a dire che la composizione e la fruizione della stessa viene inevitabilmente influenzata dal mondo in cui il soggetto vive. Usando la terminologia di una tradizione in disuso si potrebbe intendere la musica classica come una sovrastruttura, alla quale sono venute a mancare le condizioni materiali del proprio sostentamento. Un’ epoca in cui la durata di un paio di scarpe si misura in decadi produrrà inevitabilmente musica di una velocità al limite dell’incomprensibile per chi vive la contemporaneità in questa parte di mondo.

I nuovi compositori rimangono schiacciati quindi tra nuove condizioni dettate da esigenze di mercato: pezzi non più lunghi di qualche minuto, ad una certa velocità etc; l’ ombra magnifica della storia passata con cui dover fare i conti. Al giorno d’oggi compositori degni di nota non mancano anche restando in Italia, la notorietà raggiunta da qualcuno è però l’eccezione, non la regola. la tendenza è di plastificare la musica classica in due o tre autori (Bach, Mozart, Beethoven), banalizzando un’arte ricchissima di storia. La critica per lo più risulta incapace di stabilire canoni, di andare oltre i gusti personali e di ritrovarsi d’accordo a stabilire linee di sviluppo maggioritarie nella recente storia passata, facilita questo processo.
Gli stessi mezzi materiali di trasmissione della musica nella contemporaneità: radio, televisione, uniti alle “nuove” modalità di fruizione sembrano sfavorevoli a questa nobile arte. Una notevole eccezione è rappresentata dal grande schermo: il connubio con il cinema, nel quale immagine e musica si vengono ad intrecciare, ha dato nuova linfa e nuovo potenziale espressivo, ai compositori tra i quali Ennio Morricone e Philipp Glass.
Non si vuole sostenere qui una presunta superiorità aprioristica della musica classica su altri generi, la qualità di un componimento trascende il genere musicale in cui si situa. Si vuole solo indicare un animale bellissimo nel mondo della musica che sembra correre verso l’estinzione e in difesa del quale la sola appassionata dedizione non sembra aiutare.

Resta comunque da chiedersi quale sia il futuro di quest’arte, quando un ritorno ai ritmi e agli stili di vita di una volta sembra poco probabile se non impossibile e quando la tendenza mainstream riguardo la velocità dei bpm punta al rialzo. La musica classica tende non solo ad essere di nicchia questo, pur con significative variazioni, è sempre stata una sua prerogativa, ma anche tra i generi musicali di nicchia sta scomparendo, sostituita dal jazz, dal progressive rock ed altri.
Se la musica è uno degli strumenti con cui l’uomo interpreta il suo tempo e la musica che più viene venduta è di conseguenza quella che più lo rappresenta, lasciamo al lettore trarre le amare conclusioni.

Francesco Fanti Rovetta

Piccoli schermi crescono

I ciclici ricorsi non appartengono soltanto ai libri di storia. Anche il Cinema, nel corso degli anni, è stato protagonista di piccole rivoluzioni che ne hanno cambiato la forma ma non la sostanza. Tra queste, una delle più importanti e controverse è stata quella dell’incontro-scontro con la televisione. Un medium che, in questi mesi, si sta imponendo sempre di più con un unico e preoccupante obbiettivo: prendere il posto del Cinema sul grande schermo.

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